L'irrisolto problema della "preesistenza" del ramo nel trasferimento di parti di azienda

16 Febbraio 2015

Secondo l'ultimo inciso del quinto comma dell'art. 2112 cod. civ. il ramo di azienda, definito una “articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata”, in caso di cessione può essere identificato “come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento".
Abstract

Secondo l'ultimo inciso del quinto comma dell'art. 2112 c.c. il ramo di azienda, definito una “articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata”, in caso di cessione può essere identificato “come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento". Nonostante il dato letterale si è andato affermando nella giurisprudenza di legittimità un orientamento per il quale il legittimo trasferimento di ramo d'azienda non può prescindere dalla sussistenza del requisito della “preesistenza” di una “articolazione funzionale autonoma di una attività economica organizzata”. Del tema è stata investita di recente la Corte di Giustizia Europea, che tuttavia, con una sentenza del 6 marzo 2014, non sembra aver dato una soluzione definitiva alla questione.

Il quadro interpretativo dell'art. 2112, co. 5, cod. civ., ante decisione della Corte di Giustizia nella causa C-458/2012

Dopo un decennio di dispute dottrinarie ed interpretative sul tema della preesistenza del ramo nei trasferimenti di parti di azienda - anche se in realtà la Cassazione, come si vedrà, negli ultimi anni ha mantenuto un orientamento piuttosto coerente - la speranza, se qualcuno ce l'aveva, che la Corte di Giustizia europea finalmente investita della questione potesse chiudere questo capitolo controverso è andata certamente frustrata.
Il conflitto interpretativo è noto. Ai fini dell'applicazione dell'art. 2112 c.c., il ramo di azienda è definito dal codice come "trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento".
L'ultimo inciso, per l'appunto, costituisce il nodo della questione. Cosa si intende per "articolazione funzionalmente autonoma ... identificata come tale al momento della cessione"? Ovviamente il problema non si pone nei casi in cui l'art. 2112 c.c. venga evocato per tutelare il diritto del lavoratore a vedere trasferito il suo contratto di lavoro insieme con l'azienda ceduta, o con la parte di essa che è stata trasferita. La questione sorge invece in quei casi di outsourcing nei quali il lavoratore è costretto, a prescindere dal suo consenso, a subire il trasferimento del proprio rapporto di lavoro alle dipendenze dell'outsourcer.
I giudici nazionali si sono perlopiù preoccupati di interpretare l'inciso in parola in chiave anti frode, per il fatto incontestabile che la norma ben può offrirsi a finalità elusive di tutele assicurate dall'ordinamento a diritti inderogabili dei lavoratori. Anche se non sempre la finalità anti elusiva è stata esplicitamente posta a fondamento delle singole decisioni. Anzi, la Corte di Cassazione ha affermato con decisione che “nessun limite, neppure implicito, è stato posto alla libertà dell'imprenditore di dismettere l'azienda che sia sanzionato con l'invalidità o inefficacia dell'atto, il che dimostra l'inconsistenza giuridica della tesi della nullità di una cessione che, lungi dal tendere alla conservazione dell'azienda, si realizzi in condizioni e con modalità tali da renderne probabile la dissoluzione. La validità della cessione, cioè, non è condizionata alla prognosi favorevole alla continuazione dell'attività produttiva, e, di conseguenza, all'onere del cedente di verificare le capacità e potenzialità imprenditoriali del cessionario.” (sentenza 2 maggio 2006, n. 10108, LG, 2006, 877, nt. BARRACO; un principio analogo, più di recente, è stato affermato nella sentenza 18 ottobre 2011, n. 21484).
Nonostante tale decisione la Suprema Corte ha nella sostanza continuato a interpretare l'art. 2112 c.c., con ottica anti elusiva. Per fare ciò ha valorizzato la “preesistenza” dell'articolazione funzionale autonoma del ramo di azienda ceduto come elemento ontologico della cessione stessa, sottolineando l'affermazione logica secondo cui non si può cedere ciò che non esista già. Il superamento del dato letterale dell'ultimo inciso del quinto comma del citato art. 2112, per cui l'identificazione del ramo può anche essere compiuta dagli imprenditori soggetti del contratto di cessione, è stato rafforzato con richiami all'ordinamento europeo, con l'affermazione che il quadro normativo europeo non avrebbe consentito di ritenere legittima una simile operazione.
In quella che consta essere stata la prima sentenza della Cassazione dopo la riforma del quinto comma dell'art. 2112 c.c. che ha portato all'attuale formulazione della norma codicistica (sentenza 4 dicembre 2012, n. 21711), la Suprema Corte ha esplicitamente affermato che può essere legittimamente trasferito un ramo di azienda, ai fini del legittimo correlato trasferimento dei contratti di lavoro senza consenso dei lavoratori, purché sia "preesistente come entità produttiva funzionalmente autonoma e non si tratti di una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo".
In tale sentenza la Cassazione ribadisce la necessità di una lettura in chiave anti frode della norma in questione (“... tanto la normativa comunitaria - direttive CE nn. 98/50 e 2001/23 - quanto la legislazione nazionale - art. 2112 c.c., comma 5 sostituito dal D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 32 - perseguono il fine di evitare che il trasferimento si trasformi in semplice strumento di sostituzione del datore di lavoro, in una pluralità di rapporti individuali, con altro sul quale i lavoratori possano riporre minore affidamento sul piano sia della solvibilità sia dell'attitudine a proseguire con continuità l'attività produttiva").
Inoltre, la Corte di legittimità tende a creare una simbiosi tra il concetto di “entità economica” utilizzato nelle direttive europee e definito nelle sentenza della Corte di Giustizia, e dall'altro “l'articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica” definita dal quinto comma dell'art. 2112 c.c., per concludere che proprio tale articolazione, nonostante il chiaro dettato della legge, a dover preesistere alla cessione del ramo di azienda.
Tuttavia, nell'occasione, la Suprema Corte non si nasconde l'esistenza di “talune difformi opinioni basate sul dato letterale dell'assenza, nelle Direttive comunitarie, del concetto di preesistenza”, ma ciò non scalfisce minimamente la convinzione della necessità di operare dell'ultimo inciso del quinto comma dell'art. 2112 cod. civ. una lettura restrittiva, anti elusiva, sostanzialmente fondata sul completo superamento del dato letterale della legge.

