I licenziamenti collettivi nelle sentenze della Corte di giustizia

Roberto Cosio
28 Luglio 2016

La CGUE, nelle sentenze prese in esame, affronta una serie di questioni: il problema del c.d. licenziamento indiretto e l'esatta portata della nozione di “stabilimento” di cui all'art. 1, paragrafo 1, lettera a) della direttiva 98/59 per stabilire se abbiano avuto luogo licenziamenti collettivi, ancora esamina se i lavoratori assunti, soltanto a tempo determinato, debbano essere parimenti ricompresi nel conteggio volto a stabilire se sia stata raggiunta la soglia, che determina l'applicazione della direttiva 98/59. Nel focus in oggetto sono analizzati gli effetti delle sentenze sull'ordinamento interno.
Introduzione

La CGUE, nelle sentenze esaminate, affronta una serie di questioni: a) il problema del c.d. licenziamento indiretto (esaminato nella sentenza dell'11 novembre 2015, C-422/14); b) l'esatta portata della nozione di “stabilimento” di cui all'art. 1, paragrafo 1, lettera a) della direttiva 98/59 al fine di stabilire se abbiano avuto luogo licenziamenti collettivi (esaminato nelle cause C-80/14, C-182/13 e C-392/13); c) se i lavoratori assunti soltanto a tempo determinato debbano essere parimenti ricompresi nel conteggio volto a stabilire se sia stata raggiunta la soglia che determina l'applicazione della direttiva 98/59 (esaminato nella sentenza dell'11 novembre 2015, C-422/14).

Premessa

Il legislatore europeo, con la direttiva 98/59, intendeva dare un contributo al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nella comunità europea pur nel rispetto della libertà di iniziativa economica.

Con la direttiva infatti si è inteso fissare, in caso di licenziamenti collettivi, una serie di vincoli di tipo procedurale senza imporre particolari restrizioni, sotto il profilo sostanziale, alle scelte dell'imprenditore che rimane libero di procedere a licenziamenti (Sentenza CGUE, 7 settembre 2006, cause riunite da C-187/05 a C-190/05, punto 35) e, più in generale, ad organizzare la propria attività economica nel modo che ritiene più opportuno (Sentenza, CGUE, 7 dicembre 1995, C-449/93, punto 21.).

È del resto significativo che la giurisprudenza della Corte di giustizia si sia concentrata soprattutto sull'ambito di applicazione della direttiva.

Nell'ultimo periodo, però, si avverte un significativo mutamento di rotta nelle questioni sottoposte alla Corte.

L'elevazione dell'informazione e consultazione dei lavoratori nell'ambito dell'impresa al rango di principi fondamentali dell'Unione (art. 27 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea) e l'importanza dei licenziamenti collettivi nei gruppi d'impresa ha creato i presupposti per l'emergere di una serie di questioni che hanno trovato risposta in alcune importanti decisioni della Corte.

Si pensi alla sentenza Mono Car, sui diritti di informazione e consultazione (Sentenza CGUE, C-12/08 del 2009) o alla sentenza Akavan in tema di gruppi di imprese ( Sentenza CGUE, C-44/08).

La nozione di licenziamento collettivo

Il giudice di rinvio, nel secondo quesito posto nella causa C-422/14, chiede alla Corte se, al fine di accertare l'esistenza di un “licenziamento collettivo” ai sensi della direttiva, la condizione prevista nel secondo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59 che “i licenziamenti siano almeno cinque” debba essere interpretata nel senso che essa riguarda esclusivamente i licenziamenti ovvero ricomprenda le cessazioni di contratti di lavoro assimilate ad un licenziamento.

La Corte sposa la prima tesi (la disposizione riguarda “esclusivamente i licenziamenti in senso stretto”) in base ad argomenti esegetici (la disposizione riguarda solamente i “licenziamenti”) avvalorati dalla finalità della direttiva quale risulta dal suo preambolo.

Infatti, ai sensi dell'8 considerando, “ai fini del calcolo del numero di licenziamenti previsti nella definizione di licenziamenti collettivi occorre assimilare ai licenziamenti altre forme di cessazione del contratto di lavoro per iniziativa del datore di lavoro, purché i licenziamenti siano almeno cinque. Come rilevato dall'avvocato generale (…) sono questi veri licenziamenti che il legislatore dell'unione ha inteso considerare con l'adozione delle disposizioni relative ai licenziamenti collettivi”.

Interpretazione che, peraltro, trova conforto nei lavori preparatori della direttiva.

La Commissione, nella sua proposta che ha preceduto la direttiva 92/56/CEE (Proposta della Commissione del 31 marzo 1992, COM(92) 127 def., pag. 8.) intendeva accogliere una nozione di licenziamento collettivo più ampia.

