Licenziamento discriminatorio tra art. 18 Statuto dei Lavoratori e Jobs Act
27 Ottobre 2016
Premessa
Il D.L gs. n. 23/2015 , in attuazione alla L egge delega n. 183/2014 , nell'introdurre disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, invero, non ha aggiunto una nuova tipologia contrattuale (la disciplina del contratto a tempo indeterminato è rimasta immutata) ma, una nuova disciplina delle tutele, le c.d. “tutele crescenti” che ha generato un dualismo nelle guarentigie contro i licenziamenti illegittimi poiché trova applicazione solo per coloro i quali beneficiano, appunto, delle “tutele crescenti”.
L' art. 1 del D.Lgs. n. 23/2015 , infatti, si applica a decorrere dalla data della sua entrata in vigore (7 marzo 2015):
Per le altre fattispecie escluse dalla previsione dell' art. 2 D.Lgs. n. 23/2015 , quali ad esempio, gli apprendisti e i dirigenti, continua a trovare applicazione l' art. 18 St. Lav ., novellato dal D.Lgs. n. 92/2012. Il disposto dell' art. 3 della Legge n. 108/1990 art. 4 della L egge 15 luglio 1966, n. 604 art . 15 della L egge 20 maggio 1970, n. 300 articolo 13 della L egge 9 dicembre 1977, n. 903 subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte ” o a “licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero”).
La norma de qua, dunque, non dà una definizione in senso stringente di licenziamento discriminatorio ma, si limita ad operare un rinvio all' art. 4 L. n. 604/1966 ed all' art 15 L. n. 300/1970 e non tiene conto della ulteriore legislazione nazionale in tema di discriminazioni e della legislazione comunitaria. Tant'è vero che la cassazione è intervenuta per precisare che la nullità del licenziamento discriminatorio è legata alla violazione di specifiche norme di diritto interno (ad esempio l'art. 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui alD.Lgs. n. 198/2006 e l' art . 54, commi 1, 6, 7 e 9, del T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui alD.Lgs. n. 151 /2001 , espressamente richiamati dall'art. 18 L. n. 300/1970 ) ed Europeo quali quelle di cui alladirettiva n. 76/207/CEE ( traslata nelladirettiva 5 . 07 . 2006 n. 2006/54/CE ) sulle discriminazioni di genere (Cass. civ. Sez. lavoro, 5 . 04 . 2016, n. 6575 ) che parimenti sanciscono la nullità del licenziamento.
Il contrasto circa la tassatività o meno dell'elencazione è stata, dunque, al centro di un ampio dibattito da alcuni stimato ormai superato dalla c.d. Riforma Fornero allorché nel modificare l' art. 18 L. n. 300/1970 ha introdotto, come ipotesi di nullità del licenziamento il motivo illecito determinante ai sensi dell' art. 1345 c.c. . Dibattito, questo, ad avviso dello scrivente mai sedato e, comunque, oggi riaperto dal decreto di attuazione del Jobs Act che, come si vedrà, non opera alcun richiamo all' art. 1345 c.c. .
In dottrina, in ogni caso, si è ritenuto sbagliato accedere ad una interpretazione troppo lassista della norma poiché andrebbe a svilire la norma statutaria che scandisce diversi tipi di tutele a seconda della gravità del vizio che inficia il licenziamento per cui è sembrato più coerente unire la nozione di discriminazione a quegli atti lesivi della dignità del lavoratore e dei suoi diritti fondamentali.
Su questa scia, interessante è l'ordinanza del Tribunale di Milano in data 29.06.2015 che pur non ritenendo tassativa l'elencazione che scaturisce dall' art. 3 L. n. 108/1990 , ha affermato che la nozione legale di discriminazione deve aver “riguardo non a qualsiasi comportamento arbitrario, ingiusto o determinato da motivo illecito, bensì a disparità di trattamento fondate su fattori tipizzanti, di rilevanza collettiva, che attengono all'appartenenza del singolo ad un certo gruppo sociale”. In ogni caso, ciò che si rinviene con chiarezza nell' art. 3 L. n. 108/1990 art. 18 St. Lav numerica dell'azienda. Il licenziamento ritorsivo
Nella parte motiva della richiamata sentenza n. 6575 , i Giudici annotano che ildivieto di discriminazione non passa “attraverso la mediazione dell' art. 1345 c.c. ” riaffermando, così, il distinguo tra “licenziamento discriminatorio” e “licenziamento ritorsivo”, punctum pruriens di ampi dibattiti.
