Contratto indeterminato a tutele crescenti e art. 18: cosa cambia

Ileana Fedele
26 Giugno 2015

La nuova normativa sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti ha marginalizzato l'area della reintegrazione, restringendola essenzialmente alle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo od orale, nonché ai casi di licenziamento disciplinare. Le espressioni del legislatore hanno indotto molti commentatori a chiedersi se le scelte effettuate possano influire a livello ermeneutico sull'applicazione della tutela contro i licenziamenti illegittimi anche nei confronti dei c.d. “vecchi” assunti, dividendosi il campo fra chi sostiene la tesi della “interpretazione autentica” e chi, all'opposto, utilizza l'argomento “a contrario”. L'Autore, dunque, si soffermerà a considerare gli argomenti offerti dai due “schieramenti” per giungere alla conclusione che le posizioni divergono sull'incidenza del giudizio di proporzionalità del licenziamento.
Legge fornero e jobs act: continuità o rottura?

Il D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 non incide direttamente sull'art. 18 legge 20 marzo 1970, n. 300, siccome modificato dalla legge 28 giugno 2012, n. 92, ma, lungi dal configurare una nuova tipologia contrattuale, delinea una differente ed organica disciplina della tutela contro i licenziamenti illegittimi da applicare ai “nuovi” assunti (vale a dire, chi – ad esclusione dei dirigenti – è stato assunto con contratto a tempo indeterminato con decorrenza dal 7 marzo 2015 ovvero nei cui confronti è stata – giudizialmente – accertata l'instaurazione di un rapporto di lavoro con pari decorrenza ovvero il cui datore di lavoro ha integrato il requisito occupazionale di cui all'art. 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente alla predetta data).

Com'è noto, la scelta di fondo del legislatore, già chiaramente indicata nell'art.1, comma 7, lett. c), legge 10 dicembre 2014, n. 183, è stata quella di ridimensionare l'area di applicabilità della tutela reintegratoria, in continuità con l'indirizzo aperto dalla legge n. 92 del 2012, di cui la nuova disciplina mutua la stessa logica di differenziazione delle tutele (reintegrazione piena e attenuata, indennità risarcitoria forte e debole) e di implicito rinvio alle nozioni di “giusta causa” e “giustificato motivo soggettivo” (sussunte dalla delega nella categoria del licenziamento disciplinare, termine di nuovo conio per il legislatore).

Accanto a tali elementi, che sembrano tratteggiare una linearità quasi consequenziale fra la “Fornero” ed il “jobs act”, sono però apprezzabili significativi elementi di rottura, che sembrano piuttosto deporre per una decisa presa di distanza dalla disciplina precedente: la tutela reintegratoria - pur ridotta e rimodulata – nell'ottica della legge n. 92 del 2012 continua ad essere il perno del sistema, tanto che la tutela risarcitoria è disegnata in termini residuali (art. 18, quinto comma, legge n. 300 del 1970 novellato: “[…] nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro”); viceversa, nel D.lgs. n. 23 del 2015 la prospettiva è completamente rovesciata, perché la regola è ormai costituita dalla tutela indennitaria, mentre la reintegrazione è l'eccezione prevista per casi particolari (mala fede del datore di lavoro – licenziamento discriminatorio o nullo o orale – e “specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”). Ulteriori tratti qualificanti, che segnano il divario con la “Fornero”, sono senz'altro costituiti dall'opzione di fondo sui licenziamenti economici (sempre esclusi dalla reintegrazione) e dall'individuazione di parametri fissi e predeterminati per la liquidazione dell'indennità risarcitoria (non più rimessa, in concreto, alla determinazione del giudice ed ancorata unicamente all'anzianità di servizio, a fronte dei diversi parametri ancora considerati dalla legge n. 92 del 2012).

La continuità piuttosto che la rottura fra il regime stabilito per i “nuovi” assunti ed il sistema di tutele previsto a favore dei c.d. “vecchi” assunti costituisce un argomento ermeneutico di rilievo anche per la lettura dell'art. 18 legge n. 300 del 1970 novellato, nel dibattito fra chi utilizza il D.lgs. n. 23 del 2015 come una sorta di interpretazione autentica delle norme modificate dalla legge “Fornero” e chi, all'opposto, valorizza l'argomento a contrario per marcare la diversità fra le due discipline.

