La modificabilità del contratto individuale ad opera della contrattazione aziendale e collettiva

Paolo Patrizio
28 Luglio 2017

La natura di fonti esterne di regolamentazione del rapporto di lavoro degli accordi collettivi fa sì che questi non possano modificare il contratto individuale in quanto non sono incorporati nello stesso.
Massime

La natura di fonti esterne di regolamentazione del rapporto di lavoro degli accordi collettivi fa sì che questi non possano modificare il contratto individuale in quanto non sono incorporati nello stesso.

Le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano invece dall'esterno sui singoli rapporti di lavoro, come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché, nell'ipotesi di successione fra contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (che attiene esclusivamente, ai sensi dell'art. 2077 c.c., al rapporto tra contratto collettivo ed individuale), restando la conservazione di quel trattamento affidato all'autonomia contrattuale delle parti collettive stipulanti, che possono prevederla con apposita clausola di salvaguardia. La stessa durata di un contratto collettivo rientra tra gli elementi disponibili da parte del sindacato.

Neppure si può ritenere che l'art. 2077, secondo co. c.c., possa essere interpretato nel senso che ogni accordo collettivo che attribuisce un nuovo diritto ai lavoratori, non previsto nei contratti individuali, vada a integrare i singoli contratti di lavoro con le clausole più favorevoli contenute al suo interno. In tal modo, si affermerebbe, sostanzialmente, che ogni contrattazione collettiva vada a incidere sui contratti individuali, con l'effetto di sottrarre alle stesse parti collettive la possibilità di modificare le pattuizioni raggiunte perché, una volta entrati negli accordi individuali, le stesse diverrebbero intangibili dagli accordi collettivi. È evidente che una tale interpretazione non è accettabile, poiché paralizzerebbe la contrattazione collettiva ed inoltre si pone in contrasto con la facoltà delle organizzazioni sindacali, pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità, di introdurre per il futuro clausole peggiorative.

Il caso

La controversia in esame trae vita dall'intrapresa decisione datoriale di disdettare, a partire dal 1 luglio 2015, un accordo integrativo stipulato in data 10 ottobre 2007, il quale prevedeva, al proprio art. 22, un premio aziendale da corrispondere ad una serie di dipendenti in possesso di determinati requisiti individuali.

Proponevano, dunque, ricorso i lavoratori in possesso dei requisiti previsti da tale norma contrattuale per il godimento del suddetto premio aziendale, di cui avevano beneficiato per anni, evidenziando come il premio previsto dall'art. 22 dovesse ritenersi individuale e non collettivo, da cui la conseguenza dell'intangibilità dello stesso, anche ai sensi dell'art. 2103 c.c., in quanto entrato nella “specifica retribuzione e quindi quale istituto del contratto individuale di lavoro” di ogni ricorrente.

Resisteva la società datrice di lavoro, affermando che il premio previsto dall'art. 22 dell'accordo del 2007 non poteva ritenersi una voce retributiva individuale ma, al contrario, era da considerarsi un premio collettivo, con la conseguenza, che, a seguito del recesso dall'accordo integrativo, l'azienda non era più tenuta a corrispondere detto premio.

La questione

La questione giuridica affrontata dalla decisione in esame concerne la tematica del “se” e del “come” la contrattazione collettiva possa incidere a livello individuale, ed, in particolare, della possibilità che un accordo intercorso tra soggetti diversi rispetto alle parti del contratto di lavoro possa modificarne il contenuto prevedendo la trasformazione di un premio da collettivo ad individuale, tanto da comportarne la successiva intangibilità in ipotesi di recesso datoriale dall'accordo integrativo generativo della stessa previsione premiale.