Ciò posto, l'attenzione si sposta su un piano di più ampio respiro poiché, le ipotesi di discriminazione indicate dall' art. 4 L. n. 604/1966 , di certo, non sono le uniche. Basti pensare, ad esempio, a quella normativa che in recepimento delle direttive comunitarie ha allargato alle fattispecie di handicap, età, orientamento sessuale e convinzioni personali del lavoratore. E, in quest'ottica, si colloca Cass. civ. Sez. lavoro, 3 . 12 . 2015, n. 24648 che, facendo leva sull'art. 3 Cost. e sui decisa della Corte di Giustizia, stigmatizza la possibilità di interpretazione estensiva dei divieti posti dalle norme richiamate dall'art. 3 L. n. 108/1990 fino a ricomprendere nell'area “vietata” pure i licenziamenti “per ritorsione o rappresaglia” che definisce come “l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore, quale unica ragione del provvedimento espulsivo”.Al riguardo, è stato osservato come <<… la condanna dei motivi discriminatori è a monte ed è per così dire “di principio”, anche senza necessità che il legislatore ordinario la espliciti o ne dia conferma normativa. Sta al vertice dell'ordinamento, per il ruolo diretto dei principi costituzionali di tutela dei diritti fondamentali della persona, nelle formazioni sociali ai sensi dell' art. 2 Cost. e nei rapporti interprivati, come richiede il principio costituzionale di uguaglianza di cui all' art. 3 Cost. che, se non impone al datore di lavoro di realizzare quel valore, in nome di una ipotetica parità di trattamento dei e tra i lavoratori, certamente gli impedisce di violarlo con un qualsiasi atto di gestione del rapporto di lavoro, tra cui un licenziamento discriminatorio >> (cfr. Paola Bellocchi).
Tirando le fila, quindi, il licenziamento discriminatorio è nullo quale che sia la motivazione esposta. Opera, cioè, “in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta”. In altre parole , si concretizza secondo modalità oggettive ( C ass. 5 . 04 . 2016, n. 6575 , cit.) a prescindere dell'elemento psicologico di chi ha posto in essere la discriminazione. Il licenziamento ritorsivo o per rappresaglia, invece, perché sia nullo è necessario che sia esclusivo e determinante ( Trib. Firenze Sez. lavoro, 14 . 06 . 2016 e Trib. Ascoli Piceno Sez. lavoro, 22 . 01 . 2016 ) e frutto di un'ingiusta ed illegittima risposta ad una condotta lecita del lavoratore licenziato ma sgradita al datore di lavoro. In conclusione possiamo affermare, dunque, che il licenziamento discriminatorio è nullo sussistente la “discriminazione” quali che siano le motivazioni addotte; quello ritorsivo o di rappresaglia, invece, pur assimilabile al primo ( Cass. civ. Sez. lavoro, 8 . 08 . 2011, n. 17087 Onus probandi incumbit ei qui dicit !
Questa è la regola generale che governa l'architettura probatoria dei processi civili e in subiecta materia non fa eccezione per cui, in difetto dell'inversione dell'onere della prova di cui all' art. 5 della L. n. 604/1966 , il gravame di provare la discriminazione incombe sul lavoratore; ed in particolare incombe sul lavoratore che sostiene la ritorsione o la rappresaglia dimostrare che quella è stata l'unica ed esclusiva ragione che ha determinato il datore di lavoro all'atto espulsivo “anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso ( Cass. 14 luglio 2005, n. 14816 ) ” (Trib. Milano Sez. lavoro, Sent., 12.01.2016).
