Anche il maggior profitto giustifica il licenziamento per g.m.o.

Gustavo Danise
26 Gennaio 2016

Il contratto di lavoro può essere sciolto a causa di un'onerosità non prevista, alla stregua delle conoscenze ed esperienze di settore, nel momento della sua conclusione (art. 1467 c.c.) e tale sopravvenienza ben può consistere in una valutazione dell'imprenditore che, in base all'andamento economico dell'impresa rilevato dopo la conclusione del contratto, ravvisi la possibilità di sostituire un personale meno qualificato con dipendenti maggiormente dotati di conoscenze e di esperienze e quindi di attitudini produttive. L'esercizio di tale potere è insindacabile nel merito dal giudice, e ciò tanto più vale quando il legislatore, come indica la L. n. 183 del 2010, art. 30, inclina a tutelare più intensamente la libertà organizzativa dell'impresa.
Massime

Il contratto di lavoro può essere sciolto a causa di un'onerosità non prevista, alla stregua delle conoscenze ed esperienze di settore, nel momento della sua conclusione (art. 1467 c.c.) e tale sopravvenienza ben può consistere in una valutazione dell'imprenditore che, in base all'andamento economico dell'impresa rilevato dopo la conclusione del contratto, ravvisi la possibilità di sostituire un personale meno qualificato con dipendenti maggiormente dotati di conoscenze e di esperienze e quindi di attitudini produttive. L'esercizio di tale potere è insindacabile nel merito dal giudice, e ciò tanto più vale quando il legislatore, come indica la L. n. 183 del 2010, art. 30, inclina a tutelare più intensamente la libertà organizzativa dell'impresa.

Anche il fine, di arricchimento o di non impoverimento, perseguito dall'imprenditore può legittimare un licenziamento, considerato che un aumento del profitto si traduce non, o non solo, in un vantaggio per il suo patrimonio individuale ma principalmente in un incremento degli utili dell'impresa ossia in un beneficio per la comunità dei lavoratori.

Al controllo giudiziale della reale operazione di riorganizzazione del personale e di redistribuzione delle mansioni può non essere estranea la verifica delle difficoltà economiche in reparti diversi da quello in cui operò la lavoratrice licenziata.

Il caso

Una dipendente di una società operante nel settore della sanità privata e convenzionata col Servizio sanitario nazionale, assunta quale tecnico di laboratorio con contratto a termine, poi dichiarato nullo dal giudice e convertito in contratto a tempo indeterminato, impugnava presso il Tribunale di Benevento il licenziamento intimatole dalla datrice di lavoro per giustificato motivo oggettivo, lamentando la insussistenza delle ragioni addotte, inerenti all'attività produttiva, e consistenti, in particolare, in una crisi aziendale che aveva comportato la soppressione del posto di lavoro, con affidamento delle mansioni ad altri lavoratori addetti al servizio di laboratorio di analisi e di radiologia.

Costituitasi la resistente, il Tribunale accoglieva la domanda con decisione del 7 marzo 2012, confermata con sentenza 8 ottobre 2013 n. 5600 dalla Corte d'Appello di Napoli.

A sostegno della decisione, il Tribunale aveva ritenuto che la necessità di sopprimere il posto di lavoro della ricorrente non era stata provata dalla datrice di lavoro e risultava perciò un mero pretesto; aveva rilevato, altresì, la mancanza di prova della crisi aziendale, per il fatto che nel corso degli anni le prestazioni sanitarie rese dalla società non erano variate per qualità e quantità; e che i contratti di solidarietà stipulati con altri dipendenti dal 2008 al 2010 erano stati causati da "problemi di rimborso da parte della Regione" e non avevano comunque riguardato il laboratorio. Appariva superfluo, quindi, ad avviso della Corte d'Appello, la questione della legittimità dell'attribuzione ad altro personale, con qualifica di biologo invece che di tecnico di laboratorio, delle stesse mansioni già espletate dalla ricorrente.

Contro questa sentenza la s.r.l. datrice di lavoro ricorre per Cassazione mentre la lavoratrice resiste con controricorso.

Con altro ricorso al Tribunale di Benevento, la medesima lavoratrice chiedeva la dichiarazione d'illegittimità di un nuovo licenziamento, intimatole dalla G., s.r.l., datrice di lavoro, per motivo discriminatorio o ritorsivo, nonché l'ordine di reintegrazione e la condanna al risarcimento del danno.

Resisteva la convenuta eccependo il giustificato motivo oggettivo, costituito dalla necessità, imposta dalla Regione con atto del 16 aprile 2006, di assumere per il laboratorio di analisi un direttore laureato in biologia o in chimica, e conseguentemente dalla sopravvenuta inutilità delle mansioni affidate alla ricorrente.

Il Tribunale accoglieva la domanda e la Corte d'Appello rigettava il reclamo.

Anche contro questa sentenza venivano proposti ricorso e controricorso presso la S.C. di Cassazione, la quale riuniva i ricorsi ed accoglieva le domande promosse dalla datrice di lavoro rimettendo gli atti alla Corte di Appello di Napoli per una nuova valutazione della controversia sulla base dei principi enunciati nella sentenza in commento.

Le questioni

Le questioni affrontate dalla S.C. nella sentenza in commento sono le seguenti:

  1. Può un contratto di solidarietà, stipulato tra i lavoratori impiegati in settore diverso da quello ove presta servizio il lavoratore licenziato, costituire giustificato motivo oggettivo di licenziamento?
  2. È sindacabile dal giudice del lavoro, ai fini della valutazione della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la scelta del datore di lavoro di affidare le mansioni svolte dal dipendente licenziato a personale maggiormente qualificato, anche in assenza di crisi aziendale o di una contrazione di ricavi ed in prospettiva di aumentare la propria produttività?
Le soluzioni giuridiche

Nell'accogliere i ricorsi presentati dalla datrice di lavoro, la S.C. di Cassazione, dopo aver ripercorso le tappe giurisprudenziali e normative più significative sui limiti del sindacato giudiziale in ordine alla sussistenza del giustificato motivo oggettivo posto dal datore di lavoro alla base di un licenziamento, ha enunciato importanti principi di diritto: in particolare, ha stabilito che il contratto di lavoro può essere sciolto a causa di un'onerosità non prevista, alla stregua delle conoscenze ed esperienze di settore, nel momento della sua conclusione (art. 1467 c.c.) e tale sopravvenienza ben può consistere in una valutazione dell'imprenditore che, in base all'andamento economico dell'impresa rilevato dopo la conclusione del contratto, ravvisi la possibilità di sostituire un personale meno qualificato con dipendenti maggiormente dotati di conoscenze e di esperienze e quindi di attitudini produttive; che l'esercizio di tale potere non è sindacabile nel merito dal giudice, soprattutto dopo il varo dell'art. 30 co. 1 L. n. 183 del 2010, che tutela più intensamente la libertà organizzativa dell'impresa.

In secondo luogo, la S.C. ha evidenziato che il fine, di arricchimento o di non impoverimento, perseguito dall'imprenditore, può rappresentare giustificato motivo oggettivo di licenziamento, tenuto conto che un aumento del profitto si traduce non, o non solo, in un vantaggio per il suo patrimonio individuale, ma principalmente in un incremento degli utili dell'impresa, ossia in un beneficio per la comunità dei lavoratori.

Ed ancora, la S.C. ha sottolineato che l'assenza di prova del calo produttivo non è determinante per comprovare la illegittimità e pretestuosità del licenziamento, ove tale ultima scelta sia stata assunta sulla base della decisione di attribuire ad un'altra dipendente, biologa, le mansioni prima affidate al tecnico di laboratorio licenziato, o comunque la redistribuzione delle mansioni tra il personale già presente o neo-assunto.

Infine, ha aggiunto che alla verifica giudiziale della reale operazione di riorganizzazione del personale e di redistribuzione delle mansioni può non essere estranea la verifica delle difficoltà economiche in reparti diversi da quello in cui operò la lavoratrice licenziata.

Osservazioni

Nella pronuncia in commento la S.C. di Cassazione torna ad occuparsi della questione dei “confini mobili” del sindacato giudiziale sulle scelte imprenditoriali comportanti licenziamenti di personale dipendente per giustificato motivo oggettivo. Lo scrivente ama definire “mobili” i confini di tale sindacato in ragione delle sensibilità e mutevolezza di interpretazione mostrate dalla giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, riguardo alle nozioni “aperte” ed indeterminate di “ragioni inerenti all'attività produttiva” e “organizzazione del lavoro”, quali causali che integrano il giustificato motivo oggettivo di un licenziamento individuale ai sensi dell'art. 3 L. n. 604/66.

In altre parole, la “clausola generale” contenuta nell'art. 3 in commento ha ricevuto un'interpretazione a volte più estesa, a volte più ridotta alla luce del momento storico-sociale e delle istanze politiche e normative che di volta in volta venivano recepite nell'ordinamento giuridico. L'unico punto fermo, in materia, è costituito dall'affermazione secondo cui il motivo addotto dall'imprenditore dev'essere oggettivamente verificabile ossia non pretestuoso, con onere della prova a carico dell'imprenditore stesso (Cass. 22 agosto 2007 n. 17887, 30 novembre 2010 n. 24235, 5 marzo 2015 n. 4460); e che la decisione imprenditoriale non è sindacabile nel merito dal giudice, al quale, ove investito della domanda di declaratoria di illegittimità del licenziamento, è affidato solo il compito di valutare la sussistenza, effettività e concretezza della ragione oggettiva posta dal datore di lavoro alla base del licenziamento.

Tale ultimo principio è stato formalizzato nell'art. 30 co. 1 L. 4 novembre 2010, n. 183, che recita “In tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile e all'articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente”.

Tale disposizione fu definita dai primi commentatori della novella, come una “norma-manifesto”; ed in effetti detta norma ha destato più clamore e scalpore mediatico che innovato realmente l'ordinamento giuridico, in quanto il principio dell'intangibilità delle scelte organizzative del datore di lavoro alla base di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, era, già nel 2010, talmente radicato nelle aule dei Tribunali da potersi definire ius receptum, in quanto dotato di copertura costituzionale ex artt. 2 e 41 Cost.

Tuttavia, la diversa estensione esegetica attribuita di volta in volta alla clausola generale ex art. 3 L. n. 604/66 ha certamente influenzato il diverso atteggiarsi del sindacato giudiziale sulle decisioni datoriali, fermo restando il limite anzidetto. In altre parole, di fronte ad una medesima scelta imprenditoriale, come tale in astratto insindacabile, è potuto accadere che tale scelta fosse stata in alcuni casi ritenuta effettiva – con conseguente rigetto della domanda di illegittimità del licenziamento promossa dal lavoratore – ed in altri pretestuosa e volta a celare un licenziamento ritorsivo – con conseguente declaratoria di illegittimità del licenziamento -; con buona pace dei principi di certezza del diritto e di parità di trattamento.

In particolare nella rassegna giurisprudenziale contenuta nella pronuncia in commento, la Cassazione ricorda che se da un lato, nella maggior parte dei precedenti, è stato riconosciuto il potere di licenziare nella necessità di ristrutturazione aziendale con conseguente soppressione del posto spettante al lavoratore poi licenziato (Cass. 2 ottobre 2006 n. 21282); dall'altro, è stato negato, ove la ristrutturazione aziendale, dedotta a sostegno dell'atto estintivo del rapporto di lavoro, fosse mirata non ad evitare perdite economiche bensì a conseguire un maggior profitto (Cass. 24 febbraio 2012 n. 2874, 26 settembre 2011 n. 19616); mentre in altre è stato ritenuto sufficiente a suffragare la legittimità di un licenziamento per ristrutturazione dell'assetto organizzativo, realizzato con la soppressione di uno o più posti di lavoro, il fine dell'imprenditore di evitare perdite o di incrementare il profitto (Cass. 1 agosto 2013 n. 18416).

La sentenza in esame si propone di dissipare tali dubbi esegetici. I giudici di merito hanno ritenuto irrilevante, ai fini della prova della sussistenza del giustificato motivo di licenziamento, che la datrice di lavoro avesse stipulato contratti di solidarietà con alcuni dipendenti impiegati in un settore del tutto diverso dal laboratorio ove operava la dipendente licenziata; nonché la scelta prioritaria di redistribuire le mansioni della ricorrente licenziata ad altri lavoratori e, in un secondo momento, di affidarle ad una biologa; e tutto ciò solo perché dal compendio probatorio non era emersa una contrazione dei ricavi, sintomatica di una crisi aziendale.

La S.C. di Cassazione, quindi, ha inteso dilatare le applicazioni materiali delle nozioni di “ragioni inerenti all'attività produttiva” ed “organizzazione del lavoro”, ex art. 3 L. n. 604/66, ben oltre gli angusti limiti esegetici considerati dai giudici di prime e seconde cure, al fine di restringere proporzionalmente il sindacato giudiziale sulle scelte imprenditoriali, nel pieno rispetto dell'art. 30 co. 1 del collegato lavoro.

In quest'interpretazione estensiva, la Cassazione ha chiarito che le difficoltà organizzative obiettive e dimostrabili, incontrate dall'azienda in un certo settore, devono essere ritenute insindacabili e valutabili dal giudice quale giustificato motivo oggettivo ai fini della legittimità del licenziamento intimato ad un dipendente impiegato in altro settore (com'è accaduto nel caso di specie, ove i contratti di solidarietà stipulati tra la società datrice di lavoro ed alcuni dipendenti non avevano riguardato il laboratorio, ove prestava servizio la ricorrente, licenziata). La S.C. evidenzia ancora che la scelta del datore di lavoro di licenziare un dipendente, sopprimendone la figura e con redistribuzione delle mansioni tra altri dipendenti, ovvero di attribuire le medesime mansioni a nuovo dipendente che magari presenti maggiore e più specifica qualificazione professionale, deve ritenersi insindacabile da parte del giudice – con conseguente valutazione di legittimità del licenziamento impugnato – non solo se tale scelta è destinata a superare una crisi aziendale, ma anche se è finalizzata ad un incremento produttivo e reddituale, perché l'arricchimento della società datrice di lavoro si traduce in un arricchimento contestuale dell'intera comunità di lavoratori. La decisione della S.C. di Cassazione è pregevole sia perché tende ad offrire criteri interpretativi stabili in relazione ad una disposizione normativa indeterminata che si presta a differenziate enucleazioni esegetiche; sia perché risponde maggiormente al dato normativo ed alla ratio dell'art. 30 co. 1 L. n. 183/10 in relazione al disposto dell'art. 3 L. n. 604/66; ma può comportare conseguenze insidiose; in particolare, il principio di diritto rischia surrettiziamente di determinare un'inversione dell'onere della prova sulla legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo dal datore di lavoro (ex art. 6 L. n. 604/66) al lavoratore. Limitando, di fatto, il sindacato del giudice alla mera regolarità formale dell'atto di licenziamento ed alla sola verifica materiale della motivazione aziendale dedotta a sostegno del recesso datoriale del rapporto di lavoro, si finisce con il semplificare notevolmente lo sforzo probatorio del datore di lavoro, accollando sul ricorrente l'onere di provare che l'esigenza aziendale dedotta celerebbe, in realtà, un licenziamento “vendicativo”.

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