Le soluzioni giuridiche

Nel dirimere la controversia posto al suo vaglio, il Giudice del lavoro del Tribunale di Torino si discosta dai numerosi precedenti specifici di merito (v. Trib. Torino, sez. lav., n. 438/2016; Trib. Milano, sez. lav., n. 3200/2016; Trib. Milano, sez lav., n. 5051/2016; Trib. Milano, sez lav., n. 1477/2017; Corte d'Appello territoriale, sentenza n. 636/2016) evidenziando come le indicate pronunce si siano tutte concentrate sull'esame dei termini utilizzati dall'art. 22 dell'accordo integrativo aziendale in questione e sugli altri fattori che il codice civile prende in considerazione (agli artt. 1362 e seguenti) quali strumenti di interpretazione del dato contrattuale, al fine di determinare la natura individuale del premio ivi previsto dalle parti stipulanti, senza invece considerare l'ammissibilità del paventato meccanismo integrativo, ritenuto dal Magistrato torinese in contrasto con le norme che regolano i rapporti contrattuali tra parti.

Ed invero, ad opinione dell'estensore della sentenza in commento, “... anche volendo ritenere che le parti stipulanti con l'accordo del 2007 avessero chiaramente inteso attribuire un premio ad personam, non per questo motivo si può affermare che è stato modificato il contratto individuale dei lavoratori, laddove non sia individuato uno strumento giuridico che permetta alle parti di raggiungere questo risultato. Tale strumento giuridico non viene individuato nel ricorso introduttivo: alcune pronunce fanno riferimento all'art. 1340 c.c. e alla categoria giuridica dei diritti quesiti, ma si tratta di argomentazioni che non possono essere condivise..”.

Passando infatti in rassegna l'analisi dei singoli istituti giuridici potenzialmente rispondenti alla finalità oggetto di indagine, il Giudice del lavoro del Tribunale di Torino in primo luogo esclude l'applicabilità, alla fattispecie in esame, del disposto dell'art. 1340 c.c. (e, conseguentemente, che i contratti individuali dei lavoratori siano stati integrati del contenuto dell'accordo aziendale del 2007 tramite tale norma), sottolineando come “... La sentenza del Tribunale di Torino n. 438/2016, richiamata dalla giurisprudenza milanese prodotta e confermata dalla sentenza d'Appello n. 636/2016, afferma che “La previsione della conservazione del premio in favore dei predetti lavoratori costituisce una clausola di maggior favore inserita nel contratto individuale dei beneficiari ex art. 1340 c.c. integrandone il contenuto economico e restando insensibile alle successive modificazioni disposte da pattuizioni collettive”: tale statuizione non è condivisibile, in quanto altro, è appena il caso di rilevare che l'esistenza di un accordo (fonte-atto) è incompatibile con la permanenza di una consuetudine (fonte-fatto)…”.

In secondo luogo ed in rapida successione, il Magistrato torinese esclude l'ammissibilità del ragionamento compiuto dal Tribunale di Ivrea con la sentenza n. 31/2017 (secondo cui la disdetta dell'accordo aziendale non può causare conseguenze patrimoniali pregiudizievoli ai lavoratori in quanto, per il principio dei diritti quesiti, i diritti dei lavoratori derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole sono intangibili in quanto già entrati nel patrimonio dei singoli individui ) evidenziando come “... il diritto dei lavoratori a continuare a percepire il premio aziendale non rientra nella categoria giuridica dei diritti quesiti, poiché i diritti quesiti, intangibili da parte di una norma collettiva successiva, sono quelli “che sono già entrati a fare parte del patrimonio del lavoratore, quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita (v Cass. sez. lav., 11 novembre 1988, n. 6116). Ne consegue che la tematica dei “diritti quesiti” attiene unicamente a queste ultime posizioni, sicché la tutela ad essi garantita non è certo estensibile a mere pretese alla stabilità nel tempo di normative collettive più favorevoli o di mere aspettative sorte alla stregua di tali precedenti regolamentazioni”: di conseguenza, non si può correttamente parlare di diritti quesiti per il futuro...” .

In terzo luogo, l'estensore della sentenza in commento affronta il profilo dell'incorporazione, sottolineando come “ … le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano invece dall'esterno sui singoli rapporti di lavoro, come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché, nell'ipotesi di successione fra contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (che attiene esclusivamente, ai sensi dell'art. 2077 c.c., al rapporto tra contratto collettivo ed individuale), restando la conservazione di quel trattamento affidato all'autonomia contrattuale delle parti collettive stipulanti, che possono prevederla con apposita clausola di salvaguardia. La stessa durata di un contratto collettivo rientra tra gli elementi disponibili da parte del sindacato” .