La cosa per il lavoratore, però, non è sempre agevole! Anzi, spesso si presenta molto complessa e gravosa al punto che qualche autore l'ha definita una probatio diabolica! Chi scrive, però, non si sente di condividere tale posizione: l'onere della prova, ancorché gravoso, infatti, ha trovato significativi temperamenti in giurisprudenza.
Il lavoratore, innanzitutto, può assolvere il suo onere probatorio anche attraverso presunzioni ( Cass. civ. Sez. lavoro, 3 . 12 . 2015, n. 24648 ; Cass. 8 .08. 2011, n. 17087 ; Cass. 15.11.2000, n. 14753 ); e, comunque, il datore di lavoro, ai sensi e per gli effetti dell' art. 5 della L. n. 604/1966 , non è sollevato dal provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo (Trib. Milano Sez. lavoro, 22.08.2014; Cass. civ. Sez. lavoro, 14 . 03 . 2013, n. 6501 ).
Icastica al riguardo è Cass. civ. Sez. lavoro, 27 . 02 . 2015, n. 3986 che, nel ribadire i predetti due principi, chiarisce che l'onere probatorio per il lavoratore scatta solo nel momento in cui il datore di lavoratore riesce a fornire, quantomeno prima facie, la prova della giusta causa o del giustificato motivo (cfr. anche Trib. Firenze Sez. lavoro, 23.03.2016).
In ogni caso, comunque, è necessaria la sussistenza di un rapporto di casualità tra le allegazioni e il dedotto intento ritorsivo o di rappresaglia ( Cass. civ. Sez. lavoro n. 6366 del 16 .05. 2000 ha riaffermato come l'onere probatorio “riguardante la prova del fattore discriminatorio o dell'esistenza di un motivo illecito e della sua efficienza causale grava sul lavoratore alla stregua della regola generale in tema di onere della prova ex art. 2697 codice civile ”).
La nullità del licenziamento, però, è esclusa quando “con il motivo illecito concorra un motivo lecito, come la giusta causa ex art. 2119 c.c. ” ( Cass. 8. 0 3.2007, n. 5288 ).
Per offrire un quadro quanto più completo, appare utile richiamare, infine, sia pure a margine, Cass. civ. Sez. lavoro, 3 . 07 . 2015, n. 13673 che, in presenza di un impugnativa del licenziamento per difetto di giusta causa o giustificato motivo, ha stabilito che il motivo discriminatorio o ritorsivo, anche qualora dovesse emergere dalle allegazioni, inserisce un nuovo motivo di illegittimità del recesso estraneo all'originario petitum cosicché né può essere rilevato d'ufficio dal giudice, né può essere oggetto di una diversa qualificazione giuridica della domanda. Le tutele
L' art. 18 l. 300/1970
L' art. 3 L. n. 108/1990 , dichiarata la nullità del licenziamento, prevede , quale che sia la consistenza numerica dell'azienda, la tutela prevista dall' art . 1 8 L. n. 300/1970 nella modalità c.d. “piena” di cui ai commi 1, 2 e 3.
Il giudice, infatti, qualora accerti l'illegittimità del licenziamento perché “discriminatorio ai sensi dell' articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108 , ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 , o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 , e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell' articolo 1345 del codice civile ”, dispone la reintegrazione del lavoratore e condanna il datore di lavoro a corrispondergli un'indennità pari all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegra e, comunque, non inferiore a cinque mensilità.
Il lavoratore, poi, ha facoltà di sostituire la reintegrazione con una ulteriore indennità, non assoggettata a contribuzione e che si aggiunge alla prima, pari a quindici mensilità calcolate sempre sull'ultima retribuzione globale di fatto percepita. Tale opzione deve essere esercitata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione e, nell'affermativa, determina la risoluzione del rapporto di lavoro che, comunque, si estingue qualora il lavoratore non riprenda servizio nei trenta giorni dall'invito del datore di lavoro formulato a seguito dell'ordine di reintegrazione.
