Licenziamento discriminatorio tra art. 18 Statuto dei Lavoratori e Jobs Act

27 Ottobre 2016

Il licenziamento discriminatorio ancora oggi non ha una definizione stringente. Dibattuta, inoltre, è la assimilazione al licenziamento discriminatorio del licenziamento ritorsivo ai fini della estensione, a quest'ultimo, delle tutele previste per il primo. L'onere probatorio, poi, nell'ambito del processo incide in maniera differenziata tra le parti: mentre sul lavoratore incombe l'onere di provare, anche attraverso presunzioni, l'animus discriminandi, sul datore di lavoro grava la prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo. Per quanto concerne le tutele, il D.Lgs. n. 23/2015 ne ha introdotta una nuova senza, però, abrogare la precedente contenuta nell'art. 18 L. n. 300/1970, cosicché oggi coesistono due tipi di tutele concorrenti.Le due norme, quella del Jobs Act e quella statutaria, però, pur simili nell'impianto non sono sovrapponibili avendo ognuna peculiarità proprie.
Premessa

Il

D.L

gs. n. 23/2015

, in attuazione alla

L

egge delega n. 183/2014

, nell'introdurre disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, invero, non ha aggiunto una nuova tipologia contrattuale (la disciplina del contratto a tempo indeterminato è rimasta immutata) ma, una nuova disciplina delle tutele, le c.d. “tutele crescenti” che ha generato un dualismo nelle guarentigie contro i licenziamenti illegittimi poiché trova applicazione solo per coloro i quali beneficiano, appunto, delle “tutele crescenti”.

L'

art. 1 del D.Lgs.

n.

23/2015

, infatti, si applica a decorrere dalla data della sua entrata in vigore (7 marzo 2015):

  • ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato;

  • ai casi di conversione di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato;

  • ai lavoratori, anche assunti precedentemente alla data del 7 marzo 2015, allorché il datore di lavoro in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente alla detta data del 7 marzo 2015, integri il requisito occupazionale di cui all'

    articolo 18, ottavo e nono comma, St. Lav

    .

Per le altre fattispecie escluse dalla previsione dell'

art. 2 D.Lgs.

n.

23/2015

, quali ad esempio, gli apprendisti e i dirigenti, continua a trovare applicazione l'

art. 18 St. Lav

., novellato dal D.Lgs. n. 92/2012.

L'art. 3 legge n. 108/1990

Il disposto dell'

art. 3 della Legge

n.

108/1990

individua il licenziamento discriminatorio in quelle ipotesi indicate nell'

art. 4 della L

egge 15 luglio 1966, n. 604

(credo politico o fede religiosa, appartenenza ad un sindacato e partecipazione ad attività sindacali) e nell'

art

.

15 della L

egge 20 maggio 1970, n. 300

, come modificato dall'

articolo 13 della L

egge 9 dicembre 1977, n. 903

(qualsiasi patto od atto diretto a “

subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte

” o a “licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero”).

La norma de qua, dunque, non dà una definizione in senso stringente di licenziamento discriminatorio ma, si limita ad operare un rinvio all'

art. 4 L.

n.

604/1966

ed all'

art 15 L.

n.

300/1970

e non tiene conto della ulteriore legislazione nazionale in tema di discriminazioni e della legislazione comunitaria. Tant'è vero che la cassazione è intervenuta per precisare

che la nullità del licenziamento discriminatorio è legata alla violazione di specifiche norme di diritto interno (ad esempio l'art. 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al

D.Lgs.

n.

198/2006

e

l'

art

.

54,

commi 1, 6, 7 e 9, del T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al

D.Lgs.

n.

151

/2001

, espressamente richiamati dall'

art. 18 L.

n.

300/1970

) ed Europeo quali quelle di cui alla

direttiva n. 76/207/CEE

(

traslata nella

direttiva 5

.

07

.

2006 n. 2006/54/CE

) sulle discriminazioni di genere (

Cass. civ. Sez. lavoro, 5

.

04

.

2016, n. 6575

) che parimenti sanciscono la nullità del licenziamento.

Il contrasto circa la tassatività o meno dell'elencazione è stata, dunque, al centro di un ampio dibattito da alcuni stimato ormai superato dalla c.d. Riforma Fornero allorché nel modificare l'

art. 18 L.

n.

300/1970

ha introdotto, come ipotesi di nullità del licenziamento il motivo illecito determinante ai sensi dell'

art. 1345 c.c.