In quarto luogo, il Giudicante affronta il tema della rappresentanza, qualificandola come lo strumento giuridico più idoneo a produrre effetti in capo ad un terzo, ma sottolineando come tale istituto non sia invocabile nel caso di specie, in quanto i suoi presupposti non sono stati oggetto di allegazione nel ricorso introduttivo, con la conseguenza che “… mancando la deduzione dei presupposti di fatto (né essendo state invocate le relative norme di legge), non possono trovare applicazione l'articolo 1389 c.c. né l'articolo 1399 c.c.

Quindi il Magistrato torinese passa a trattare del disposto dell'art. 2077 c.c., escludendone l'applicabilità al caso di specie, in quanto nella controversia sub iudice non si pone il problema di sostituire la norma individuale meno favorevole con quella collettiva, ma di integrare il contratto individuale di lavoro con la clausola dell'accordo del 2007 che introduce il premio aziendale. A detta dell'estensore, infatti, non “ … si può ritenere che l'art. 2077, secondo comma c.c., possa essere interpretato nel senso che ogni accordo collettivo che attribuisce un nuovo diritto ai lavoratori, non previsto nei contratti individuali, vada a integrare i singoli contratti di lavoro con le clausole più favorevoli contenute al suo interno. In tal modo, si affermerebbe, sostanzialmente, che ogni contrattazione collettiva vada ad incidere sui contratti individuali, con l'effetto di sottrarre alle stesse parti collettive la possibilità di modificare le pattuizioni raggiunte perché, una volta entrati negli accordi individuali, le stesse diverrebbero intangibili dagli accordi collettivi.. È evidente che una tale interpretazione non è accettabile, poiché paralizzerebbe la contrattazione collettiva ed inoltre si pone in contrasto con la facoltà delle organizzazioni sindacali, pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità, di introdurre per il futuro clausole peggiorative..”.

Il Tribunale di Torino vaglia, poi, l'ipotesi dell'invocabilità dell'istituto del contratto a favore di terzi, sottolineando come nel caso di specie le norme contenute negli artt. 1411-1413 c.c. potrebbero essere applicabili (nonostante non siano state richiamate nel ricorso introduttivo), in quanto l'art. 22 dell'accordo Auchan s.p.a. 2007 prevedeva che la società stipulante riconoscesse ai propri dipendenti, terzi rispetto a quell'accordo, il premio aziendale secondo le modalità ivi contemplate. Tuttavia, “… anche sostenendo che si sia dinanzi ad un contratto a favore di terzi, e che quindi costoro (ossia i lavoratori) abbiano acquisito il diritto contro il promittente per effetto della stipulazione (art. 1411 secondo comma c.c.), tale contratto non si sottrae alla normale regola di libera recedibilità dei contratti di durata, ai sensi dell'art. 1373 c.c., secondo comma…”.

Infine, l'estensore, stigmatizza l'operato richiamo dei ricorrenti al disposto dell'art. 2103 c.c., ritenendolo inconferente in quanto “ .. la retribuzione, intangibile secondo l'articolo 2103, riguarda quegli emolumenti per loro natura collegati con la qualità e quantità del lavoro prestato. Nel caso di specie, invece, il datore di lavoro non ha più riconosciuto un premio previsto da un accordo aziendale: se tale premio fosse corrispettivo della qualità e quantità del lavoro svolto, si dovrebbe affermare che ne avrebbero diritto, ai sensi dell'art. 36 Cost., tutti gli altri dipendenti Auchan s.p.a. che svolgono le medesime mansioni ..”.

Per le ragioni evidenziate, dunque, il Tribunale di Torino giunge alla determinazione di escludere che l'accordo aziendale in parola abbia modificato i contratti individuali dei lavoratori attribuendo loro il diritto personale di percepire il premio aziendale de quo, così concludendo che “.. nel momento in cui cessa di avere efficacia tale accordo collettivo, cessa anche la fonte del diritto dei lavoratori a percepire tale premio …”.

