La giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di compatibilità comunitaria della normativa sui contratti a termine

02 Settembre 2016

Con la direttiva 1999/70/Ce si è data attuazione all'accordo quadro sul contratto a tempo determinato concluso dalle organizzazioni intercategoriali a carattere generale.Con il presente contributo, insieme ad un altro che seguirà, l'Autore, partendo dai termini essenziali dell'accordo quadro, analiticamente descritti insieme alle interpretazioni giurisprudenziali della Corte di Giustizia, analizza la normativa italiana del contratto a termine. Dall'esame del D.Lgs n. 368/2001, attuativo della citata direttiva europea, all'ultimo decreto del 2015 che ha dettato una nuova disciplina dell'istituto.
La normativa comunitaria: l'accordo quadro

In materia di contratto a termine l'esame dei profili comunitari deve partire dalla Direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalle organizzazioni intercategoriali a carattere generale UNICE (Unione delle confederazioni delle industrie della Comunità europea), CEEP (Centro europeo dell'impresa a partecipazione pubblica) e CES (Confederazione europea dei sindacati).

Tale direttiva ha dato attuazione all'accordo quadro tra le associazioni sindacali comunitarie al dichiarato fine di prevenire le discriminazioni e gli abusi del ricorso al contratto a tempo determinato e non già di dettare una normativa comunitaria per tale tipologia di rapporto di lavoro che avrebbe ecceduto le competenze comunitarie. Si tratta di una direttiva "obiettivo", quindi non auto applicativa (così, da ultimo, Cass. S.U. 15 marzo 2016 n. 5072). Ed infatti al punto 15 del preambolo è scritto chiaramente che la direttiva vincola gli Stati membri quanto all'obiettivo da raggiungere, ma lascia agli stessi la scelta della forma e dei mezzi. L'obiettivo è quello realizzare di uno standard uniforme di tutele del lavoratore per prevenire le discriminazioni e l'abuso del ricorso al contratto a termine.



Un primo profilo da esaminare è quello relativo all'ambito di applicazione dell'accordo quadro.

La Corte di Giustizia (cfr., in particolare, sentenza Angelidaki, punto 116 e sentenza Sorge, punti 30 – 33) ha chiarito che esso riguarda anche il singolo contratto a termine. Viene invocata in proposito la clausola 2 dell'accordo quadro dalla cui formulazione si desume che essi si applica a ogni lavoratore a tempo determinato con un contratto o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore in ciascuno Stato membro (sentenza Angelidaki e a., cit., punto 114).

In particolare nella sentenza Sorge la Corte, premesso che, ai sensi della clausola 3 dell'accordo quadro in parola, la nozione di «lavoratore a tempo determinato» indica «una persona con un contratto o un rapporto di lavoro [a tempo determinato] definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore e il cui termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico», ha affermato che l'ambito disciplinato da tale accordo non è limitato ai soli lavoratori con contratti di lavoro a tempo determinato successivi ma, al contrario, si estende a tutti i lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell'ambito di un determinato rapporto di lavoro che li vincola ai rispettivi datori di lavoro, indipendentemente dal numero di contratti a tempo determinato stipulati da tali lavoratori (sentenza Angelidaki e a., cit., punto 116 e giurisprudenza ivi citata).


I termini essenziali dell'accordo quadro

In sintesi i termini essenziali dell' accordo quadro sono espressi nelle clausole di seguito elencate.

La clausola 3 fissa il principio della necessaria identificazione delle "condizioni oggettive". Poiché la fattispecie normale di rapporto di lavoro è costituita dal contratto a tempo indeterminato, il ricorso al contratto a termine deve essere giustificato da "condizioni oggettive". La clausola considera come condizione oggettiva legittimante il ricorso al contratto a termine, oltre al completamento di un compito specifico o al verificarsi di un evento specifico, anche il solo raggiungimento di una certa data.

La clausola 4 pone il principio di non discriminazione tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato.

