Allorquando il datore di lavoro impone al proprio dipendente l'utilizzo, nel corso della prestazione lavorativa, di una divisa aziendale per esigenze di ordine, decoro e visibilità e la stessa divisa si limita a preservare gli abiti civili dall'ordinaria usura e dallo sporco-
Massime
"Allorquando il datore di lavoro impone al proprio dipendente l'utilizzo, nel corso della prestazione lavorativa, di una divisa aziendale per esigenze di ordine, decoro e visibilità e la stessa divisa si limita a preservare gli abiti civili dall'ordinaria usura e dallo sporco- genericamente inteso (senza avere riguardo a speciali fattori nocivi o patogeni) - connessi all'espletamento dell'attività lavorativa, il costo del lavaggio della divisa spetta al prestatore di lavoro."
Il caso
Alcuni lavoratori dipendenti di una Società cantieristica navale hanno proposto ricorso ex art. 414 c.p.c. chiedendo l'accertamento dell'obbligo in capo al datore di lavoro di provvedere alla regolare manutenzione ordinaria e quindi al lavaggio periodico della tuta di lavoro aziendale, ravvisando la fonte di tale obbligo nell'ambito delle prescrizioni in materia di sicurezza ed igiene del lavoro di cui all'art. 32 Cost., nonché agli artt. 2087 c.c. e 40 del D. Lgs. n. 626/1994; conseguentemente hanno chiesto la condanna della Società convenuta al risarcimento del danno economico subito ex art. 1218 e ss. c.c. sin dalla data di assunzione, in ragione dell'esborso di somme e costi sostenuti per il lavaggio periodico mensile dell'indumento di protezione. La Società datrice di lavoro si è costituita in giudizio rilevando che, a mente del disposto di cui all'art. 40 del D. Lgs. n. 626/1994, le tute da lavoro fornite ai propri dipendenti non possono essere qualificate come dispositivo di protezione individuale (c.d. D.P.I.), bensì loro unica funzione è quella di rendere distinguibili i dipendenti all'interno del cantiere per tipologia di mansioni e per categoria di appartenenza. Peraltro, ha evidenziato la convenuta che detto indumento non presenta alcuna caratteristica tecnica tale da renderlo idoneo a fungere da schermo protettivo rispetto a qualsivoglia tipo di agente esterno, considerato che nelle ipotesi di rischio di esposizione ad agenti pericolosi connessi al particolare tipo di mansioni od attività i dipendenti sono dotati di specifici indumenti atti a svolgere funzione di protezione (ad es. tuta in gomma, giubbotto in pelle, etc.). Il Tribunale adito ha rigettato integralmente le richieste dei ricorrenti, ritenendo che le tute di lavoro fornite loro dalla Società non possano essere qualificate come D.P.I.
La questione
Le questioni in rilievo sono due: a) quale sia la nozione di dispositivo di protezione individuale, c.d. D.P.I., riconosciuta ex lege; b) quale sia l'ambito di responsabilità del datore di lavoro per quel che riguarda gli abiti da lavoro e i Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) e la loro manutenzione.