Osservazioni

La pronuncia in commento ha indiscutibilmente il pregio di aver offerto una vasta disamina sistemica e di carattere giuridico/dottrinale sull'importante tematica delle fonti esterne di regolamentazione del rapporto di lavoro ed, in particolare, dell'integrazione ed incidenza della contrattazione collettiva su quella individuale, giungendo pur tuttavia ad alcune conclusioni e passaggi argomentativi che risultano, a parere dello scrivente, non sempre pienamente condivisibili.

In primo luogo e sotto un profilo di chiarezza espositiva, appare opportuno, almeno per un attimo, affrontare separatamente la questione concernente l'individuazione dello strumento giuridico che consente l'integrazione dei contratti di lavoro individuali ad opera delle parti sociali, rispetto alla problematica riguardante la natura del premio riconosciuto ai lavoratori nell'accordo integrativo aziendale del 2007 ed alle relative ed eventuali conseguenze successive all'operata disdetta datoriale.

Ebbene, con riferimento al primo profilo summenzionato, certamente apprezzabile appare il ragionamento compiuto dall'estensore torinese in merito alla inapplicabilità (quale norma che consente l'integrazione del contratto individuale ad opera delle pattuizioni collettive di miglior favore) del disposto di cui all'art. 1340 c.c., sul presupposto che l'esistenza di un accordo (fonte-atto) risulterebbe incompatibile con la permanenza di una consuetudine (fonte-fatto).

Così come altrettanto condivisibile deve ritenersi la qualificazione dell'istituto della rappresentanza quale “… strumento giuridico più idoneo a produrre effetti in capo ad un terzo.. ” , posto che è proprio in tale meccanismo che si cristallizza e sintetizza, in ambito sindacale, l'intero archetipo della contrattazione ultra individuale tra contrapposti portatori di interessi diversi, con effetti in grado di ripercuotersi immediatamente nella sfera giuridica dei soggetti rappresentati dalle parti negoziali.

E dunque, senza volerci addentrare, per necessità di sintesi espositiva, nell'approfondita analisi della tematica della rappresentatività sindacale (in quanto abbisognevole essa sola di una stesura monografica), appare evidente come la chiave di volta dell'iniziale quesito giudiziale sia da rinvenire proprio in detto istituto, mentre meno incisivo sembra essere l'operato richiamo dell'estensore alle disposizioni di cui agli artt. 1411 e seguenti del c.c., dovendosi ritenere quantomeno stridente la qualificazione dei lavoratori interessati della pattuizioni collettive quali soggetti terzi, posto che, come è noto, l'idea stessa di rappresentanza esclude o meglio disabilità quella di terzietà.

Ed allora, è proprio accedendo al principio di rappresentanza in sede sindacale che si evince come, nella fattispecie in esame, la previsione premiale pattuita in sede di accordo aziendale del 2007 avrebbe potuto ritenersi necessariamente integrativa del contratto individuale dei ricorrenti, in quanto concordata dal datore di lavoro a livello aziendale con conseguente efficacia estesa a tutti i dipendenti, oltre che di fatto costantemente applicata e beneficiata dai lavoratori interessati per oltre un decennio.

Pacifici, del resto, i precedenti della Suprema Corte in materia, avendo l'organo della nomofilachia in più occasioni sancito come “ … I contratti collettivi aziendali sono applicabili a tutti i lavoratori dell'azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti …” (ex multis: Cass. sez. lav., 18 aprile 2012, n. 6044) e come “.. L'adesione ad un contratto collettivo può essere anche tacita e per fatti concludenti, ravvisabili nella concreta applicazione delle relative clausole (ex multis: Cass., sez. lav., 18 settembre 2015, n. 18408).

Se così è, una volta assodata la piena operatività dello strumento della rappresentanza quale meccanismo integrativo della contrattazione individuale da parte delle pattuizioni collettive aziendali, l'ulteriore questione da affrontare atterrebbe alla soluzione del secondo profilo involto dalla controversia oggetto della sentenza in commento e riguardante l'individuazione della natura del premio riconosciuto ai lavoratori nell'accordo integrativo aziendale del 2007, in uno alle conseguenze derivanti dalla successiva disdetta datoriale.

Ed invero, nonostante il Tribunale di Torino non sembri interessarsi specificamente della problematica (salvo tuttavia poi affrontare i profili dei diritti quesiti e dell'irriducibilità della retribuzione ex art. 2103 c.c.) appare evidente come solo l'accertamento della natura e della qualificazione “individuale” (in luogo di “collettiva”) della richiamata previsione premiale giustificherebbe la successiva eventuale invocata intangibilità della menzionata attribuzione da parte datoriale.

Condivisibili, in tal senso, appaiono le plurime decisioni di merito su richiamate (v. Trib. Torino, sez. lav., n. 438/2016; Trib. Milano, sez. lav., n. 3200/2016; Trib. Milano, sez. lav., n. 5051/2016; Trib. Milano, sez. lav., n. 1477/2017; Corte d'Appello territoriale, sentenza n. 636/2016) le quali, nell'interpretare l'accordo aziendale del 2007, si sono sforzate di indagare quale fosse stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, concordando nel ritenere che “… la norma contrattuale si esprime chiaramente nel definire le due componenti del premio aziendale come voci retributive individuali: tanto si desume in modo inequivoco dall'utilizzazione del termine “ad personam” abitualmente usato per definire i trattamenti retributivi che spettano solo ad un determinato lavoratore e non alla generalità dei dipendenti nonché dall'impiego dei termini “conservazione” ed “individualmente” che ulteriormente ribadiscono il permanere di quel trattamento di miglior favore a livello individuale. A seguito dell'accordo integrativo del 2007 il premio, quindi, perde la sua natura collettiva, il cui presupposto ineludibile è l'erogazione in favore di una collettività di dipendenti oggettivamente individuati, e viene conservato solo in favore dei dipendenti in possesso di certi requisiti di anzianità. ..” (v. Trib. Torre Annunziata, sez. lav., 30 novembre 2016, n. 2320) e che “.. d'altronde diversamente argomentando non si attribuirebbe significato al comma del medesimo articolo che dispone che “Tali istituti in ragione della loro origine di trattamenti contrattuali collettivi non sono assorbibili”: la non assorbibilità degli istituti collettivi è infatti dato pacifico, così come l'assorbibilità in assenza di disposizione contraria dei trattamenti personali (v. Cass., sez. lav., 9 luglio 2004, n. 12788) … Nel caso in esame, la disposizione de qua ha dunque chiarito che il trattamento in esame, benché individuale, deve ritenersi non assorbibile in ragione della sua origine (e non natura attuale) nella contrattazione collettiva..” (Trib. Milano, sez. lav., n. 934/2016)

Su tali presupposti, dunque, una volta riconosciuta la natura individuale della premialità ad personam prevista in favore di alcuni dipendenti in seno all'accordo aziendale del 2007; ed una volta acclarata la piena operatività dello strumento della rappresentanza quale meccanismo integrativo della contrattazione individuale da parte delle pattuizioni collettive aziendali, appare corretto escludere, sotto il profilo dogmatico e per le ragioni evidenziate dal Giudicante, la ricomprensibilità di detta premialità nell'alveo dei diritti quesiti (“in quanto limitati ai soli diritti che sono già entrati a fare parte del patrimonio del lavoratore, quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita), ma non può per converso non accedersi alla qualificazione di tale emolumento quale trattamento retributivo di maggior favore, entrato a far parte del contratto individuale di lavoro dei vari beneficiari.

Ne deriva allora, che, per un verso, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale di Torino, non potrebbe qualificarsi come inconferente il richiamo giustamente operato dai ricorrenti all'art 2103 c.c. ed al relativo principio di irriducibilità della retribuzione per volere unilaterale del datore di lavoro, pur dovendosi nondimeno considerare il profilo afferente la successiva indagine circa la bipartizione tra componenti intrinseche ed estrinseche della retribuzione (posto che, rispetto alle seconde, non opererebbe la garanzia di irribudibilità dell'art 2103 (v. Cass. sez. lav., 8 agosto 2007, n. 17435); mentre, per altro verso, chiaramente inefficace risulterebbe la previsione di eventuali successive modificazioni pattizie di natura collettiva e , peraltro non oggetto di rappresentazione alcuna nel caso fondante la pronuncia in commento.

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