Dall'insussistenza del fatto contestato all'insussistenza del fatto materiale contestato

Il perno della diatriba – com'è intuibile – si pone sul passaggio dalla “insussistenza del fatto contestato”, di cui all'art. 18 quarto comma, legge n. 300 del 1970, versione “Fornero”, alla “insussistenza del fatto materiale contestato”, di cui all'art. 3, comma 2, D.lgs. n. 23 del 2015.

Il dato di partenza è senz'altro rappresentato dall'1, comma 7, lett. c), legge n. 183 del 2014, che ha limitato la tutela reintegratoria ai licenziamenti discriminatori e nulli, oltre che “a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”. Prescindendo – in questo ambito – dalle possibili censure di legittimità della delega per genericità dei principi e criteri direttivi atti a delimitare le ipotesi di licenziamento disciplinare suscettibili di reintegrazione, occorre soffermarsi sulla soluzione adottata sul punto dal legislatore delegato. Infatti, piuttosto che procedere ad un'elencazione casistica (che avrebbe senz'altro assunto natura tassativa), si è preferito ricorrere al medesimo concetto già utilizzato nella legge n. 92 del 2012 (i.e. l'insussistenza del fatto contestato) aggiungendovi, tuttavia, una qualificazione che potesse superare le incertezze registrate nelle prime applicazioni giurisprudenziali della legge c.d. Fornero: si è quindi approdati alla formula utilizzata nell'art. 3, comma 2, D.lgs. n. 23 del 2015, che affida la linea di demarcazione fra la reintegrazione attenuata e la tutela indennitaria alla “insussistenza del fatto materiale contestato”. Nessun dubbio che l'opzione normativa sia stata influenzata (ed orientata) dalla discussione insorta intorno alla corretta delimitazione del concetto di “insussistenza del fatto contestato”, di cui al quarto comma dell'art. 18, legge n. 300 del 1970, da restringere – secondo taluni – al “fatto materiale” descritto nella contestazione, da estendere – secondo altri – agli elementi giuridici che connotano il fatto in termini di inadempimento (condotta disciplinarmente rilevante imputabile al lavoratore) grave (suscettibile in astratto di giustificare la massima sanzione). Di più, è stato evidenziato come la formula normativa ricalchi (o quanto meno riecheggi) una pronuncia della Corte di legittimità (Cass., sez. lav., 6 novembre 2014, n. 23669) che, sia pure a livello di obiter dictum (nell'ambito di un caso per il quale era già stata accertata l'occasionalità della condotta contestata come abituale e, dunque, l'insussistenza del fatto contestato), si è espressa apertamente a favore della c.d. tesi del fatto materiale, osservando che “La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell'accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale”.

Il quadro d'insieme è ulteriormente complicato dall'incidenza – secondo le diverse letture – del giudizio di proporzionalità del licenziamento, che sarebbe esclusa dalla valutazione di insussistenza del fatto contestato, secondo i fautori della tesi del fatto materiale, ed invece implicitamente in essa implicato, anche oltre le espresse previsioni della contrattazione collettiva, per i sostenitori della tesi del fatto giuridico.

L'ambito del giudizio di proporzionalità

Nel disegno della legge n. 92 del 2012 la proporzionalità del licenziamento incide direttamente nella misura in cui “il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”, applicandosi, in tali evenienze, la tutela reintegratoria attenuata. Non vi è, però, univocità sull'ampiezza della valutazione rimessa al giudice, ritenendo alcuni che la norma autorizzi unicamente un'interpretazione restrittiva (solo i casi espressamente contemplati dal CCNL), osservando altri che una tale lettura mortifichi il senso della disposizione, facendone dipendere l'ambito di pratica attuazione dalle modalità di formulazione della contrattazione collettiva, assai spesso incentrata su graduazioni delle sanzioni non già parametrite a precise fattispecie bensì in base a concetti di “gravità crescente”, anche secondo criteri di residualità (se il fatto non rientra nei casi più gravi), in tal modo avallando un'opzione ermeneutica sganciata dal riscontro casistico per cogliere il disvalore del fatto secondo un giudizio di proporzionalità orientato dall'apprezzamento effettuato dalle parti sociali.

