Il sistema di tutele previsto dal Jobs Act sottoposto all'esame della Corte Costituzionale
26 Settembre 2017
Massime
Deve ritenersi non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 7, lettera c) L. n. 183/2014 e degli artt. 2, 4 e 10 D.Lgs. n. 23 del 2015 per contrasto con gli artt. 3, 4, 76 e 117, I comma Costituzione, letti autonomamente ed anche in correlazione tra loro. In relazione all'art. 3 Cost., in quanto l'importo dell'indennità risarcitoria disegnata dalle norme del c.d. "Jobs Act" non riveste carattere compensativo né dissuasivo ed ha conseguenze discriminatorie; ed inoltre in quanto l'eliminazione totale della discrezionalità valutativa del giudice finisce per disciplinare in modo uniforme casi molto dissimili fra loro; in merito all'art. 4 ed all'art. 35 Cost., in quanto al diritto al lavoro, valore fondante della Carta, viene attribuito un controvalore monetario irrisorio e fisso; infine per gli artt. 117 e 76 Cost., in quanto la sanzione per il licenziamento illegittimo appare inadeguata rispetto a quanto statuito da fonti sovranazionali come la Carta di Nizza e la Carta Sociale, mentre il rispetto della regolamentazione comunitaria e delle convenzioni sovranazionali costituiva un preciso criterio di delega, che è stato pertanto violato. Il caso
L'ordinanza in commento è stata resa nell'ambito di un procedimento d'impugnativa di licenziamento individuale. La lavoratrice ricorrente, assunta formalmente in data 11 maggio 2015, si era vista licenziare pochi mesi dopo, il 15 dicembre del medesimo anno. La società datrice di lavoro, nella missiva inviata alla dipendente, aveva giustificato la rinunzia alla prestazione lavorativa invocando la ricorrenza di un giustificato motivo oggettivo.
Nel corso del giudizio la parte datoriale aveva preferito rimanere contumace. Il Magistrato romano, pertanto, non poteva che constatare come la parte resistente avesse omesso di dimostrare la fondatezza della motivazione posta a base del licenziamento, ciò anche alla luce della estrema genericità dei contenuti della lettera recapitata alla ricorrente. Allo stesso modo, rimaneva incontestato quanto sostenuto dalla lavoratrice circa la consistenza dell'impresa, giudicata in possesso dei requisiti dimensionali di cui all'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Tanto posto, in considerazione della data d'assunzione della lavoratrice, evidentemente successiva a quella, il 7 marzo 2015, di entrata in vigore del cosiddetto Jobs Act, la soluzione della controversia appariva dover essere regolata dall'art. 3 del medesimo D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23. La questione
Proprio l'esame delle caratteristiche del corpus normativo del 2015 ed il confronto con le disposizioni precedentemente vigenti costituiscono le premesse sulle quali il Tribunale di Roma fonda la propria ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale.
Come noto, l'art. 3 D.Lgs. n. 23/2015 non ricollega la reintegrazione nel posto di lavoro ad alcuna ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto in mancanza dei relativi presupposti: in tali eventualità, il Decreto contempla esclusivamente la condanna al pagamento di un'indennità monetaria pari ad un numero di mensilità ricompreso tra quattro e ventiquattro in ragione dell'anzianità di servizio. Ben diversamente disponeva l'art. 18, L. 20 maggio 1970, n. 300, nella sua versione precedente alle modifiche del 2015: per il caso di manifesta insussistenza del fatto posto a base di un siffatto licenziamento, era prevista la reintegra ed il pagamento di un'indennità risarcitoria sino a dodici mensilità; per tutti gli altri, meno gravi, difetti di giustificazione dell'allontanamento del lavoratore, operava la condanna al pagamento di un'indennità compresa tra dodici e ventiquattro mensilità.
Secondo il Giudice della Capitale, la successione normativa sopra riassunta, calata nel caso di specie, comporta, per la ricorrente, il passaggio da una tutela comprensiva della reintegrazione nel posto di lavoro ad una limitata al pagamento di un'indennità, peraltro nella misura minima di quattro mensilità, data la ridotta anzianità maturata.
Da qui si origina il dubbio di costituzionalità riguardante il Decreto del 2015: il sistema di tutele architettato da tale fonte, secondo il Giudice a quo, appare tale da privare i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 di gran parte degli istituti tuttora posti a protezione di chi può vantare una maggiore anzianità; inoltre, esso priva l'Autorità Giudiziaria della possibilità di graduare la risposta dell'ordinamento in base all'effettiva gravità delle condotte datoriali, essendo state sostanzialmente ricondotte al solo art. 3 del D.Lgs. n. 23/2015 tutte le possibili ipotesi di violazione del giustificato motivo oggettivo del licenziamento. Le soluzioni giuridiche
Sono vari i profili di contrarietà alla Carta fondamentale illustrati dall'ordinanza in commento; pare comunque di poter affermare che il Tribunale di Roma abbia basato il proprio ricorso incidentale soprattutto al (ritenuto) contrasto con l'art. 3 Cost.
Partendo dall'assunto secondo cui il sistema di indennità di cui al D.Lgs. n. 23/2015 non costituirebbe un adeguato ristoro per i lavoratori a causa del modesto ammontare delle medesime, il Tribunale rileva come ciò cagioni un “regresso di tutela... irragionevole e sproporzionato”, fonte di un'inaccettabile differenziazione tra vecchi e nuovi assunti.
L'insufficienza delle ridette indennità emergerebbe, prosegue il ragionamento del Giudice romano, dal paragone delle stesse con l'ammontare degli sgravi contributivi previsti per le nuove assunzioni dal D.Lgs. n. 190/2014: la preponderanza dei secondi sulle prime incoraggerebbe i datori di lavoro ad un tourbillon di nuove assunzioni (per garantirsi le agevolazioni) seguite nel breve periodo da licenziamenti contraddistinti da un firing cost particolarmente favorevole. Il sistema sanzionatorio del 2015, in altre parole, non sarebbe tale da dissuadere le imprese dall'abbracciare politiche occupazionali così disinvolte. Inoltre, essendo le penalità in parola quantificate in misura fissa, verrebbe eliminata la facoltà dell'Autorità Giudiziaria di valutare in concreto il pregiudizio sofferto dal lavoratore e la gravità dei vizi riscontrati, con la conseguenza di vedere applicare trattamenti uniformi a situazioni fattuali diverse tra loro.
Un'altra disparità andrebbe poi rinvenuta nell'esclusione della nuova disciplina ai dirigenti, che pertanto rimangono tutelati da un apparato indennitario di ben maggiore consistenza nei valori minimi.
Il regime del 2015, in definitiva, sarebbe foriero di irragionevoli disparità di trattamento con i lavoratori assunti in data anteriore al 7 marzo 2015, rendendo spiccatamente preferibile, nell'ottica del datore di lavoro, rinunziare alla professionalità dei dipendenti di più recente assunzione. Il Tribunale di Roma ricorda, citando la sentenza della Corte Costituzionale 13 novembre 2014, n. 254, come l'applicazione di trattamenti differenziati a fattispecie analoghe non possa dirsi sempre contrario a Costituzione, essendo il “fluire del tempo” un elemento ben in grado di diversificare situazioni giuridiche. Nondimeno, a parere del Giudice rimettente, la differenziazione introdotta nel 2015 non sarebbe ispirata a criteri tali da oggettivamente giustificare la scelta compiuta dal legislatore, un'opzione che infatti appare fondata solo sul dato “accidentale ed estrinseco” al rapporto lavorativo, incapace di mutare l'essenza del medesimo, della data di assunzione.
L'ordinanza non tralascia neppure di rammentare che il testo finale del D.Lgs. n. 23/2015 mostra di avere ignorato le raccomandazioni della XI Commissione Lavoro, seduta del 17 febbraio 2015, per un incremento della misura delle indennità in parola; né viene sottaciuto come le ridette tutele non possano effettivamente dirsi “crescenti”, dato che l'apparato del Decreto prevede solo un aumento degli indennizzi e non l'accesso a forme di tutela più complete per il lavoratore.
Il Tribunale di Roma analizza poi più rapidamente la ritenuta contrarietà agli artt. 4 e 35 Cost. Il fatto che la tutela del lavoratore licenziato per (asserito) giustificato motivo oggettivo sia lasciata ad una “quantificazione tanto modesta ed evanescente” viene addirittura considerato come un sostanziale ripristino della facoltà di licenziare; la mercificazione del rapporto di lavoro, inoltre, avrebbe pesanti ricadute sulla forza contrattuale del dipendente e sull'esercizio degli altri diritti nascenti dal sinallagma, aspetti questi sui quali farebbe aggio la prospettiva del licenziamento, evocabile dal datore di lavoro con molti meno timori rispetto al passato ante 2015 verso le conseguenze di un simile comportamento.
Infine, il Giudice rimettente si sofferma sul contrasto con gli artt. 76 e 117 Cost. Il D.Lgs. n. 23/2015 viene considerato non conforme a varie fonti sovranazionali assunte a norme interposte del giudizio di costituzionalità: il riferimento è all'art. 30 della Carta di Nizza, alla Convenzione ILO 158/1982 ed all'art. 24 della Carta Sociale Europea nell'interpretazione fornita dalle pronunzie del Comitato Europeo dei Diritti Sociali. In particolare quest'ultimo organo, non dotato, come noto, di poteri giurisdizionali, ha più volte chiarito, da ultimo con due distinte decisioni del 31 gennaio 2017, che il ristoro dovuto al lavoratore licenziato senza giustificato motivo deve essere adeguato al danno subito dal licenziato e dissuasivo per il datore di lavoro: caratteristiche che non sarebbero riscontrabili, per le ragioni già considerate, nelle indennità normate dal Jobs Act. L'ordinanza di rimessione naturalmente si chiude considerando la possibilità di interpretare l'art. 3, D.Lgs. n. 23/2015, in modo costituzionalmente conforme. Tale strada sarebbe però impraticabile, in quanto porterebbe l'Autorità Giudiziaria (per il tramite di una equiparazione tra licenziamento ritorsivo e licenziamento ingiustificato già di per sé ritenuta “una forzatura”) a determinare in modo autonomo la sanzione ritenuta congrua per queste ultime fattispecie, così usurpando le prerogative del Legislatore. Osservazioni
Ancora una volta, la Corte Costituzionale si vede investita di una questione contraddistinta da non troppo nascoste implicazioni politiche: al vaglio della Consulta giunge infatti il “Jobs Act” che appare avere contraddistinto l'azione dello scorso Governo e che è stato considerato quale risposta del nostro ordinamento alle istanze di modernizzazione del mondo del lavoro provenienti dalle istituzioni sovranazionali e dal mondo imprenditoriale.
Per quanto l'ordinanza in commento si sforzi di spiegare come la rimessione al Giudice delle Leggi non si basi sulla soppressione, nelle ipotesi sopra viste, della tutela reintegratoria in favore del dipendente, è proprio questo aspetto, e cioè il profilo di più impattante novità introdotto dal D.Lgs. n. 23/2015, ad essere centrale nella questione. È del resto su questo crinale che emerge in tutta la sua rilevanza la divergenza tra le tutele riservate a vecchi e nuovi assunti lamentata dal Tribunale di Roma. Ma nondimeno, è proprio tale scelta del Legislatore a giustificare il significato del Decreto in parola: è stato ed è la rimodulazione delle tutele contro il licenziamento illegittimo lo strumento principale con il quale si è inteso incentivare il ricorso al rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Tale rimodulazione, si è visto, è stata limitata solo alle nuove assunzioni, ma ciò appare comprensibile con l'intenzione di non rimettere in discussione diritti acquisiti e la conservazione della pace sociale.
Scendendo all'esegesi del provvedimento di rimessione, pare che si trovi conferma di quanto testè esposto. Si è visto come il profilo della contrarietà all'art. 3 Cost. costituisca la magna pars del ragionamento condotto dal Giudice a quo; orbene, nello sviluppare la questione, sono ricorrenti i riferimenti a quella nozione di ragionevolezza che più d'ogni altra, nella giurisprudenza costituzionale, si presta ad argomentazioni potenzialmente confliggenti con i principi di separazione dei poteri propri del nostro ordinamento. Lo sviluppo di tale concetto, infatti, pur collocandosi sul piano della verifica della tenuta costituzionale del bilanciamento tra interessi consacrato nel testo legislativo, si pone in pericolosa prossimità con la sfera della scelta delle posizioni giuridiche da tutelare, attività quest'ultima propria del potere legislativo.
Nel seguire lo sviluppo dell'ordinanza del Tribunale romano, proprio l'opzione di riservare ai lavoratori di più recente assunzione le nuove, più ridotte, tutele introdotte dal Decreto rappresenta il fulcro della (ritenuta) incostituzionalità del Jobs Act.