Per licenziamento collettivo doveva intendersi qualunque cessazione del contratto di lavoro intervenuta su iniziativa del datore di lavoro, per motivi non inerenti alla persona del lavoratore ed eccedenti la corrispondente soglia.

Il legislatore della direttiva non ha però aderito a tale proposta.

È stata, quindi, mantenuta la definizione originaria di licenziamento collettivo ai sensi dell'art. 1, paragrafo 1, lettera a), della direttiva, ma è stato aggiunto nell'art. 1, un ultimo comma vertente sulle cessazioni dei contratti assimilabili ai licenziamenti.

La portata di questa decisione sul diritto interno deve essere letta in connessione con la risposta al terzo quesito posto nella causa C-422/14.

(segue) I licenziamenti “indiretti”

Il giudice di rinvio, nel secondo quesito posto nella causa C-422/14, chiede alla Corte se, al fine di accertare l'esistenza di un “licenziamento collettivo” ai sensi della direttiva, la condizione prevista nel secondo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59 che “i licenziamenti siano almeno cinque” debba essere interpretata nel senso che essa riguarda esclusivamente i licenziamenti ovvero ricomprenda le cessazioni di contratti di lavoro assimilate ad un licenziamento.

La Corte sposa la prima tesi (la disposizione riguarda “esclusivamente i licenziamenti in senso stretto”) in base ad argomenti esegetici (la disposizione riguarda solamente i “licenziamenti”) avvalorati dalla finalità della direttiva quale risulta dal suo preambolo.

Infatti, ai sensi dell'8 considerando, “ai fini del calcolo del numero di licenziamenti previsti nella definizione di licenziamenti collettivi occorre assimilare ai licenziamenti altre forme di cessazione del contratto di lavoro per iniziativa del datore di lavoro, purché i licenziamenti siano almeno cinque. Come rilevato dall'avvocato generale (…) sono questi veri licenziamenti che il legislatore dell'unione ha inteso considerare con l'adozione delle disposizioni relative ai licenziamenti collettivi”.

Interpretazione che, peraltro, trova conforto nei lavori preparatori della direttiva.

La Commissione, nella sua proposta che ha preceduto la direttiva 92/56/CEE (Proposta della Commissione del 31 marzo 1992, COM(92) 127 def., pag. 8.) intendeva accogliere una nozione di licenziamento collettivo più ampia.

Per licenziamento collettivo doveva intendersi qualunque cessazione del contratto di lavoro intervenuta su iniziativa del datore di lavoro, per motivi non inerenti alla persona del lavoratore ed eccedenti la corrispondente soglia.

Il legislatore della direttiva non ha però aderito a tale proposta.

È stata, quindi, mantenuta la definizione originaria di licenziamento collettivo ai sensi dell'art. 1, paragrafo 1, lettera a), della direttiva, ma è stato aggiunto nell'art. 1, un ultimo comma vertente sulle cessazioni dei contratti assimilabili ai licenziamenti.

La portata di questa decisione sul diritto interno deve essere letta in connessione con la risposta al terzo quesito posto nella causa C-422/14.

La nozione di “stabilimento” nella direttiva 98/59

La Corte d'appello del Regno Unito ha chiesto alla Corte di giustizia, nella causa C-80/14, se la nozione di “stabilimento” di cui all'art. 1, par. 1, primo comma lettera a), ii), della direttiva 98/59 doveva essere interpretato nello stesso modo della nozione di stabilimento che figura nella lettera a), i), del medesimo comma.

Analoghe questioni venivano sollevate nei procedimenti C-182/13 e C-392/13.

La direttiva 98/59, ai fini della sua applicazione, autorizza, infatti, gli Stati membri a scegliere tra due diversi metodi, descritti rispettivamente ai punti i) e ii) dell'art. 1, paragrafo 1, lettera a).

Il primo metodo (metodo del punto i) prevede tre alternative, in funzione del numero totale di lavoratori occupati nello stabilimento considerato.

In base a tale metodo, il numero di licenziati rilevanti per la direttiva, espresso in percentuale o in valore assoluto e calcolato su un periodo più breve (30 giorni) deve essere posto in relazione con il numero totale di lavoratori.

Il secondo metodo (metodo del punto ii) richiede di accertare, su un periodo più lungo (90 giorni), se il numero di licenziati rilevanti per la direttiva in un determinato stabilimento superi un valore assoluto, a prescindere dal numero totale di lavoratori ivi occupati.

Il Regno Unito ha optato per il metodo ii).

In forza del diritto nazionale, quindi, qualora un datore di lavoro intenda sopprimere almeno 20 posti di lavoro in uno stabilimento nel corso di un periodo di 90 giorni, lo stesso è tenuto a rispettare una procedura di informazione e di consultazione dei lavoratori al riguardo.

La Corte, nella sentenza del 30 aprile 2015, C-80/14, precisa, preliminarmente, che la nozione di stabilimento, che non è definita dalla direttiva 98/59, “costituisce una nozione di diritto dell'Unione e non può definirsi mediante richiamo alle normative degli Stati membri. Essa deve quindi ricevere un'interpretazione autonoma e uniforme nell'ordinamento giuridico dell'Unione” (punto 45).

Ciò premesso, occorre ricordare che la Corte di giustizia ha già interpretato la nozione di stabilimento o di “stabilimenti” contenuta nell'art. 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a) della direttiva 98/59.

Nella sentenza Rockfon (CGUE, sentenza 7 dicembre 1995, C-449/93 punto 32), la Corte precisa che tale nozione designa “l'unità alla quale sono addetti i lavoratori colpiti da licenziamento per lo svolgimento delle loro mansioni”.

Il fatto che l'unità di cui trattasi, precisa la sentenza 13 maggio 2015, C-392/13 (punto 44), “disponga di una direzione che possa effettuare licenziamenti collettivi in modo autonomo non è essenziale per la definizione della nozione di stabilimento”.

Nella sentenza Athinaiki Chartopoina (CGUE, Sentenza 15 febbraio 2007, C-270/05), la Corte precisava ulteriormente che può costituire uno stabilimento “un'entità distinta, che presenta caratteristiche di permanenza e stabilità, che è destinata ad effettuare una o più operazione determinate e che dispone di un insieme di lavoratori nonché di strumenti tecnici e di una certa struttura organizzativa che permette il compimento di tali operazioni” (punto 27).

Con l'utilizzo dei termini “entità distinta” e “nell'ambito dell'impresa” la Corte ha, quindi, precisato che le nozioni di “impresa” e di “stabilimento” sono diverse e che lo stabilimento costituisce di regola una parte di un'impresa (si veda il punto 50 della sentenza C-80/14).

Al punto 28 della sentenza Athinaiki Chartopoiia, la Corte ha affermato, peraltro, che, in considerazione del fatto che lo scopo della direttiva 98/59 attiene agli effetti socioeconomici che i licenziamenti collettivi potrebbero provocare in un contesto locale e in un ambiente sociale determinati, l'entità in questione non deve necessariamente essere dotata di una qualsivoglia autonomia giuridica e neppure di un'autonomia economica, finanziaria, amministrativa o tecnologica per poter essere qualificata come stabilimento.

In base a tale orientamento risulta che qualora un'impresa comprenda più entità “è l'entità cui i lavoratori colpiti da licenziamento sono addetti per lo svolgimento delle loro mansioni a costituire lo stabilimento, ai sensi dell'art. 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a) della direttiva 98/59” (punto 52 della sentenza C-80/14)

La Corte ritiene che tale orientamento debba essere di applicazione generale.

Nelle sentenze Lyttle e a. (CGUE sentenza 13 maggio 2015, C-182/13) e USDAW e Wilson (CGUE sentenza 30 aprile 2015, C-80/14), infatti, la Corte ha dichiarato che “il significato dei termini “stabilimento” o “stabilimenti” (di cui all'art. 1, primo comma, lettera a), i), della direttiva 98/59 è identico a quello del termine “stabilimento” o “stabilimenti” che ricorrono nell'art. 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), ii), della medesima direttiva”.

In effetti, sarebbe decisamente assurdo prospettare un'interpretazione mutevole di una nozione sottesa ad una disposizione contenuta in una sezione intitolata “Definizione e campo di applicazione”.

Ciò sarebbe incompatibile con il principio di certezza del diritto, come sottolinea l'Avvocato generale WAHL nelle sue conclusioni del 5 febbraio 2015.

La Corte supporta tale conclusione con una serie di argomenti:

  1. In primo luogo, rileva, nelle sentenze citate, che il significato dei termini “stabilimento” o “stabilimenti” è identico nell'ambito dei due metodi (i) e (ii).
  2. Inoltre, prosegue la Corte, “una differenza di siffatta portata sarebbe contraria alla necessità, sottolineata dal considerando 7 della direttiva 98/59, di promuovere il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti” (punto 60, sentenza C-80/14).
  3. L'interpretazione fornita dalla Corte, peraltro, “è suffragata dalle disposizioni della direttiva 2002/14/CE (…) il cui articolo 2, lettere a) e b), stabilisce anch'esso una netta distinzione tra le nozioni di impresa e di stabilimento” (punto 69 della sentenza C-80/14).