Un'applicazione a favore della seconda impostazione si rinviene in una recentissima pronuncia della Corte di cassazione (Cass., sez. lav., 11 febbraio 2015, n. 2692), nella quale, accertata la sussistenza del fatto contestato (un'ipotesi qualificata come insubordinazione lieve, consistente in parole offensive e volgari rivolte dal lavoratore al suo diretto superiore, senza contestarne i poteri e rifiutare la prestazione lavorativa), il giudizio di riconducibilità ad una sanzione conservativa non è stato condotto limitandosi alla ricognizione delle fattispecie previste dal CCNL, bensì facendo ricorso al criterio di proporzionalità e ritenendo che, in base alla contrattazione collettiva - che puniva con il licenziamento l'insubordinazione grave, consistente in gravi reati accertati in sede penale, come il furto ed il danneggiamento - il comportamento in contestazione non potesse essere riportato alle condotte suscettibili di essere punite con la massima sanzione, “tale da privare dei mezzi di sostentamento il lavoratore e la sua famiglia (cfr. art. 36, primo comma, Cost.)”. Viceversa, la già citata Cass. n. 23669 del 2014 sembra piuttosto aderire all'impostazione restrittiva, laddove, dopo aver “sposato” la tesi del fatto materiale, soggiunge che “esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato”. Sennonché, vi è chi ha osservato come il giudizio che la S.C. intende escludere ai fini della tutela reintegratoria è solo quello di proporzionalità in concreto della sanzione espulsiva all'addebito (vale a dire, quello che tiene conto di tutte le circostanze del caso concreto per valutare la sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo), ma non già il rilievo, di carattere preliminare ed assorbente, dell'astratta idoneità del fatto contestato a fondare il licenziamento disciplinare, in ragione della clausola generale che predica la necessaria importanza dell'inadempimento (a maggior ragione se tale rilievo è condotto in base alla graduazione rinvenibile nella contrattazione collettiva).

In questo scenario, il legislatore delegato ha mostrato di adottare l'impostazione di Cass. n. 23669 del 2014, disponendo espressamente che, rispetto all'insussistenza del fatto materiale contestato, “resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” (art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23 del 2015).

La tesi che attribuisce al d.lgs. n. 23 del 2015 il valore di “interpretazione autentica” dell'art. 18 legge n. 300 del 1970 novellato

Gli elementi di continuità con la legge “Fornero”, l'uso della medesima espressione già adoperata per delimitare l'ambito di applicazione della tutela reintegratoria rispetto a quella risarcitoria (“insussistenza del fatto contestato”) con l'intenzionale e significativa aggiunta della qualificazione come “fatto materiale”, costituiscono i principali argomenti utilizzati dalla dottrina che attribuisce al D.lgs. n. 23 del 2015 il valore di “interpretazione autentica” dell'art. 18, quarto comma, legge n. 300 del 1970 novellato, ritenendo che il legislatore abbia espresso chiaramente la volontà di adottare la tesi del “fatto materiale” sancita dalla più volte citata Cass. n. 23669 del 2014.

Secondo questa impostazione, il procedimento valutativo che il giudice dovrebbe seguire è articolato un due fasi: in prima battuta occorre decidere sulla legittimità/illegittimità del licenziamento e stimare la sussistenza o meno della giusta causa o giustificato motivo addotto sulla base di un giudizio complessivo che tenga conto di tutte le circostanze del caso concreto (gravità oggettiva del fatto, intensità dell'elemento soggettivo, qualifica, eventuali precedenti, etc.); poi, una volta ritenuto che il licenziamento è illegittimo, occorre valutare se il fatto (materiale) contestato sussiste o meno, ai fini dell'individuazione della tutela applicabile (reintegrazione o indennità). Mentre nella prima fase entrano in gioco tutte le componenti del fatto (ed anche il giudizio di proporzionalità per decidere se sussiste o meno la giusta causa o il giustificato motivo), nella seconda fase rileva solo la specularità fra fatto accertato e fatto materiale contestato, da intendere comunque come inadempimento imputabile, atteso che la formula normativa utilizzata evoca non già una mera condotta materiale bensì una condotta suscettibile di contestazione disciplinare. Ove, poi, il datore di lavoro abbia mosso un addebito pretestuoso (ritardo di pochi minuti ovvero inadempimento di minima entità), il “recupero” della tutela reintegratoria viene assicurato non già in applicazione del giudizio di proporzionalità ma in base al meccanismo della frode alla legge, di cui all'art. 1344 cod. civ., come licenziamento nullo.