. Dibattito, questo, ad avviso dello scrivente mai sedato e, comunque, oggi riaperto dal decreto di attuazione del Jobs Act che, come si vedrà, non opera alcun richiamo all'

art. 1345 c.c.

.

In dottrina, in ogni caso, si è ritenuto sbagliato accedere ad una interpretazione troppo lassista della norma poiché andrebbe a svilire la norma statutaria che scandisce diversi tipi di tutele a seconda della gravità

del vizio che inficia il licenziamento per cui è sembrato più coerente unire la nozione di discriminazione a quegli atti lesivi della dignità del lavoratore e dei suoi diritti fondamentali.

Su questa scia, interessante è l'ordinanza del Tribunale di Milano in data 29.06.2015 che pur non ritenendo tassativa l'elencazione che scaturisce dall'

art. 3 L.

n.

108/1990

, ha affermato che la nozione legale di discriminazione deve aver “riguardo non a qualsiasi comportamento arbitrario, ingiusto o determinato da motivo illecito, bensì a disparità di trattamento fondate su fattori tipizzanti, di rilevanza collettiva, che attengono all'appartenenza del singolo ad un certo gruppo sociale”.

In ogni caso, ciò che si rinviene con chiarezza nell'

art. 3

L.

n.

108/1990

è la sanzione della nullità a prescindere dalla motivazione adottata e l'applicazione della tutela di cui all'

art. 18 St. Lav

., quale che sia la consistenza

numerica dell'azienda.

Il licenziamento ritorsivo

Nella parte motiva della richiamata sentenza

n. 6575

, i Giudici

annotano che il

divieto di discriminazione non passa “attraverso la mediazione dell'

art. 1345 c.c.

” riaffermando, così, il distinguo tra “licenziamento discriminatorio” e “licenziamento ritorsivo”, punctum pruriens di ampi dibattiti.

Ciò posto, l'attenzione si sposta su un piano di più ampio respiro poiché, le ipotesi di discriminazione indicate dall'

art. 4 L.

n.

604/1966

, di certo, non sono le uniche. Basti pensare, ad esempio, a quella normativa che in recepimento delle direttive comunitarie ha allargato alle fattispecie di handicap, età, orientamento sessuale e convinzioni personali del lavoratore. E, in quest'ottica, si colloca

Cass. civ. Sez. lavoro, 3

.

12

.

2015, n. 24648

che, facendo leva sull'

art. 3 Cost.

e sui decisa della Corte di Giustizia, stigmatizza la possibilità di interpretazione estensiva dei divieti posti dalle norme richiamate dall'

art. 3 L.

n.

108/1990

fino a ricomprendere nell'area “vietata” pure i licenziamenti “per ritorsione o rappresaglia” che definisce come “l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore, quale unica ragione del provvedimento espulsivo”.

Al riguardo, è stato osservato come <<

la condanna dei motivi discriminatori è a monte ed è per così dire “di principio”, anche senza necessità che il legislatore ordinario la espliciti o ne dia conferma normativa. Sta al vertice dell'ordinamento, per il ruolo diretto dei principi costituzionali di tutela dei diritti fondamentali della persona, nelle formazioni sociali ai sensi dell'

art. 2 Cost.

e nei rapporti interprivati, come richiede il principio costituzionale di uguaglianza di cui all'

art. 3 Cost.

che, se non impone al datore di lavoro di realizzare quel valore, in nome di una ipotetica parità di trattamento dei e tra i lavoratori, certamente gli impedisce di violarlo con un qualsiasi atto di gestione del rapporto di lavoro, tra cui un licenziamento discriminatorio

>>

(cfr. Paola Bellocchi).

Tirando le fila, quindi, il licenziamento discriminatorio è nullo quale che sia la motivazione esposta. Opera, cioè, “in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta”. In altre parole

, si concretizza secondo modalità oggettive (

C

ass. 5

.

04

.

2016, n. 6575

, cit.) a prescindere dell'elemento psicologico di chi ha posto in essere la discriminazione.

Il licenziamento ritorsivo o per rappresaglia, invece, perché sia nullo è necessario che sia esclusivo e determinante (

Trib. Firenze Sez. lavoro, 14

.

06

.

2016

e

Trib. Ascoli Piceno Sez. lavoro, 22

.

01

.

2016

) e frutto di un'ingiusta ed illegittima risposta ad una condotta lecita del lavoratore licenziato ma

sgradita al datore di lavoro.