Le attese per la decisione della Corte di Giustizia Europea

Il dubbio che l'ordinamento europeo non desse pieno di sostegno alla tesi della “preesistenza di una articolazione funzionale autonoma” quale necessario presupposto di legittimità della cessione del ramo di azienda, sotto il profilo giuslavoristico, diffuso tra gli interpreti e gli studiosi, ha probabilmente mosso il Tribunale di Trento ad investire la Corte di Giustizia Europea di una questione pregiudiziale avente il seguente quesito: “Se la disciplina dell'Unione europea in tema di 'trasferimento di parte di azienda' [in particolare l'articolo 1, paragrafo 1, lettere a) e b), in riferimento all'articolo 3, paragrafo 1, della direttiva (...) 2001/23(...)], osti ad una norma interna, quale quella dettata dall'articolo 2112, comma 5, del codice civile, che consente la successione del cessionario nei rapporti di lavoro del cedente, senza necessità del consenso dei lavoratori ceduti, anche qualora la parte di azienda oggetto del trasferimento non costituisca un'entità economica funzionalmente autonoma già preesistente al trasferimento, tanto da poter essere identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento".
Si è forse ritenuto che di fronte a tale quesito, inesorabilmente chiaro ed esplicito, la Corte di Giustizia avrebbe finalmente convinto tutti sulla necessità o meno, anche nell'ordinamento europeo, di vedere nella preesistenza di un ramo autonomo e articolato il necessario presupposto di una valida esternalizzazione.
Con la sua decisione invece, la Corte di Giustizia ha ribadito ciò che sul fronte nazionale è stato troppo spesso trascurato, ossia che l'ordinamento europeo, con le sue direttive sul tema e le sue decisioni applicative, non si è preoccupata affatto del problema italiano della validità della cessione del contratto di lavoro inerente ad un trasferimento di ramo di azienda, ma dell'opposta necessità di tutelare i lavoratori in tutti i casi in cui, con contratto trasparente ovvero con simulate operazioni di dismissioni di attività, si fosse realizzato un trasferimento di azienda, o di parte di essa. Tutta la disciplina europea sul tema verte su tali ipotesi ed è finalizzata a salvaguardare, mantenere, i diritti dei lavoratori nei casi di cessione aziendale, e non già a tutelare il diritto dei lavoratori all'annullamento della cessione nei propri confronti, anche se tale diritto si realizza, nel nostro ordinamento nazionale, sulla base dei medesimi principi, fondati sulla sussistenza di una legittima cessione di ramo di azienda, applicati a contrario.
Le tre direttive europee emesse nella materia — 1977/187/Cee, 1998/50/Ce e 2001/23/Ce —hanno una finalità specifica, dichiarata nell'intestazione: "ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti", e prevedono particolari tutele (informazioni sindacali, applicabilità ai contratti flessibili, etc.) con esclusivo riferimento alla salvaguardia dei diritti dei lavoratori presso l'impresa o l'azienda cessionaria.
Anche le decisioni della Corte di Giustizia riguardano casi tipici di tutela presso, o contro, il cessionario. Spesso ci cita, per esempio, la sentenza C-305/1994 (C. giust. 14 novembre 1996, C-354/94), nella quale si afferma il diritto dei lavoratori a proseguire il lavoro presso il cessionario dal momento in cui è stata trasferita l'azienda, anche se nel contratto di cessione è stata stabilita una diversa data di efficacia per la cessione dei contratti di lavoro. Si veda anche un'altra sentenza spesso citata (C-51/00 - C. giust. 24 gennaio 2002, C-51/00), nella quale si afferma la sussistenza di un trasferimento di azienda in un complesso intreccio di successione di subappalti.
Pertanto la tutela dei diritti dei lavoratori garantita dalla normativa comunitaria si esprime in una sola direzione, che ha riguardo al mantenimento presso il cessionario dei diritti acquisiti del lavoratore ceduto.