La medesima dottrina evidenzia la necessità di procedere alla prima fase del procedimento valutativo (legittimità/illegittimità del recesso) anche nell'ipotesi in cui il caso contestato sia direttamente contemplato dal CCNL e punito con una sanzione conservativa, in quanto il giudice deve sempre stimare se, considerate tutte le circostanze del caso concreto, non sia comunque ravvisabile una giusta causa di licenziamento (con conseguente legittimità dello stesso); conclusione che sarebbe direttamente avallata dalle scelte effettuate dal legislatore delegato, con il D.lgs. n. 23 del 2015, che ha escluso la diretta rilevanza della contrattazione collettiva ai fini dell'individuazione del regime di tutela applicabile.

La tesi che valorizza il canone emerneutico a contrario nell'applicazione delle tutele differenziate ai “vecchi” assunti

All'opposto, gli elementi di rottura con la legge “Fornero”, la necessità di inserire espressamente la qualificazione come “materiale” del fatto contestato per delimitare l'ambito di applicazione della tutela reintegratoria rispetto a quella risarcitoria, costituiscono i principali argomenti utilizzati dalla dottrina che valorizza il canone ermeneutico a contrario per ribadire il rilievo della qualificazione giuridica del fatto e l'incidenza del giudizio di proporzionalità in astratto e secondo la graduazione contemplata nella contrattazione collettiva, ai fini dell'individuazione del regime di tutela applicabile ex art. 18 legge n. 300 del 1970 novellato.

Secondo tale interpretazione, la nozione di “fatto contestato” non solo postula la sua necessaria qualificazione giuridica in termini di inadempimento e di imputabilità (sicché, ove fosse addebitata una condotta che non evoca, neppure in astratto, un giudizio di colpevolezza saremmo direttamente fuori dal campo di applicazione del licenziamento disciplinare), ma presuppone, a monte, l'astratta idoneità del fatto a fondare il licenziamento disciplinare in virtù della clausola generale di importanza dell'inadempimento, secondo un giudizio di proporzionalità in astratto, a prescindere dalle circostanze specifiche del caso in esame, che rilevano nel giudizio di proporzionalità in concreto ai fini della valutazione circa la sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo. In quest'ottica, l'applicazione dei codici disciplinari e della contrattazione collettiva in materia si esprime non solo attraverso la verifica dell'espressa contemplazione della fattispecie in contestazione bensì in virtù dell'interpretazione delle clausole elastiche che orientano il giudizio di proporzionalità secondo la graduazione effettuata dalle parti sociali, secondo l'orientamento espresso dalla già citata Cass. n. 2692 del 2015.

In conclusione

Pur partendo da assunti opposti, sul piano sostanziale l'approdo dei due orientamenti non sembra troppo distante: infatti, anche la dottrina che sostiene la tesi del fatto materiale finisce con il riconoscere la necessità di connotare la condotta in termini di inadempimento imputabile (altrimenti si darebbe spazio anche a condotte irrilevanti sul piano disciplinare); inoltre, l'importanza dell'inadempimento, come astratta idoneità del fatto a giustificare il licenziamento, è indirettamente recuperata anche dai fautori del fatto materiale attraverso il meccanismo della frode alla legge, in tal mondo intendendo ovviare al rischio di contestazioni pretestuose con l'applicazione di una sanzione addirittura più intensa (la reintegrazione piena prevista per i licenziamenti nulli).

In effetti, il vero punto di frizione è costituito dall'incidenza del giudizio di proporzionalità: totalmente escluso in sede di valutazione sull'insussistenza del fatto contestato ed interpretato restrittivamente nell'applicazione della contrattazione collettiva, secondo la tesi del fatto materiale; ampliato, sino a ricomprendere l'interpretazione delle clausole elastiche utilizzate dalle parti sociali nella graduazione delle sanzioni, per i sostenitori dell'opposto indirizzo, secondo cui l'eliminazione di ogni riferimento sul punto nella nuova disciplina costituisce un indiretto avallo della rilevanza che tale giudizio assume nel sistema dell'art. 18 legge n. 300 del 1970 novellato per i “vecchi” assunti.

Di certo, l'effetto finale è quello di una maggiore incertezza interpretativa, che non giova all'auspicata prevedibilità delle decisioni.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario