Diritto del familiare di persona affetta da handicap grave di scegliere la sede di lavoro in costanza di rapporto

28 Gennaio 2016

Il genitore o il familiare lavoratore, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap con lui convivente, può esercitare, ai sensi dell'art. 33, commi 5 e 6, della l. n. 104/1992, il diritto di scegliere la sede di lavoro sia al momento dell'assunzione che in costanza di rapporto, sempreché il posto risulti esistente e vacante.
Massima

Il genitore o il familiare lavoratore, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap con lui convivente, può esercitare, ai sensi dell'art. 33, commi 5 e 6, della l. n. 104/1992, il diritto di scegliere la sede di lavoro sia al momento dell'assunzione che in costanza di rapporto, sempreché il posto risulti esistente e vacante.

Il caso

Il dipendente di un ufficio giudiziario aveva adito il g.l. per sentir dichiarare illegittimo il diniego dell'amministrazione di trasferirlo presso la sede di residenza di una nipote portatrice di handicap, cui prestava assistenza continuativa ed esclusiva; domanda formulata ex art. 33, comma 5, l. n. 104/1992. Il giudice gli aveva dato ragione, ordinando al Ministero della Giustizia di disporre il richiesto trasferimento. Proposto appello dal Ministero, la Corte territoriale competente aveva rigettato il gravame, escludendo che la pretesa de qua fosse realizzabile solo in sede di costituzione del rapporto e non anche successivamente; aveva, peraltro, ritenuto provati i requisiti della continuità ed esclusività della prestazione assistenziale e della disponibilità del posto oggetto della domanda di trasferimento.

Il Ministero della Giustizia ha proposto ricorso per cassazione deducendo violazione dell'art. 33 della legge n. 104/1992, nonché vizio di motivazione della sentenza circa la sussistenza dell'esclusività dell'assistenza e l'assolvimento dell'onere della prova relativo.

Le questioni

Le questioni affrontate dalla Cassazione sono due:

  • se sia possibile operare la scelta del luogo di lavoro per prestare assistenza continuativa ed esclusiva ad un familiare portatore di handicap, oltre che al momento dell'assunzione, anche nel corso del rapporto lavorativo, ed a quali condizioni;
  • quali sono i limiti del sindacato della S.C. sul vizio di motivazione della sentenza impugnata.
Le soluzioni giuridiche

La S.C. ha risolto la prima questione affermando che il diritto di “scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio”, che l'art. 33, comma 5 cit.riconosce in favore del genitore o del familiare lavoratore, pubblico o privato, che assiste con continuità un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, con lui convivente, possa essere esercitato anche in costanza di rapporto di lavoro, desumendolo da due elementi testuali:

  • quello - diretto, perché contenuto nel medesimo comma 5 - dell'impossibilità di essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso, che, evidentemente, rende il diritto del lavoratore di assicurarsi la sede di lavoro più vicina al familiare assistito concreto ed attuale anche durante l'esplicazione del rapporto di lavoro;
  • quello - indiretto, perché desunto dalla lettura comparativa con il successivo comma 6 - del corrispondente diritto della persona portatrice di handicap maggiorenne, in situazione di gravità, di “scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio”, con connesso divieto di “essere trasferita in altra sede senza il suo consenso”.

La Corte ha, inoltre, precisato che:

  • l'esercizio del diritto di scelta della sede, successivo all'instaurazione del rapporto, è possibile sia quando la situazione di handicap del familiare intervenga in corso di lavoro, sia quando preesista ma l'interessato, per ragioni apprezzabili, intenda mutare la propria residenza;
  • la scelta - tanto al momento dell'assunzione che durante il rapporto - è esercitabile “ove possibile”, ossia previo bilanciamento con le esigenze economiche ed organizzative dell'impresa, presupponendo l'esistenza e la vacanza del posto nella sede eligenda.

La Cassazione ha così confermato il proprio orientamento in materia, già espresso in precedenti pronunce: si legga, per tutte, Cass. Sez. L. 18 febbraio 2009, n. 3896, a tenore della quale «In materia di assistenza ai portatori di handicap, la norma di cui all'art. 33, sesto comma, della legge n. 104 del 1992, circa il diritto del disabile in situazione di gravità di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, va interpretata nel senso che esso può essere esercitato, al ricorrere delle condizioni di legge, oltre che al momento dell'assunzione, anche successivamente a quest'ultima e, in tal caso, sia quando la situazione di handicap intervenga in corso di rapporto, sia quando essa preesista ma l'interessato, per ragioni apprezzabili, intenda mutare la propria residenza, deponendo in tal senso, oltre che la lettera della norma, l'esigenza di consentire l'effettività del diritto al lavoro in capo alla persona svantaggiata a causa della situazione di handicap»; negli stessi termini Cass. Sez. L. 5/9/2011, n. 18223.

La Corte aveva in precedenza posto l'accento sui limiti di esercizio del diritto di scelta, non assoluto né incondizionato, perché «come dimostrato anche dalla presenza dell'inciso "ove possibile", può essere fatto valere allorquando, alla stregua di un equo bilanciamento tra tutti gli implicati interessi costituzionalmente rilevanti, il suo esercizio non finisca per ledere in maniera consistente le esigenze economiche, produttive od organizzative del datore di lavoro e per tradursi in un danno per l'interesse della collettività» (Cass. S.U. 29/3/2008, n. 7945).