Le soluzioni giuridiche
La sentenza in commento pone un tassello importante nella disciplina degli obblighi del datore in materia di sicurezza sul lavoro. Sotto il primo profilo (di cui al punto a) che precede) è opportuno rammentare che - come noto -, l'art. 32, comma primo, della Costituzione, sancisce la tutela della salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività. Inoltre, l'art. 2087 c.c., che ha un valore sussidiario rispetto alla normativa speciale dettata per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, in quanto presuppone che risultino insufficienti o inadeguate le misure all'uopo previste dalla normativa speciale, dispone che “l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Con riferimento alle altre norme richiamate dalla sentenza in commento, l'art. 40, D. Lgs. n. 626/94 definisce il dispositivo di protezione individuale (DPI) come “qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo”. Dunque, la nozione di D.P.I., quale si rinviene nella odierna legislazione è una nozione tecnica e non fondata su norme di comune esperienza, in quanto strettamente collegata alla nozione di rischio, anch'essa-a sua volta- desumibile da dati tecnico-scientifici che il datore di lavoro deve analizzare al fine di predisporre i DPI più idonei a realizzare il ruolo che l'ordinamento gli ha assegnato di garante della salute e sicurezza dei lavoratori. Ne discende - come peraltro è già chiaro dalla lettera della norma -, che non sono dispositivi di protezione individuale gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificatamente destinate a proteggere la salute e la sicurezza del lavoratore. A tale riguardo, anche il Ministero del Lavoro ha precisato che gli indumenti di lavoro non sono necessariamente destinati ad una funzione protettiva, ma possono assolvere a varie funzioni come, ad esempio, quella di elemento distintivo di appartenenza aziendale, di mera preservazione degli abiti civili, ecc. Ed invero, il Ministero con circolare n. 34 del 26 aprile 1999, al fine di dirimere i dubbi interpretativi sorti in ordine alla specifica destinazione degli indumenti di lavoro ad assolvere ad una “funzione di protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori”, ha fissato il principio direttivo secondo cui gli indumenti di lavoro possono assolvere a diverse funzioni, e segnatamente: a) elemento distintivo di appartenenza aziendale, ad esempio uniforme o divisa; b) mera preservazione degli abiti civili dalla ordinaria usura connessa all'espletamento dell'attività lavorativa; c) protezione da rischi per la salute e sicurezza. Conseguentemente, l'unica ipotesi in cui tali indumenti possono ritenersi sussumibili nell'ambito dei dispositivi di sicurezza è quella richiamata sub c), ovvero allorquando gli stessi assolvono alla funzione di protezione dai rischi, ai sensi dell'art. 40 del D. Lgs. 19 settembre 1994 n. 626 e, quindi, soddisfano tale “vincolo di scopo”. Il collegamento tra nozione di DPI e rischio rileva anche in ordine all'ambito dell'obbligo di manutenzione dei DPI che è direttamente collegato alla necessità di non alterare le caratteristiche protettive del singolo DPI, laddove all'art. 43 del citato decreto stabilisce (tra l'altro) che “Il datore di lavoro:a) mantiene in efficienza i DPI e ne assicura le condizioni d'igiene, mediante la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie”. In altri termini, non è l'attività svolta che qualifica un indumento come dispositivo di protezione individuale o meno, bensì la natura di quest'ultimo intesa come precipua idoneità e/o destinazione funzionale alla salvaguardia della “salute e sicurezza” del lavoratore da agenti nocivi e tossici. Nell'ambito di detto quadro normativo, venendo dunque al secondo argomento prospettato, la questione centrale – e particolarmente controversa - posta dalla sentenza in commento - consiste nei criteri distintivi pratici tra i dispositivi di protezione individuale ed il vestiario uniforme dei lavoratori. Tale distinzione è rilevante in ordine all'individuazione del soggetto al quale spetta la manutenzione del vestiario, ivi compresa l'assunzione dei costi del lavaggio dello stesso. Ed invero, mentre la disciplina sui DPI pone a carico del datore di lavoro l'obbligo di manutenzione del vestiario di protezione, la cura e la buona conservazione del vestiario uniforme non destinato alla sicurezza deve ritenersi incombente sul lavoratore, essendo tale vestiario assimilabile ai normali indumenti. Ai sopradetti fini, il dato normativo cui fare riferimento è il disposto dell'art. 40 del D. Lgs. n. 626/94, che se è vero che delinea una definizione ampia dei dispositivi di protezione individuale ( cfr. I comma, “qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro”), parimenti è inconfutabile che esclude espressamente dal novero dei dispositivi di protezione individuale gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore. In particolare, al comma secondo lettera a) del suddetto articolo si escludono dal novero dei DPI “gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore”. Tale conclusione conserva la sua validità anche alla luce