“L'art. 24, comma quarto, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214 non prevede un diritto potestativo del lavoratore di restare a lavoro sino al raggiungimento del settantesimo anno di età, atteso che il prolungamento del rapporto di lavoro viene configurato dal legislatore soltanto come obiettivo oggetto di incentivazione, presupponendo quindi pur sempre un accordo tra le parti, in mancanza del quale opera il limite generale dei requisiti minimi per l'accesso alla pensione di vecchiaia previsto dai rispettivi ordinamenti”.
Massima
“L'art. 24, comma quarto, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214 non prevede un diritto potestativo del lavoratore di restare a lavoro sino al raggiungimento del settantesimo anno di età, atteso che il prolungamento del rapporto di lavoro viene configurato dal legislatore soltanto come obiettivo oggetto di incentivazione, presupponendo quindi pur sempre un accordo tra le parti, in mancanza del quale opera il limite generale dei requisiti minimi per l'accesso alla pensione di vecchiaia previsto dai rispettivi ordinamenti”.
Il caso
Un lavoratore dirigente era stato licenziato dall'Azienda di radiotelevisione al raggiungimento dei 66 anni e tre mesi di età, limite ordinamentale individuato dal D.L. 201/2011 per il conseguimento della “nuova” pensione di vecchiaia. Il medesimo lavoratore aveva comunicato la sua intenzione di proseguire l'attività lavorativa sino a 70 anni, ai sensi dell'art. 24, comma quarto, D.L. 201/2011, ma la Società aveva ribadito di voler recedere dal rapporto.
La questione
La questione in rilievo è la seguente: il lavoratore, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 24, comma quarto, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214, ha o meno il diritto potestativo di restare al lavoro sino a 70 anni di età?
Le soluzioni giuridiche
La sentenza in commento affronta diverse problematiche, ma la più interessante ed avente portata generale è senz'altro quella relativa all'esistenza o meno di un diritto potestativo del lavoratore di restare in servizio sino al raggiungimento del settantesimo anno di età. La massima rilevanza della questione è confermata anche dalla recente ordinanza interlocutoria della Cassazione n. 23380 del 3 novembre 2014, che ne ha rimesso la definizione alle Sezioni Unite, così motivando: “l'estrema delicatezza e la particolare importanza della questione fin qui esaminata risiedono proprio nel fatto che qualsiasi soluzione venga adottata si finisce inevitabilmente per incidere sull'assetto degli equilibri del sistema pensionistico di una determinata categoria con ripercussioni a catena sul sistema contributivo, ipotizzato dalla normativa invocata, o su quello retribuivo, applicato nella fattispecie fino al momento del licenziamento, ragion per cui si ritiene doveroso sottoporre la presente vertenza all'esame del Primo Presidente della Corte affinchè valuti l'opportunità di assegnarla alla Sezioni Unite di questa Corte”. Orbene, la norma di legge in esame (art. 24, comma quarto, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214) prevede che: “Per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell'Assicurazione Generale Obbligatoria (di seguito AGO) e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della l. 8 agosto 1995, n. 335, la pensione di vecchiaia si può conseguire all'età in cui operano i requisiti minimi previsti dai successivi commi. Il proseguimento dell'attività lavorativa è incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall'operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settant'anni, fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita, come previsti dall'articolo 12 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla l. 30 luglio 2010, n. 122 e successive modificazioni e integrazioni. Nei confronti dei lavoratori dipendenti, l'efficacia delle disposizioni di cui all'articolo 18 della l. 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità”. La Corte d'Appello arriva all'esclusione del diritto potestativo partendo proprio dal dato testuale della norma. Infatti, l'interpretazione proposta “si fonda su chiari elementi letterali della norma dell'art. 24 d.l. n. 201/2011 che, diversamente dal passato (art. 6, co. 1°, d.l. n. 791/1981; art. 6, co. 1°, l. n. 407/1990), non prevede una facoltà di “opzione” nella titolarità del lavoratore (nel qual caso il datore di lavoro si trovava effettivamente in una situazione di mera soggezione al cospetto di un vero e proprio diritto potestativo del lavoratore). Dunque è proprio questa la ragione che impedisce l'accoglimento del reclamo e della domanda principale del [omissis]. L'esatta ricostruzione della situazione soggettiva del lavoratore non è quella del diritto potestativo, né quella di un'aspettativa di fatto, che richiede – per la sua soddisfazione – l'accordo con il datore di lavoro. Nel caso in esame questo accordo non si è concluso, in quanto la proposta negoziale avanzata da [omissis], di prolungare ulteriormente il suo rapporto di lavoro, non è stata accettata dalla [omissis]”. La questione è tuttavia molto controversa e non mancano pronunce in senso contrario che hanno invece affermato il diritto del lavoratore di restare a lavoro sino a 70 anni secondo un'interpretazione teleologica per cui si sarebbe di fronte ad una riforma che tra le sue finalità annovera anche quella di incrementare la vita lavorativa e di “alleggerire” di conseguenza gli oneri gravanti sul sistema previdenziale, in una logica di differimento dell'accesso ai trattamenti pensionistici e di contenimento della relativa spesa (cfr. Tribunale di Torino, 18 giugno 2013 n. 1413).
Osservazioni
A parere dello scrivente, l'orientamento che esclude la sussistenza del diritto potestativo a restare a lavoro sino a 70 anni poggia su basi interpretative più solide. Infatti, l'art. 24, quarto comma, D.L. 201/2011 contiene unicamente la previsione di un incentivo alla permanenza in servizio fino al settantesimo anno di età, incentivo che si realizza da un lato attraverso l'applicazione di coefficienti di trasformazione calcolati in base all'articolo 12 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 e dall'altro attraverso la previsione che ‘l'efficacia delle disposizioni di cui all'articolo 18 della L. 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità'. Tuttavia la possibilità per il lavoratore di rimanere in servizio fino al compimento del settantesimo anno di età – in assenza della previsione di un diritto potestativo in favore del lavoratore ed essendo tuttora vigente l'art. 4, secondo comma, L. 108/1990 (che esclude la tutela reale per i lavoratori in possesso dei requisiti pensionistici) – è in ogni caso subordinata al consenso di entrambe le parti. Infatti, l'utilizzo del termine “incentivato” non può ritenersi equiparabile all'attribuzione al lavoratore di un diritto potestativo di restare a lavoro senza la necessaria disponibilità dell'imprenditore. Valga anche la considerazione della sostanziale differenza tra la formulazione normativa in parola e quella di precedenti disposizioni che attribuivano al lavoratore il diritto potestativo di opzione a restare a lavoro dopo il raggiungimento dei requisiti pensionistici. Si consideri, ad esempio, l'art. 6, d.l. 22 dicembre 1981, n. 791, secondo cui “gli iscritti all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti ed alle gestioni sostitutive … i quali non abbiano raggiunto l'anzianità contributiva massima utile prevista dai singoli ordinamenti, possono optare di continuare a prestare la loro opera fino al perfezionamento di tale requisito o per incrementare la propria anzianità contributiva e comunque non oltre il compimento del sessantacinquesimo anno di età”. Il diritto di opzione, in tal caso, costituiva indubbiamente un diritto potestativo del lavoratore, che non richiedeva affatto una disponibilità in tal senso del datore di lavoro. Il legislatore, del resto, regolava anche le modalità di esercizio (tra cui quelle temporali) del predetto diritto di opzione. Viceversa, la dizione del quarto comma dell'art. 24, d.l. 201/2011 non attribuisce alcun diritto potestativo, bensì una mera indicazione di flessibilità per cui, ogniqualvolta il lavoratore faccia richiesta di restare a lavoro anche dopo il raggiungimento dei requisiti minimi per la pensione di vecchiaia ai sensi della nuova normativa, la stabilità del posto di lavoro è garantita solo allorquando vi sia una concorde volontà del datore di lavoro di accogliere la richiesta del lavoratore e di non recedere dal rapporto. Del resto, l'utilizzo del termine “è incentivato” senza alcuna altra indicazione che consenta di affermare sia la sussistenza di un diritto in favore del lavoratore, sia la disciplina dell'esercizio di tale diritto, determina per il lavoratore una situazione assimilabile all'aspettativa di diritto, la cui trasformazione in una situazione giuridica di livello superiore (diritto soggettivo o potestativo) richiede il consenso datoriale in applicazione del principio generale secondo cui, salvo diversa previsione di legge, il vincolo giuridico della stabilità reale nella prosecuzione del rapporto nasce con l'accordo delle parti. L'art. 24, quindi, assume in quest'ottica un valore programmatico, nel senso di costituire un invito alle parti a consentire la continuazione del rapporto fino al 70° anno di età coerentemente con l'impianto complessivo della riforma del sistema pensionistico che tende all'innalzamento dell'età pensionabile. L'incentivo, in altri termini, appare come uno strumento finalizzato al conseguimento dell'obiettivo della flessibilità nell'accesso ai trattamenti pensionistici, tramite dei coefficienti di trasformazione più favorevoli e con estensione dell'art. 18 sino al settantesimo anno di età con il consenso espresso o tacito del datore di lavoro. Per cui, in caso di accordo tra le parti, si verificano due conseguenze favorevoli al lavoratore (l'aumento del montante contributivo e la tutela dal recesso anticipato) ed è in questi termini che il legislatore parla di incentivo al proseguimento del lavoro, mentre non è desumibile dalla norma l'esistenza di un diritto potestativo del lavoratore.
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