La Corte aveva anche statuito che nel giudizio promosso dal lavoratore cui sia stata negata la scelta, l'onere probatorio sulla sussistenza della possibilità del trasferimento, «siccome concernente i fatti costitutivi del diritto al trasferimento di sede, compete al lavoratore attore, risolvendosi l'eccezione di inesistenza dello stesso (requisito n.d.r.), da parte dell'Amministrazione, in una mera difesa” (così Cass. S.U. 29/3/2008, n. 7945); mentre l'onere probatoriorelativo alla lesione in termini consistenti delle esigenze economiche, produttive ed organizzative aziendali, in quanto fatto impeditivo all'esercizio del diritto medesimo, grava sul datore di lavoro (Cass. Sez. L. 5/9/2011, n. 18223).

Sulla seconda questione sollevata dal Ministero, la Corte ha affermato che il vizio di motivazione, quando si traduca in una richiesta di riesame dell'accertamento in fatto della Corte territoriale sulla verifica dei presupposti del diritto azionato, sconfina in un riesame di merito della vicenda e non è deferibile al giudice di legittimità, cui spetta solo il controllo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale delle argomentazioni del giudice di merito.

Sul punto la Corte ha ribadito un consolidato orientamento - affermatosi prima della modifica in senso restrittivo dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., operata dall'art. 54 del d.l. n. 83/2012-, orientamento sintetizzabile nell'affermazione che «Il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti» (Cass. Sez. V 28/11/2014, n. 25332, con l'ulteriore specificazione che «La valutazione degli elementi probatori è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento» (Cass. sez. VI 26/1/2015, n. 14141).

Osservazioni

Il tema della scelta del luogo di lavoro per il familiare di soggetto portatore di handicap grave si inserisce nel più ampio capitolo del luogo di svolgimento della prestazione lavorativa che, nel contratto di lavoro, ha una disciplina diversa da quella della generalità dei rapporti obbligatori.

Per l'art. 1182 c.c., il luogo di adempimento della prestazione dovuta dal debitore è determinato dal contratto o dagli usi; in mancanza si può desumere dalla natura della prestazione o da altre circostanze.

Anche nel rapporto di lavoro il luogo dell'adempimento è normalmente determinato in via negoziale, attraverso un'esplicita indicazione inserita nel contratto individuale; ove ciò non avvenga, però, l'individuazione è fatta unilateralmente dal datore di lavoro, nell'esercizio dei propri poteri conformativi della prestazione lavorativa, id est del potere direttivo e gerarchico tipico della subordinazione.

Rientra in tale potere la facoltà riconosciuta al datore di variare nel tempo il luogo di esecuzione della prestazione, disponendo unilateralmente il trasferimento del lavoratore ad altra sede in costanza di rapporto.

L'esercizio di tale potere unilaterale è stato circoscritto dall'art. 13 dello Statuto dei Lavoratori, che, con una modifica all'art. 2103, comma 1, c.c., ha stabilito che il lavoratore non possa essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra «se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive».

La disposizione di cui all'art. 33, comma 5, l. n. 104/1992 (insieme a quella di cui al successivo comma 6) ha introdotto una consistente limitazione alle forme di esercizio del potere datoriale di conformazione della prestazione lavorativa quanto al luogo dell'adempimento, affermando, da un lato, il diritto per il familiare di soggetto portatore di handicap di scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere, dall'altro il divieto di disporre il trasferimento ex art. 2013 c.c. senza il suo consenso.

In sintesi, l'esercizio del diritto di scelta del luogo di lavoro presuppone due condizioni:

  • che vi sia la concreta possibilità del trasferimento richiesto, intesa come esistenza presso la sede ad quem di posti vacanti in organico, o possibilità di utilizzazione del lavoratore in soprannumero, o sua adibizione ad altre mansioni equivalenti a quelle svolte nella sede a quo;
  • che il mutamento del luogo di esecuzione della prestazione non leda in maniera apprezzabile le esigenze del datore di lavoro economiche, produttive ed organizzative.

La facoltà è esercitabile non soltanto quando la necessità di assistenza in favore del congiunto preesista all'instaurazione del rapporto e, dunque, si tratti di scegliere la sede di prima assegnazione, ma anche quando si verifichi in un momento successivo alla costituzione del rapporto.

L'affermazione, a parere dello scrivente, è non solo plausibile in base ad una interpretazione letterale e sistematica del citato art. 33, comma 5, ma è addirittura doverosa per effetto di una lettura “costituzionalmente orientata” della norma, che cioè tenga debitamente conto dei principi di uguaglianza sostanziale dei cittadini, in funzione di rimozione degli ostacoli che impediscono la tutela della persona disabile (art. 3, comma 2, Cost.); di agevolazione, anche mediante provvidenze non economiche, dell'adempimento dei vincoli di solidarietà familiare (art. 31 Cost.); di tutela piena della salute, come fondamentale diritto dell'individuo ed interesse della collettività (art. 32 Cost.).

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