della nuova normativa in materia di D.P.I. come prevista dagli artt. 74 ss. del D. Lgs. n. 81/08 ove si consideri che il legislatore all'art. 74, I comma, ha confermato che per dispositivo di protezione individuale si intende “qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo”. Ne discende che solo laddove la tuta fornita al dipendente, e dallo stesso obbligatoriamente indossata per lo svolgimento della sua attività, sia idonea a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore è possibile qualificare tale indumento in termini di dispositivo di protezione individuale. In applicazione dei suddetti principi il Giudice di merito è partito dal necessario accertamento se le tute distribuite ai lavoratori ricorrenti in giudizio potessero essere considerate DPI, rilevando preliminarmente che il materiale e la conformazione delle stesse “non hanno caratteristiche differenziate e tanto meno requisiti tali da costituire un vero e proprio dispositivo di protezione individuale (come sarebbero, per esempio, gli accessori in pelle da indossare sopra la tuta per saldature pericolose), dal momento che le stesse non sono intrinsecamente (per composizione tecnica o per modello) deputate in termini mirati a salvaguardare l'incolumità o la salute dei lavoratori rispetto all'esposizione a determinati rischi patogeni connessi a specifiche lavorazioni”. Il ragionamento del Giudice di merito prosegue prendendo le mosse dall'istruttoria svolta nel corso del giudizio mediante l'assunzione della prova testimoniale, che ha consentito di accertare che la Società convenuta ha assegnato ad ogni ricorrente, così come a tutti i propri dipendenti, più di una tuta “ed ha predisposto spogliatoi muniti di docce, di panche per sedersi durante il cambio di indumenti ed armadietti individuali numerati per ogni dipendente suddivisi in due parti distinte, una deputata ai vestiti personali e l'altra alla tuta da lavoro”, ciò che farebbe ritenere che la Società convenuta ha “inteso riconoscere – nella sostanza- alle tute in questione la natura di strumento idoneo a salvaguardarne soltanto la pulizia personale dei dipendenti in relazione allo svolgimento dell'attività lavorativa”. Tuttavia, detta funzione delle tute di lavoro, ovvero esclusivamente di riconoscimento dei dipendenti all'interno dell'unità produttiva e/o al più di eventuale preservazione degli abiti civili dalla ordinaria usura connessa all'espletamento dell'attività lavorativa, non consente che alle stesse possa essere attribuita natura di D.P.I., e pertanto alcun obbligo può essere riconosciuto in capo al datore di lavoro di garantirne l'efficienza, peraltro non previsto dal CCNL che esclusivamente impone un obbligo di fornitura. Dunque, come correttamente rilevato nella sentenza in commento, la tuta fornita periodicamente ai dipendenti è fabbricata con un normale tessuto che non presenta alcuna caratteristica tecnica che sia tale da renderla idonea alla protezione dall'esposizione a qualsiasi tipo di agente esterno più di quanto non possa esserlo qualunque tipo di indumento personale con il quale il dipendente si rechi sul posto di lavoro.
Osservazioni
La soluzione accolta dal Tribunale di Gorizia mediante la pronuncia in commento sono da approvare in quanto coerente con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (confermato, anche, con la sentenza n. 13745 del 17 giugno 2014 ove la Suprema Corte ha ritenuto congruamente motivata la pronuncia della Corte territoriale che ha escluso che le tute in questione costituissero dispositivi individuali di protezione, ai sensi degli artt. 40 e 41 D. Lgs n. 626 del 1994, sulla base di una duplice considerazione: a) le caratteristiche intrinseche degli indumenti (tute di stoffa) che li rendevano inidonei a svolgere una funzione di protezione della salute del lavoratore da rischi specifici dell'ambiente di lavoro ed in particolare dal contatto con sostanze nocive; b) la prospettazione in domanda solo di una generica possibilità di venire in contatto con le dette sostanze ha escluso la natura di DPI delle uniformi. Sulla scorta di detta premessa la Corte di legittimità ha precisato che “Le caratteristiche e la tipologia di tali indumenti escludono che gli stessi possano essere considerati DPI alla luce della normativa in vigore, non possedendo la funzionalità tipica dei DPI e cioè un'adeguata protezione dai rischi di contatto con sostanze nocive (per lavorazioni come quelle cui era addetto il ricorrente) essendo stati forniti solo per preservare gli abiti civili dall'usura connessa all'espletamento dell'attività lavorativa. Si tratta di un accertamento di natura squisitamente fattuale motivato congruamente ed ancorato ad elementi desunti dalla stesse prospettazioni di parte ricorrente e quindi insindacabile come tale in questa sede, che porta ad escludere in radice non solo la dedotta assimilazione tra le tute fornite al dipendente del Comune di ... e i DPI, ma anche ogni nesso tra la tutela della salute e dell'igiene del dipendente exart. 32 Cost. ed ex art 2087 c.c. e la domanda formulata in questa sede processuale”.
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