La decisione C-458/2012 (Amatori + altri) della Corte di Giustizia e la mancata soluzione alla questione italiana

Nel contesto sopra evidenziato, la Corte di Giustizia ha mantenuto fede ai propri precedenti, finendo per disilludere chi aveva diversamente sperato in una soluzione definitiva della questione.
Nel rispondere al quesito del Tribunale di Trento, la Corte europea ha affermato: "L'articolo 1, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, la quale, in presenza di un trasferimento di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell'ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un'entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento.
In sostanza la Corte di Giustizia, avendo in mente solo la fattispecie disciplinata dalle direttive europee in materia (1977/187/Cee, 1998/50/Ce e 2001/23/Ce), concernente il mantenimento dei diritti del lavoratore nelle cessioni di ramo aziendale, e non già l'opposta fattispecie tutta italiana del diritto ad essere reintegrato presso il cedente in caso di trasferimento illegittimo di ramo, ha nella sostanza affermato che, ovviamente, non è contro le norme europee la facoltà di uno Stato membro di tutelare la continuità del rapporto di lavoro ed il mantenimento dei diritti di lavoratori anche nel caso in cui il ramo aziendale ceduto non fosse preesistente presso il cedente, perché ciò costituisce indubbiamente, nella prospettiva in cui si muove la Corte europea, un allargamento dei diritti dei lavoratori.
Ciò tuttavia ha lasciato senza soluzione il differente problema della legittimità della cessione di un ramo "non preesistente", quando si discute della validità del trasferimento del contratto di lavoro privo del consenso del lavoratore.

In conclusione

Il conflitto interpretativo continua quindi ad essere affrontato e risolto in modo differente dai giudici italiani.
E non è tanto la sussistenza di una forma di preesistenza del ramo di azienda ceduta a dividere gli interpreti, quanto la consistenza della stessa, essendo evidente che una cosa è ritenere sufficiente, per sostenere la legittimità di una cessione di ramo, l'identità - quindi la sostanziale preesistenza - dell'entità economica ceduta, così come definitiva dalle direttive europee (in tale direzione, si veda la sentenza della Corte d'Appello di Milano n. 987/2013, pubblicata il 17 luglio 2014), altra cosa è richiedere, ai fini della legittimità della cessione di ramo, la preesistenza di una “articolazione funzionale autonoma”, che non lascia alcuno spazio alla possibilità di operare una identificazione del ramo al momento della cessione (si veda, da ultimo Cass. 16 maggio 2014, n. 10868).

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