A tal fine viene utilizzata la nozione di “lavoratore a tempo indeterminato comparabile”, la quale (clausola 3, comma 2), “indica un lavoratore con un contratto o un rapporto di lavoro di durata indeterminata appartenente allo stesso stabilimento e addetto a lavoro/occupazione identico o simile, tenuto conto delle qualifiche/competenze”. La medesima clausola 3 chiarisce (comma 3) che, in assenza di un lavoratore a tempo indeterminato comparabile nello stesso stabilimento, il raffronto (ai fine dell'applicazione del principio di non discriminazione) deve essere fatto con riferimento al contratto collettivo applicabile o, in mancanza di quest'ultimo, in conformità con la legge, i contratti collettivi o le prassi nazionali.

Ciò premesso la clausola 4 stabilisce che, per quanto riguarda le condizioni di impiego, lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive.

Deve sottolinearsi che la Corte di giustizia (cfr., fra le più recenti, sentenza 22 dicembre 2010, C‑444/09, Gavieiro) ha riconosciuto l'efficacia diretta del principio di non discriminazione di cui alla citata clausola 4.1 Si legge infatti nella sentenza citata che detta clausola esclude in generale e in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato per quanto riguarda le condizioni di impiego. Il suo contenuto appare quindi sufficientemente preciso affinché possa essere invocato da un singolo ed applicato dal giudice. Ha precisato altresì che, posto che il divieto di discriminazione non presuppone l'emanazione di alcun atto delle istituzioni dell'Unione, non è attribuita agli Stati membri la facoltà, in occasione della sua trasposizione in diritto nazionale, di condizionare o di restringere la portata del diritto stabilito in materia di condizioni di impiego.

Il riferimento al principio del pro rata temporis (clausola 4.2) costituisce chiaramente un contemperamento del principio di non discriminazione e comporta l'applicazione al lavoratore a tempo determinato dei trattamenti spettanti al lavoratore a tempo in determinato in proporzione al periodo di lavoro prestato. In sostanza sono riducibili proporzionalmente solo i trattamenti spettanti al lavoratore che siano strettamente legati alla ridotta durata delle prestazioni.

Altro profilo di grande interesse è costituito dalla clausola 5, che prevede misure di prevenzione degli abusi. E' da notare che la clausola si riferisce esclusivamente alla successione di contratti a termine che possa qualificarsi come abuso.

Essa indica alternativamente le misure idonee a prevenire gli abusi:
a) prescrizione di ragioni obiettive per il rinnovo;
b) durata massima dei contratti a termine;
c) numero massimo dei rinnovi.

La clausola è comunque elastica perché consente "misure equivalenti" ad una di queste appena indicate. In base a tale clausola, allo scopo di prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, tranne che non vi siano ragioni obiettive che giustifichino il rinnovo di tali contratti, sono tenuti ad introdurre una o più misure attuative della prevenzione degli abusi, fissando la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi o il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti. Ma possono anche introdurre altre prescrizioni parimenti orientate alla prevenzione degli abusi purché siano qualificabili come "norme equivalenti". Altresì - aggiunge la medesima clausola - è possibile una differenziazione che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, così coonestando la compatibilità comunitaria di discipline differenziate quale quella, nell'ordinamento italiano, dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

La clausola 5 nulla dice quanto alle conseguenze dell'eventuale abuso la cui disciplina pertanto è interamente rimessa alla discrezionalità del legislatore nazionale in un ampio e non definito spettro di alternative. La prevenzione dell'abuso implica una reazione con connotazioni, in senso lato, sanzionatorie dell'abuso stesso. Ma queste possono essere, in ipotesi, l'attribuzione di una ragione di risarcimento del danno oppure la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato oppure entrambe. Si potrebbero ipotizzare anche sanzioni amministrative oppure, ibridando il profilo risarcitorio con quello sanzionatorio, potrebbero configurarsi "danni punitivi". Lo spettro è ampio ed ampia è la discrezionalità del legislatore nazionale vincolato solo al parametro delle "misure equivalenti": al fine della compatibilità comunitaria la reazione "sanzionatoria" dell'ordinamento interno deve avere una forza dissuasiva non inferiore alle misure di prevenzione degli abusi previste dalla clausola 5 cit.

La clausola 8.3 pone la regola di non regresso per cui, in sede di attuazione della direttiva, non è possibile ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo (vale la pena ricordare che, in applicazione della suddetta tale prescrizione comunitaria, la Corte costituzionale (Corte cost. n. 41 del 2000) ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum abrogativo riguardante la legge 18 aprile 1962 n. 230 (al dichiarato fine di liberalizzare il contratto a termine), in quanto avente ad oggetto disposizioni la cui abrogazione avrebbe esposto lo Stato italiano a responsabilità nei confronti della Comunità europea.

Lo scopo della clausola è quello di impedire che in sede di modifiche del diritto interno concernente la disciplina del contratto a termine finalizzate ad adeguare tale disciplina alla Direttiva, si producano arretramenti del livello di tutela preesistente nei singoli ordinamenti nazionali.

E' stato giustamente osservato in dottrina (L. Di Paola) che tale clausola non attiene tanto a un giudizio di conformità tra Direttiva e normativa nazionale di recepimento, ma ad una verifica atta ad escludere che la legislazione interna di attuazione, pur conforme alla Direttiva, realizzi un peggioramento rispetto alla precedente disciplina nazionale. La Corte di giustizia (sentenza 23 aprile 2009, C‑378/07, Angelidaki) ha precisato che è compito del giudice nazionale quello di verificare l'esistenza di una regressione del livello di tutela ma ha precisato che peraltro “spetta, se del caso, alla Corte in sede di decisione sul rinvio pregiudiziale fornire al giudice del rinvio indicazioni utili a guidarlo nella sua valutazione sul punto di sapere se detta eventuale riduzione della tutela dei lavoratori con un contratto di lavoro a tempo determinato costituisca una «reformatio in peius» ai sensi della clausola 8, n. 3, dell'accordo quadro”.

Sull'interpretazione della clausola di non regresso si richiama quanto affermato dalla Sentenza 24 giugno 2010 (C‑98/09 Sorge). Dalla giurisprudenza della Corte emerge, da un lato, che la clausola 8, n. 3, dell'accordo quadro non può essere interpretata in modo restrittivo (sentenza Angelidaki, punto 113) e, dall'altro, che la verifica dell'esistenza di una «reformatio in peius» ai sensi della stessa clausola 8, n. 3 deve effettuarsi in rapporto all'insieme delle disposizioni di diritto interno di uno Stato membro relative alla tutela dei lavoratori in materia di contratti di lavoro a tempo determinato (sentenza Angelidaki e a., cit., punto 120). In altre parole detta clausola 8, n. 3, deve essere interpretata nel senso che la «reformatio in peius» da essa contemplata è da valutare in rapporto al livello generale di tutela che era applicabile, nello Stato membro interessato, sia ai lavoratori con contratti di lavoro a tempo determinato successivi, sia a quelli con un primo ed unico contratto a tempo determinato (sentenza Angelidaki, punto 121).

La condizione secondo cui la reformatio in peius deve riguardare il «livello generale di tutela» dei lavoratori a tempo determinato, implica che soltanto una reformatio in peius di ampiezza tale da influenzare complessivamente la normativa nazionale in materia di contratti di lavoro a tempo determinato può rientrare nell'ambito applicativo della clausola 8, n. 3, dell'accordo quadro (sentenza Angelidaki, punto 140, nonché ordinanza 24 aprile 2009, causa C‑519/08, Koukou, punto 119).

IL D.lgs 6 settembre 2001, n. 368

In attuazione della Direttiva sopra citata è stato emanato il d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 che fa esplicito riferimento alla Direttiva ed all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato. Il d.lgs. ha dettato una nuova disciplina del contratto a termine in conformità alla direttiva (disciplina rimasta in vigore fino al d.lgs. n. 81 del 2015).

In particolare in attuazione della clausola 3 dell'accordo quadro è stata prevista (art. 1) la prescrizione generale secondo cui è consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

Per quanto concerne l'interpretazione di tale disposizione basta richiamare il costante orientamento della Corte di legittimità (cfr., ad esempio, Cass. 27 aprile 2010 n. 10033), secondo cui "l'apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita dal citato art. 1 a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l'onere di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonché l'immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell'ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione fra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell'ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa. Spetta al giudice di merito accertare, con valutazione che, se correttamente motivata ed esente da vizi giuridici, resta esente dal sindacato di legittimità, la sussistenza di tali presupposti, valutando ogni elemento, ritualmente acquisito al processo, idoneo a dar riscontro alle ragioni specificatamente indicate con atto scritto ai fini dell'assunzione a termine, ivi compresi gli accordi collettivi intervenuti fra le parti sociali e richiamati nel contratto costitutivo del rapporto".

Con riguardo a questi ultimi questa Corte ha altresì chiarito che, "seppure nel nuovo quadro normativo ... non spetti più un autonomo potere di qualificazione delle esigenze aziendali idonee a consentire l'assunzione a termine, tuttavia, la mediazione collettiva ed i relativi esiti concertativi restano pur sempre un elemento rilevante di rappresentazione delle esigenze aziendali in termini compatibili con la tutela degli interessi dei dipendenti, con la conseguenza che gli stessi debbono essere attentamente valutati dal giudice ai fini della configurabilità nel caso concreto dei requisiti della fattispecie legale".

In argomento cfr. altresì Cass. 13 gennaio 2015 n. 343 secondo cui il citato art. 1, richiedendo l'indicazione, da parte del datore di lavoro, delle "specificate ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo", ha inteso stabilire, in conformità alla direttiva 1999/70/CE, come interpretata dalla Corte di Giustizia (sentenza del 23 aprile 2009, in causa C-378/07 ed altre; sentenza del 22 novembre 2005, in causa C-144/04), un onere di indicazione sufficientemente dettagliata della causale con riguardo al contenuto, alla sua portata spazio-temporale e, più in generale, circostanziale, sì da assicurare la trasparenza e la verificabilità di tali ragioni.

Per quanto concerne le conseguenze della violazione dell'art. 1 cit. la giurisprudenza della S.C. (cfr. Cass. 21 maggio 2008 n. 12985) ha chiarito, in via interpretativa, che, con riferimento appunto alla fattispecie dell'insussistenza delle ragioni giustificative del termine, pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza di tali ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonché alla stregua dell'interpretazione dell'art. 1 d.lgs. n. 368 del 2001 nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE, l'illegittimità del termine e la nullità della clausola di apposizione dello stesso comportano l'invalidità parziale relativa alla sola clausola e l'instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (in altre parole, conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato).


In attuazione della clausola n. 4, l' art. 6 del d.lgs. ha fissato il principio di non discriminazione rispetto al lavoratore a tempo indeterminato prevedendo che al prestatore di lavoro con contratto a tempo determinato spettano le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili, intendendosi per tali quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva, ed in proporzione al periodo lavorativo prestato sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine.

Con riferimento all'attuazione della clausola 5 dell'accordo quadro si deve far riferimento agli artt. 4 e 5 rispettivamente sulla disciplina della proroga e sulla successione di contratti a termine; disposizioni dirette appunto a contrastare l'abusivo ricorso al contratto a termine come richiesto dalla clausola 5 dell'accordo quadro. Da una parte l'art. 4, poi modificato dall'art. 1, comma 1, lett. b), d.l. 20 marzo 2014, n. 34, convertito in legge 16 maggio 2014, n. 78, ha previsto che il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive, il cui onere probatorio è a carico del datore di lavoro, e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Da ultimo è stata introdotta la durata complessiva del rapporto a termine che non potrà essere superiore ai tre anni e il cui superamento comunque costituisce un chiaro indice della fattispecie dell'abuso del ricorso al contratto a termine rispetto alla mera illegittimità dell'apposizione del termine al contratto di lavoro (limite poi confermato dall' art. 19, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015).

D'altra parte l'art. 5 ha posto una serie di limitazioni alla successione di rapporti a termine prevedendo la conversione del rapporto. Ha stabilito che, se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il trentesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini. Parimenti si considera a tempo indeterminato il secondo contratto qualora il lavoratore venga riassunto a termine entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai sei mesi.

Se invece due assunzioni successive a termine sono senza alcuna soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto.

Le modifiche al D.lgs n. 368

Il d.lgs. n. 368 del 2001 è stato modificato più volte, da ultimo - prima della sua abrogazione ad opera del d.lgs. n. 81 del 2015 (che ha dettato una nuova disciplina della materia) - ad opera del d.l. n. 34 del 2014, convertito in legge n. 78 del 2014. Ma nel complesso rimane l'attuazione delle tre clausole dell'accordo quadro suddetto, seppur con contenuti in parte variati. In particolare la fattispecie dell'abuso (clausola 5 dell'accordo quadro e art. 5 d.lgs. n. 368 del 2001) - inteso come successione di contratti a termine in violazione dei limiti di legge, che è fattispecie "aggravata" rispetto alla mera illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro - viene precisata meglio con l'introduzione del comma 4 bis nell'art. 5 d.lgs. n. 368 del 2001. Disposizione questa che - tipizzando un'ipotesi di abuso del ricorso reiterato a contratti a termine (poi confermata dall'art. 19, comma 2, d.lgs. 15 giugno 2015 n. 81 nel nuovo regime del lavoro a tempo determinato) ha previsto che, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato.

L'abusivo ricorso al contratto a termine - ed anzi, più in generale, l'illegittimo ricorso al contratto a termine - è fonte di danno risarcibile per il lavoratore che abbia reso la sua prestazione lavorativa in questa condizione di illegalità. Ma, quando il risarcimento del danno si accompagna alla conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato, il risarcimento del danno è contenuto nella misura fissata dall' art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010 n. 183, che prevede che, in tal caso, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604.

Con riguardo a quest'ultimo profilo (risarcimento del danno derivante dall'illegittima apposizione del termine) la Corte costituzionale (C. cost. n. 303 del 2011) ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183, sollevata in particolare nella parte in cui il comma 5 stabilisce, con riferimento ai casi di conversione del contratto a tempo determinato, il citato criterio di determinazione del risarcimento del lavoratore illegittimamente estromesso alla scadenza del termine. La Corte ha preliminarmente osservato che l'indennità onnicomprensiva suddetta assume una chiara valenza sanzionatoria essendo dovuta in ogni caso, e quindi anche in mancanza di danno e di offerta della prestazione. Nello stesso tempo però — in ragione di quello che la Corte ritiene un "equilibrato componimento dei contrapposti interessi" — è assicurato al datore di lavoro la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d'interruzione del rapporto fino a quella dell'accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso.




L' art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92, ha poi offerto l'interpretazione autentica dell'art. 32, comma 5, cit. chiarendo che l'indennità risarcitoria suddetta limita l'ammontare del risarcimento del danno dovuto a seguito della illegittima apposizione del termine ad un contratto di lavoro fissandolo nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto e disponendo che esso ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro. La questione di costituzionalità di tale norma di interpretazione autentica è stata ritenuta non fondata dalla Corte costituzionale (C. cost. n. 226 del 2014) anche con riferimento alla sua compatibilità, a livello di ordinamento comunitario, con l'accordo quadro suddetto. Ha posto in rilievo la Corte come la scelta di prevedere un'indennità forfettaria proporzionata risponda all'esigenza di «tutela economica dei lavoratori a tempo determinato più adeguata al bisogno di certezza dei rapporti giuridici tra tutte le parti coinvolte nei processi produttivi anche al fine di superare le inevitabili divergenze applicative cui aveva dato luogo il sistema previgente». Ha aggiunto la Corte che la clausola 8.3 dell'accordo quadro, nell'interpretazione fornita dalla Corte di giustizia, non preclude in via generale modifiche che possano essere ritenute peggiorative del trattamento dei lavoratori a tempo determinato allorché attraverso di esse il legislatore nazionale persegua obiettivi diversi dalla attuazione dell'accordo quadro.

Infine, ha aggiunto la Corte il ricorso ai criteri indicati dall'art. 8 della legge n. 604 del 1966, consente di calibrare l'importo dell'indennità da liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende, come la durata del contratto a tempo determinato (evocata dal criterio dell'anzianità lavorativa), la gravità della violazione e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili sotto l'indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno) altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonché le stesse dimensioni dell'impresa (immediatamente misurabili attraverso il numero dei dipendenti).

Deve inoltre sottolinearsi che la stessa Corte ha più volte affermato che «la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale» (C. cost. n. 148 del 1999), purché sia garantita l'adeguatezza del risarcimento (C. cost. n. 199 del 2005 e C. cost. n. 420 del 1991).

Corte cost. n. 226 del 2014: “Nella sentenza n. 303 del 2011 questa Corte ha individuato la ratio dell'art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 nella volontà di <<introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione>> a fronte delle <<obiettive incertezze verificatesi nell'esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente, con l'esito di risarcimenti ingiustificatamente differenziati in misura eccessiva>>. In essa è stato, inoltre, chiarito che l'art. 32, comma 5, citato <<non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine>>, ma va ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato che costituisce la <<protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario>>. La scelta di prevedere un'indennità forfettaria proporzionata risponde all'esigenza di <<tutela economica dei lavoratori a tempo determinato più adeguata al bisogno di certezza dei rapporti giuridici tra tutte le parti coinvolte nei processi produttivi anche al fine di superare le inevitabili divergenze applicative cui aveva dato luogo il sistema previgente>>. La finalità perseguita con l' art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, dunque, non era quella di recepire ed attuare l'accordo quadro in materia di contratto a tempo determinato, bensì quella di assicurare la certezza dei rapporti giuridici, imponendo un meccanismo semplificato e di più rapida definizione di liquidazione del danno (evitando accertamenti probatori in ordine alla mora accipiendi, all'aliunde perceptum, al percipiendum, ecc.) a fronte della illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro.

Analogo obiettivo è alla base della norma di interpretazione autentica contenuta nell'art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012. Tale disposizione, emanata all'indomani della sentenza n. 303 del 2011, sostanzialmente recepisce l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 che quella pronuncia conteneva. Questa Corte ha infatti affermato che il danno forfetizzato dall'indennità in esame <<copre soltanto il periodo cosiddetto "intermedio", quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto. A partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva>>.


A fronte delle divergenze interpretative che pur dopo tale pronuncia erano emerse nella giurisprudenza di merito, il legislatore è intervenuto accogliendo e rendendo vincolante l'interpretazione data da questa Corte all' art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, allo scopo di <<scoraggiare ulteriore contenzioso>> (così la relazione al disegno di legge 3249 presentato al Senato il 5 aprile 2012). Questi elementi consentono di ravvisare l'obiettivo perseguito dal legislatore, ancora una volta, nella esigenza di assicurare certezza nella quantificazione del risarcimento del danno spettante al lavoratore in caso di illegittima apposizione del termine al contratto, rendendo cogente la soluzione, già prevista, che bilanciava le opposte pretese del lavoratore e del datore di lavoro, nonché nello scoraggiare ulteriore contenzioso. Se, dunque, l'intento perseguito da entrambe le disposizioni è quello di stabilire un criterio uniforme e certo per la quantificazione del danno allo scopo di semplificare il contenzioso, allora ne consegue che esse si collocano fuori dall'ambito di applicazione della clausola 8.3 dell'accordo quadro e che pertanto non sussiste alcuna violazione di detta clausola e, conseguentemente, degli evocati parametri costituzionali”.

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