In conclusione possiamo affermare, dunque, che il licenziamento discriminatorio è nullo sussistente la “discriminazione” quali che siano le motivazioni addotte; quello ritorsivo o di rappresaglia, invece, pur assimilabile al primo (

Cass. civ. Sez. lavoro, 8

.

08

.

2011, n. 17087

), vuole una valenza determinativa ed esclusiva e che la causa alberghi nella “vendetta”.

L'onere della prova

Onus probandi incumbit ei qui dicit

!

Questa è la regola generale che governa l'architettura probatoria dei processi civili e in subiecta materia non fa eccezione per cui, in difetto dell'inversione dell'onere della prova di cui all'

art. 5 della L.

n.

604/1966

, il gravame di provare la discriminazione incombe sul lavoratore; ed in particolare incombe sul lavoratore che sostiene la ritorsione o la rappresaglia dimostrare che quella è stata l'unica ed esclusiva ragione che ha determinato il datore di lavoro all'atto espulsivo “anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (

Cass. 14 luglio 2005, n. 14816

)

” (Trib. Milano Sez. lavoro, Sent., 12.01.2016).

La cosa per il lavoratore, però, non è sempre agevole! Anzi, spesso si presenta molto complessa e gravosa al punto che qualche autore l'ha definita una probatio diabolica!

Chi scrive, però, non si sente di condividere tale posizione: l'onere della prova, ancorché gravoso, infatti, ha trovato significativi temperamenti in giurisprudenza.

Il lavoratore, innanzitutto, può assolvere il suo onere probatorio anche attraverso presunzioni (

Cass. civ. Sez. lavoro, 3

.

12

.

2015, n. 24648

;

Cass.

8

.08.

2011, n. 17087

;

Cass. 15.11.2000, n. 14753

); e, comunque, il datore di lavoro, ai sensi e per gli effetti dell'

art. 5 della L.

n.

604/1966

, non è sollevato dal provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo (Trib. Milano Sez. lavoro, 22.08.2014;

Cass. civ. Sez. lavoro, 14

.

03

.

2013, n. 6501

).

Icastica al riguardo è

Cass. civ. Sez. lavoro, 27

.

02

.

2015, n. 3986

che, nel ribadire i predetti due principi, chiarisce che l'onere probatorio per il lavoratore scatta solo nel momento in cui il datore di lavoratore riesce a fornire, quantomeno prima facie, la prova della giusta causa o del giustificato motivo (cfr. anche Trib. Firenze Sez. lavoro, 23.03.2016).

In ogni caso, comunque, è necessaria la sussistenza di un rapporto di casualità tra le allegazioni e il dedotto intento ritorsivo o di rappresaglia (

Cass. civ. Sez. lavoro

n. 6366 del 16

.05.

2000

ha riaffermato come l'onere probatorio “riguardante la prova del fattore discriminatorio o dell'esistenza di un motivo illecito e della sua efficienza causale grava sul lavoratore alla stregua della regola generale in tema di onere della prova

ex art. 2697 codice civile

”).

La nullità del licenziamento, però, è esclusa quando “con il motivo illecito concorra un motivo lecito, come la giusta causa

ex

art. 2119 c.c.

” (

Cass.

8.

0

3.2007, n. 5288

).

Per offrire un quadro quanto più completo, appare utile richiamare, infine, sia pure a margine,

Cass. civ. Sez. lavoro, 3

.

07

.

2015, n. 13673

che, in presenza di un impugnativa del licenziamento per difetto di giusta causa o giustificato motivo, ha stabilito che il motivo discriminatorio o ritorsivo, anche qualora dovesse emergere dalle allegazioni, inserisce un nuovo motivo di illegittimità del recesso estraneo all'originario petitum cosicché né può essere rilevato d'ufficio dal giudice, né può essere oggetto di una diversa qualificazione giuridica della domanda.

Le tutele

L'

art. 18 l. 300/1970

L'

art. 3 L.

n.

108/1990

, dichiarata la nullità del licenziamento, prevede

, quale che sia la consistenza numerica dell'azienda, la tutela prevista dall'

art

. 1

8

L.

n.

300/1970

nella modalità c.d. “piena” di cui ai commi 1, 2 e 3.

Il giudice, infatti, qualora accerti l'illegittimità del licenziamento perché “discriminatorio ai sensi dell'

articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108

, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al

decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198

, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al

decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151

, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'

articolo 1345 del codice civile

”, dispone la reintegrazione del lavoratore e condanna il datore di lavoro a corrispondergli un'indennità

pari all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegra e, comunque, non inferiore a cinque mensilità.

Il lavoratore, poi, ha facoltà di sostituire la reintegrazione con una ulteriore indennità, non assoggettata a contribuzione e che si aggiunge alla prima, pari a quindici mensilità calcolate sempre sull'ultima retribuzione globale di fatto percepita. Tale opzione deve essere esercitata

entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione e, nell'affermativa, determina la risoluzione del rapporto di lavoro che, comunque, si estingue qualora il lavoratore non riprenda servizio nei trenta giorni dall'invito del datore di lavoro formulato a seguito dell'ordine di reintegrazione.

Dall'ammontare dell'indennità, come sopra determinato, andrà detratto quanto eventualmente “

percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative”; ossia, il c.d. “aliunde perceptum”.

Va annotato, per completezza espositiva, che il datore di lavoro entro quindici giorni dal ricevimento dell'impugnazione di licenziamento può revocare il provvedimento espulsivo. In tale evenienza il rapporto viene ripristinato senza soluzione di continuità e senza l'applicazione delle sanzioni previste dall'

art. 18 St. Lav

. ma, con diritto del lavoratore a percepire la retribuzione maturata nel periodo anteriore alla revoca.

L'

art. 2 d.lgs. 23/2015

Nel sistema normativo del Jobs Act, l'

art. 2 del D.Lgs.

n.

23/2015

rappresenta l'omologo dell'

art. 18 St. Lav

. nella parte in cui disciplina la tutela reintegratoria piena in ipotesi di “

Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale

”.

Le due norme, però, ancorché simili nell'impianto, non sono sovrapponibili!

Il comma 2 dell'

art. 2 del D.lgs.

n.

23/2015

, infatti, prevede che “Il Giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell'

articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300

, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto

”.

Dall'esame del dato letterale emerge, così, che il Legislatore del Jobs Act ha voluto tipizzare le fattispecie di licenziamento discriminatorio individuate dall'

art. 15 della L.

n.

300/1970

(partecipazione ad attività sindacali o ad uno sciopero; questioni razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età, di orientamento sessuale o di convinzioni personali) e negli “altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”.

In questo paradigma, l'avverbio “espressamente” presente nell'

art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015

(… “casi di nullità espressamente previsti dalla legge”) e assente, invece, nell'

art. 18 St. Lav

., che parla solo di “altri casi di nullità previsti dalla legge”, assume un ruolo centrale nell'attività dell'interprete. Mentre le speculazioni sull'

art. 18 St. Lav

., infatti, sono indirizzate nel ritenere riconducibili nell'alveo della norma tutte quelle ipotesi di nullità previsti dalla legge, anche se non in maniera “espressa” (quale ad esempio quella derivante dalla violazione dell'

art. 4, co. 1, della

L

. n. 146/1990

in tema di sciopero nei servizi pubblici essenziali), la nuova disciplina sembra essere perentoria nell'individuare i casi di licenziamento discriminatorio.

Autorevole dottrina, però, ritiene, in maniera condivisibile, che un'attenta analisi della ratio legis sottesa alla norma, porta a ritenere che la tutela di cui all'

art. 2 D.Lgs.

n.

23/2015

sia applicabile pure a tutte quelle ipotesi di invalidità degli atti negoziali nelle quali rientra l'

art. 1345 c.c.

.

Il ragionamento portato avanti affonda le sue radici nel combinato disposto degli

artt. 1345

c.c.

(Motivo illecito),

art.

1418

c.c.

(Cause di nullità del contratto),

art.

1344

c.c.

(Contratto in frode alla legge) e

art.

1324

c.c.

(Norme applicabili agli atti unilaterali) del Codice Civile.

L'

art. 1344 c.c.

, infatti, reputa “illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa” e il seguente

art. 1345 c.c.

bolla di illeceità il contratto quando è stipulato esclusivamente per un motivo illecito. Il secondo comma dell'

art. 1418 c.c.

, poi, prevede la sanzione della nullità del contratto in ipotesi di illiceità della causa e dei motivi. E, a chiusura del cerchio, l'

art. 1418 c.c.

estende espressamente agli atti unilaterali (quale è il licenziamento), in quanto compatibili, le norme sui contratti!

Da qui è stata ritenuta la non necessità di una interpretazione estensiva della norma!

Oltre a ciò è stato pure posto in evidenza che potrebbe risultare una forzatura ritenere l'elencazione contenuta nell'

art. 15 St. Lav

. tassativa poiché vi sono i “diritti inviolabili dell'uomo”, riconosciuti dall'

art. 2 Cost.

che potrebbero

costituire lo

scopo

oggettivo”

del provvedimento espulsivo

senza in alcun modo esser

e

strumentali e necessari alla prestazione lavorativa

cosicché, in tale evenienza, si andrebbe a configurare una illiceità della causa con conseguente nullità dell'atto espulsivo nonostante la sua non inclusione delle ipotesi contenute nell'

art. 15

n.

L. 300/1970

.

Riguardo le conseguenze economiche a seguito della declaratoria giudiziale di nullità del licenziamento

non si intravedono difformità tra le due norme se non nelle modalità di computo dell'indennità risarcitoria: a differenza dell'

art. 18 St. Lav

., che prevede vada calcolata sull'ultima retribuzione globale di fatto maturata, a mente dell'

art. 2 del D.L

gs.

n.

23/2015

, va determinata sull'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.

Sovrapponibile è pure l'ipotesi di “revoca del licenziamento”.

Le descritte tutele, inoltre, precisa il comma 4 dell'

art. 2 D.Lgs.

n.

23/2015

, si applicano anche in ipotesi in cui il Giudice accerti “il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli

art

i

coli 4

,

comma 4, e

10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68

”.

Pure il licenziamento dichiarato inefficace per difetto di forma scritta, infine, gode delle tutele di cui all'art. 2 in esame.

Va annotato, in conclusione, per completezza espositiva che l'

art. 6 del D.Lgs. n. 23/2015

introduce una nuova fattispecie di conciliazione: i

l datore di lavoro per evitare il giudizio nel termine di impugnazione stragiudiziale del licenziamento può offrire al lavoratore in una delle c.d. sedi protette una mensilità per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto. Importo, questo, da calcolarsi sulla retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, da corrispondersi a mezzo assegno circolare e non soggetto né all'imposta sul reddito delle persone fisiche, né a contribuzione previdenziale.

Ove la consistenza numerica del datore di lavoro sia al di sotto dei limiti di cui all'

art. 18 L.

n.

300/1970

, gli

importi de quibus sono dimezzati e, in ogni caso, non possono superare le 6 mensilità.

Se il lavoratore accetta l'offerta, il rapporto si estingue dalla data del licenziamento con rinuncia dell'impugnazione se già proposta.

In conclusione

Emerge chiaro dalla trattazione che precede, come la materia dei licenziamenti discriminatori sia sempre stata al centro dell'attenzione di dottrina e giurisprudenza che hanno elaborato diversi indirizzi interpretativi. Ed è altresì evidente che il

D.Lgs.

n.

23/2015

, attuativo della

Legge delega

n.

183/2014

, non è stato in grado di dirimere i dubbi, anzi, pare a chi scrive che ne abbia introdotti altri.

Alcuni commentatori dell'

art. 2 D.lgs. n. 23/2015

, infatti, hanno adombrato, ad esempio, che la norma de qua possa essere affetta da un eccesso di delega poiché l'

art. 1, co. 7, lett. c) della

Legge

n. 183/2014

nella delega al Governo, nel rimandare ai casi di nullità previsti dalla legge, non ha indicato il requisito della “espressa previsione” ma, si è limitato a prevedere, per le nuove assunzioni, la reintegrazione solo per i licenziamenti nulli e discriminatori e per specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato!

Di certo, non sembra una scelta convincente l'aver lasciato due tutele concorrenti (quella dell'

art. 18 St. Lav

. e quella del Jobs Act) in quanto la loro coesistenza può creare nello stesso ambito lavorativo situazioni di disparità di trattamento a causa delle diverse tutele in caso di licenziamento illegittimo.

In ogni caso, va rilevato il dato oggettivo che negli ultimi tempi il diritto e le tutele antidiscriminatorie nell'ambito del c.d. diritto vivente hanno assunto maggiore ed effettiva concretezza.

Guida all'Approfondimento

Paola Bellocchi, “Il licenziamento discriminatorio

,

ADL - Argomenti di Diritto del Lavoro n. 4-5/2013, CEDAM.

Lilli Casano, Emmanuele Massagli, Pierluigi Rausei, Silvia Spattini, Paolo Tommasetti, “Le nuove regole del lavoro dopo il jobs act”, a cura di Michele Tiraboschi, 2016, Giuffrè Editore.
Elena Pasqualetto

,

Il licenziamento discriminatorio e nullo nel “passaggio” dall'

art. 18. Stat. lav

. all'

art. 2, d.lgs. n. 23/2015

”, 2015 ADAPT University Press.

Sommario