Dall'ammontare dell'indennità, come sopra determinato, andrà detratto quanto eventualmente “ percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative”; ossia, il c.d. “aliunde perceptum”.Va annotato, per completezza espositiva, che il datore di lavoro entro quindici giorni dal ricevimento dell'impugnazione di licenziamento può revocare il provvedimento espulsivo. In tale evenienza il rapporto viene ripristinato senza soluzione di continuità e senza l'applicazione delle sanzioni previste dall' art. 18 St. Lav
L' art. 2 d.lgs. 23/2015
Nel sistema normativo del Jobs Act, l' art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015 rappresenta l'omologo dell' art. 18 St. Lav . nella parte in cui disciplina la tutela reintegratoria piena in ipotesi di “ Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale
”.
Le due norme, però, ancorché simili nell'impianto, non sono sovrapponibili!
Il comma 2 dell' art. 2 del D.lgs. n. 23/2015 , infatti, prevede che “Il Giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell' articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300 , e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto ”.
Dall'esame del dato letterale emerge, così, che il Legislatore del Jobs Act ha voluto tipizzare le fattispecie di licenziamento discriminatorio individuate dall' art. 15 della L. n. 300/1970 (partecipazione ad attività sindacali o ad uno sciopero; questioni razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età, di orientamento sessuale o di convinzioni personali) e negli “altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”.
In questo paradigma, l'avverbio “espressamente” presente nell' art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015 (… “casi di nullità espressamente previsti dalla legge”) e assente, invece, nell' art. 18 St. Lav ., che parla solo di “altri casi di nullità previsti dalla legge”, assume un ruolo centrale nell'attività dell'interprete. Mentre le speculazioni sull' art. 18 St. Lav ., infatti, sono indirizzate nel ritenere riconducibili nell'alveo della norma tutte quelle ipotesi di nullità previsti dalla legge, anche se non in maniera “espressa” (quale ad esempio quella derivante dalla violazione dell' art. 4, co. 1, della L . n. 146/1990 in tema di sciopero nei servizi pubblici essenziali), la nuova disciplina sembra essere perentoria nell'individuare i casi di licenziamento discriminatorio.
Autorevole dottrina, però, ritiene, in maniera condivisibile, che un'attenta analisi della ratio legis sottesa alla norma, porta a ritenere che la tutela di cui all' art. 2 D.Lgs. n. 23/2015 sia applicabile pure a tutte quelle ipotesi di invalidità degli atti negoziali nelle quali rientra l' art. 1345 c.c. .
Il ragionamento portato avanti affonda le sue radici nel combinato disposto degli artt. 1345 c.c. (Motivo illecito), art. 1418 c.c. (Cause di nullità del contratto), art. 1344 c.c. (Contratto in frode alla legge) e art. 1324 c.c. (Norme applicabili agli atti unilaterali) del Codice Civile.
L' art. 1344 c.c. , infatti, reputa “illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa” e il seguente art. 1345 c.c. bolla di illeceità il contratto quando è stipulato esclusivamente per un motivo illecito. Il secondo comma dell' art. 1418 c.c. , poi, prevede la sanzione della nullità del contratto in ipotesi di illiceità della causa e dei motivi. E, a chiusura del cerchio, l' art. 1418 c.c. estende espressamente agli atti unilaterali (quale è il licenziamento), in quanto compatibili, le norme sui contratti!
Da qui è stata ritenuta la non necessità di una interpretazione estensiva della norma!
Oltre a ciò è stato pure posto in evidenza che potrebbe risultare una forzatura ritenere l'elencazione contenuta nell' art. 15 St. Lav . tassativa poiché vi sono i “diritti inviolabili dell'uomo”, riconosciuti dall' art. 2 Cost. che potrebbero costituire lo “ scopo oggettivo” del provvedimento espulsivo senza in alcun modo esser e strumentali e necessari alla prestazione lavorativa cosicché, in tale evenienza, si andrebbe a configurare una illiceità della causa con conseguente nullità dell'atto espulsivo nonostante la sua non inclusione delle ipotesi contenute nell' art. 15 n. L. 300/1970 .