Come riconosciuto dalla stessa ordinanza, la Corte Costituzionale ha invero da tempo enunciato che “il fluire del tempo - il quale costituisce di per sé un elemento diversificatore che consente di trattare in modo differenziato le stesse categorie di soggetti, atteso che la demarcazione temporale consegue come effetto naturale alla generalità delle leggi - non comporta, di per sé, una lesione del principio di parità di trattamento sancito dall'art. 3 della Costituzione” (così la Corte Cost., 26 giugno 2007, n. 234; negli stessi termini Corte Cost., 29 maggio 2009, n. 170).
Ora, il Giudice rimettente contesta che, nel caso di specie, l'avere affidato l'applicabilità delle nuove norme solo al dato temporale rappresenta una decisione arbitraria, essendo la circostanza della data di assunzione in sé insufficiente a giustificare la disparità di trattamento venutasi a creare tra lavoratori che magari svolgono le stesse mansioni e si differenziano tra loro esclusivamente – appunto – per l'anzianità di servizio.
Se ciò appare incontestabile, sembra però che il Tribunale di Roma non si sia soffermato sulla ratio legis: quella cioè, come dichiarato nell'epigrafe del Decreto, di procedere ad una generale riorganizzazione della disciplina del lavoro subordinato privato onde conformarla alle esigenze del contesto occupazionale e produttivo.
Ciò non è senza rilevanza, poiché la Consulta, in un'altra decisione sul ruolo del passaggio del tempo nelle vicende legislative, ha chiarito come "l'elemento temporale sia un legittimo criterio di discrimine allorquando esso intervenga a delimitare le sfere di applicazione di norme nell'ambito del riordino complessivo della disciplina attinente ad una determinata materia” (così Corte Cost., 28 marzo 2008, n. 77).
Dato per assodato che il provvedimento legislativo ha assunto quale suo unico riferimento, al fine della determinazione del proprio campo di applicazione, lo scorrere del tempo, sembra proprio che, per decidere se una tale opzione sia conforme a Costituzione, occorrerà (anche) soffermarsi sul ruolo che il medesimo Decreto riveste nell'ambito dell'intero diritto del lavoro italiano.
Ove si accedesse alla visione di esso quale architrave di una profonda riforma di sistema, ciò che in effetti il testo stesso pretende di risultare, si farebbe vieppiù impervia, per la Consulta, la via dell'accoglimento della questione posta dal Tribunale di Roma: così operando, la Corte Costituzionale si porrebbe in contrasto con quanto da essa affermato con l'Ordinanza n. 77/2008, finendo per imporre le proprie convinzioni in tema di scelta degli interessi da tutelare e di strumenti a tale scopo predisposti, compito quest'ultimo che dovrebbe essere proprio del legislatore.
Diversamente, la qualificazione delle modifiche legislative del 2015 quali meri componenti di un quadro, il complesso della normativa in tema di accesso al lavoro subordinato, rimasto intatto nei propri fondamentali, sembrerebbe schiudere al Giudice delle Leggi ben più pervasivi poteri di intervento senza che possa essere mosso alla Corte l'addebito di travalicare dalle proprie competenze: tanto sulla scorta dell'Ordinanza 24 febbraio 2010, n. 61, con la quale la Consulta si è avocato il diritto di sancire l'irragionevolezza di un criterio discretivo di natura solo temporale ove esso sia “affetto da manifesta arbitrarietà intrinseca”. In questa eventualità, infatti, l'organo giurisdizionale non andrebbe a sovrapporre le proprie valutazioni a quelle espresse dal legislatore, bensì interverrebbe al più limitato scopo di riportare coerenza in un insieme di norme comunque create dal potere costituzionalmente deputato a fare ciò.
Tornando all'esame dell'ordinanza del Tribunale romano, ci si sofferma di seguito su alcune considerazioni a sostegno degli ulteriori profili di contrasto con la Carta fondamentale.
Il motivo B, ritenuta contrarietà agli artt. 4 35 “ripristino della libertà assoluta di licenziamento” ) che sembrano più che altro rappresentare autentici giudizi, per quanto autorevoli, sugli effetti potenzialmente riconducibili al D.Lgs.n. 23/2015 .
Cosi per quanto riguarda l'ultimo motivo, ritenuta contrarietà agli artt. 76 117 indennità previste dal Jobs Act comeinadeguate (per il ristoro del danno sofferto lavoratore) e nondissuasive (per il datore di lavoro), i rilievi del Giudicea quo finiscano per travalicare l'area del confronto della norma con la Legge fondamentale, risolvendosi nel suggerimento di una complessivarevisione del sistema di tutele posto dalle disposizioni del 2015: un suggerimento rivolto al destinatario sbagliato.
L'ultima parte dell'ordinanza, quella dedicata all'impraticabilità dell'interpretazione conforme, pone un problema in tema di interpretazioneanalogica del Decreto in esame. Già si è visto come il Tribunale di Roma abbia ritenuto diescludere la riconducibilità del caso particolare portato al suo esame alla categoria del licenziamento nullo, regolato dall'art. 2 del Jobs Act: l'opzione viene infatti definita“equiparazione fra licenziamento ritorsivo, ovvero in frode alla legge, e licenziamento (gravemente, ma solamente) ingiustificato” , fonte oltretutto, sempre nel caso specifico, di una virtuale pronunzia affetta daultrapetizione
Tuttavia, la riconducibilità al regime ex art. 2 di circostanze come quelle sottoposte al Giudice rimettente, caratterizzate, lo si ricorderà, dall' assenza di giustificazioni, da parte del datore di lavoro, del provvedimento adottato, sembra meritevole di approfondimenti ulteriori.
A tutta prima, il D.Lgs. n. 23/2015 appare chiaro: al licenziamento per giustificato motivo oggettivo si collega solo la tutela risarcitoria, senza che giochi alcun ruolo l'eventuale insussistenza del fatto materiale alla base del provvedimento datoriale. E si noti come quest'ultima circostanza rilevi, e molto, nei licenziamenti per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa, riaprendo la strada della reintegra.
Questo, però, finisce per creare un disallineamento con le protezioni riservate dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ai dipendenti di più lunga anzianità. È noto, infatti, che l'art. 18, al co. 7, effettui una distinzione tra il caso di insussistenza del fatto a fondamento del licenziamento e le rimanenti ipotesi di non ricorrenza dei presupposti del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Anche alla luce della recente riformulazione di quest'ultima norma, risalente solo al 2012, se ne deve quanto meno derivare che non esiste, nel nostro ordinamento, una nozione di non ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo così ampia da ricomprendere l'eventualità in cui un simile atto sia fondato sul nulla. Appare particolarmente difficile, infatti, ricollegare una novità così dirompente ad un comportamento omissivo, ovvero al silenzio serbato in proposito dal legislatore.
Se ciò è corretto, allora, con il conforto di parte della dottrina e della giurisprudenza, pare non più così avventata l'idea di qualificare altrimenti le eventualità in esame, ricorrendo alle categorie della nullità. Illuminante, in proposito, una decisione del Tribunale di Trento che ha qualificato “arbitrario” e conseguentemente nullo ex artt. 1343 e 1345 c.c. il licenziamento “determinato unicamente dalla finalità di espellere il lavoratore dal contesto lavorativo, senza che vi siano, neppure nelle originarie convinzioni del datore, ragioni giustificative, né di ordine oggettivo, né di natura soggettiva”.
L'adesione all'interpretazione proposta dal Tribunale trentino non permetterebbe di annullare le differenziazioni tra vecchi e nuovi assunti rilevate nell'ordinanza di rimessione in esame; nondimeno, essa avrebbe il pregio di eliminare la discrasia proprio con riferimento alle situazioni caratterizzate dall'uso distorto delle facoltà datoriali simili a quella che è stata sottoposta al vaglio del Giudice a quo, al contempo “salvando” la costituzionalità dell'art. 3 del Jobs Act.
In conclusione, come si premetteva, la Consulta si troverà ad operare una disposizione di particolare rilevanza, assurta a summa delle opzioni politiche e legislative del passato Esecutivo a proposito di una realtà di fondamentale importanza come quella della regolazione del lavoro.
L'ordinanza di rimessione è espressiva di una preoccupazione di rilevanza altrettanto capitale, quella di riaffermare con forza il principio (che dovrebbe permanere tra quelli centrali del nostro sistema di diritto del lavoro) che nega cittadinanza ad ogni prassi distorsiva del datore di lavoro volta a surrettiziamente riprodurre nell'ordinamento il recesso ad nutum.
Ciò nondimeno, si ritiene che un simile obiettivo avrebbe potuto essere raggiunto in maniera potenzialmente meno lacerante per i rapporti tra le istituzioni affidando alla magistratura ordinaria, di merito e di legittimità, il compito di rimediare con la propria opera interpretativa alle indubbie criticità della trama del Jobs Act. |