Riguardo le conseguenze economiche a seguito della declaratoria giudiziale di nullità del licenziamento non si intravedono difformità tra le due norme se non nelle modalità di computo dell'indennità risarcitoria: a differenza dell' art. 18 St. Lav ., che prevede vada calcolata sull'ultima retribuzione globale di fatto maturata, a mente dell' art. 2 del D.L gs. n. 23/2015 , va determinata sull'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
Sovrapponibile è pure l'ipotesi di “revoca del licenziamento”.
Le descritte tutele, inoltre, precisa il comma 4 dell' art. 2 D.Lgs. n. 23/2015 , si applicano anche in ipotesi in cui il Giudice accerti “il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli art i coli 4 , comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68 ”.
Pure il licenziamento dichiarato inefficace per difetto di forma scritta, infine, gode delle tutele di cui all'art. 2 in esame.
Va annotato, in conclusione, per completezza espositiva che l' art. 6 del D.Lgs. n. 23/2015 introduce una nuova fattispecie di conciliazione: i l datore di lavoro per evitare il giudizio nel termine di impugnazione stragiudiziale del licenziamento può offrire al lavoratore in una delle c.d. sedi protette una mensilità per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto. Importo, questo, da calcolarsi sulla retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, da corrispondersi a mezzo assegno circolare e non soggetto né all'imposta sul reddito delle persone fisiche, né a contribuzione previdenziale.Ove la consistenza numerica del datore di lavoro sia al di sotto dei limiti di cui all' art. 18 L. n. 300/1970 importi de quibus sono dimezzati e, in ogni caso, non possono superare le 6 mensilità. Se il lavoratore accetta l'offerta, il rapporto si estingue dalla data del licenziamento con rinuncia dell'impugnazione se già proposta.In conclusione
Emerge chiaro dalla trattazione che precede, come la materia dei licenziamenti discriminatori sia sempre stata al centro dell'attenzione di dottrina e giurisprudenza che hanno elaborato diversi indirizzi interpretativi. Ed è altresì evidente che il D.Lgs. n. 23/2015 , attuativo della Legge delega n. 183/2014 , non è stato in grado di dirimere i dubbi, anzi, pare a chi scrive che ne abbia introdotti altri.
Alcuni commentatori dell' art. 2 D.lgs. n. 23/2015 , infatti, hanno adombrato, ad esempio, che la norma de qua possa essere affetta da un eccesso di delega poiché l' art. 1, co. 7, lett. c) della Legge n. 183/2014 nella delega al Governo, nel rimandare ai casi di nullità previsti dalla legge, non ha indicato il requisito della “espressa previsione” ma, si è limitato a prevedere, per le nuove assunzioni, la reintegrazione solo per i licenziamenti nulli e discriminatori e per specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato!
Di certo, non sembra una scelta convincente l'aver lasciato due tutele concorrenti (quella dell' art. 18 St. Lav . e quella del Jobs Act) in quanto la loro coesistenza può creare nello stesso ambito lavorativo situazioni di disparità di trattamento a causa delle diverse tutele in caso di licenziamento illegittimo.
In ogni caso, va rilevato il dato oggettivo che negli ultimi tempi il diritto e le tutele antidiscriminatorie nell'ambito del c.d. diritto vivente hanno assunto maggiore ed effettiva concretezza.
Paola Bellocchi, “Il licenziamento discriminatorio” , ADL - Argomenti di Diritto del Lavoro n. 4-5/2013, CEDAM.Lilli Casano, Emmanuele Massagli, Pierluigi Rausei, Silvia Spattini, Paolo Tommasetti, “Le nuove regole del lavoro dopo il jobs act”, a cura di Michele Tiraboschi, 2016, Giuffrè Editore. , “Il licenziamento discriminatorio e nullo nel “passaggio” dall' art. 18. Stat. lav . all' art. 2, d.lgs. n. 23/2015 ”, 2015 ADAPT University Press. |