Nel caso di specie (C-80/14), conclude la Corte, considerato che i licenziamenti “sono avvenuti all'interno di due gruppi della grande distribuzione che svolgono la loro attività attraverso negozi situati in varie località nel territorio nazionale, ciascuno dei quali avente, nella maggior parte dei casi, meno di 20 dipendenti, gli Employment Tribunals hanno ritenuto che i negozi ai quali i dipendenti coinvolti nei licenziamenti erano addetti fossero Stabilimenti distinti. Spetta al giudice del rinvio valutare se ciò sia vero, in considerazione delle circostanze concrete della fattispecie, sulla scorta della giurisprudenza ricordata ai punti 47, 49 e 51 della presente sentenza” (punto 71).

Nel caso di specie esaminato nella sentenza C-182/13 (Sentenza del 13 maggio 2015), conclude la Corte, “risulta che ciascuno dei negozi di cui trattasi nel procedimento principale costituisce un'entità distinta, che normalmente è permanente, incaricata dell'esecuzione di determinati compiti, vale a dire, principalmente, la vendita di merci, e che, a tal fine, dispone di vari lavoratori, di mezzi tecnici e di una struttura organizzativa, in quanto il negozio è un centro costi individuale gestito da un direttore” (punto 51).

Nel caso di specie esaminato dalla sentenza C-392/13 (Sentenza del 13 maggio 2015), infine, la Corte accertava “che i licenziamenti di cui trattasi nel procedimento principale non raggiungevano la soglia prevista dall'art. 51, paragrafo 1, primo comma, lettera b) dello Statuto dei lavoratori, a livello dell'impresa, che comprendeva i due stabilimenti della Nexea situati a Madrid e Barcellona (punto 55). In circostanze come queste, “la direttiva 98/59 non richiede l'applicazione del suo articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), a una situazione in cui non tutti gli elementi di una soglia di applicazione prevista da tale disposizione siano soddisfatti” (punto 56).

Decisioni (le prime due) che sembrano, peraltro, supportate dalla considerazione che la direttiva 98/59, pur garantendo un livello minimo di tutela dei lavoratori nei diversi Stati membri, mira, per altro verso, ad armonizzare gli oneri che le suddette norme di tutela comportano per le imprese dell'Unione europea (Cfr. CGUE sentenza 12 ottobre 2004, C-55/02, Commissione/Portogallo, punto 48).

Con l'importante precisazione, contenuta nel punto 52 della sentenza C-392/13, che la sostituzione della nozione di “stabilimento” con quella di “impresa” “può essere considerata favorevole ai lavoratori solo a condizione che tale elemento sia aggiuntivo e non comporti l'abbandono o la riduzione della tutela concessa ai lavoratori nel caso in cui, tenendo conto della nozione di stabilimento, sia raggiunto il numero di licenziamenti richiesto all'art. 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), della direttiva 98/59, ai fini della qualificazione come licenziamento collettivo”.

Da qui la conclusione che la direttiva osta “a una normativa nazionale che introduca come sola unità di riferimento l'impresa e non lo stabilimento, qualora l'applicazione di tale criterio abbia la conseguenza di ostacolare la procedura di informazione e consultazione prevista dalla direttiva”.

Gli effetti della sentenze sono molteplici e trascendono i confini della materia dei licenziamenti collettivi.

Dal punto di vista dell'ordinamento comunitario, infatti, appare possibile sostenere che l'interpretazione di “stabilimento” formulata dalla Corte di giustizia con riferimento alla direttiva n. 98/50/Ce del 20 luglio 1998 possa valere anche con riferimento alla direttiva n. 2001/23/CE (che regola il trasferimento dell'impresa).

In questo senso depongono dati esegetici (il termine “stabilimento” è contenuto nella lettera a) dell'art. 1 della direttiva 2001/23 che fissa l'ambito di applicazione della normativa) e la ratio sottesa alle direttive (rivolte entrambe al rafforzamento delle tutele dei lavoratori).

Peraltro, tanto l'applicazione uniforme del diritto comunitario quanto il principio d'uguaglianza impongono che una disposizione di diritto comunitario che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo senso e della sua portata deve normalmente dar luogo, nell'intera Comunità, ad un'interpretazione autonoma ed uniforme da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione e dello scopo perseguito dalla normativa.

Sotto altro profilo, con riferimento alla materia dei licenziamenti collettivi, è, certamente, rilevante la riflessione sullo scopo della direttiva 98/59 che emerge dall'insieme delle sentenze esaminate.

In sintesi, sembra di intravedere, nelle diverse sentenze esaminate, un costante tentativo di bilanciare due obiettivi diversi.

Il primo (che possiamo definire di protezione sociale) tendente ad assicurare una tutela minima in riferimento all'informazione e alla consultazione dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi, salva la possibilità, per gli Stati membri, di adottare misure più favorevoli per i lavoratori.

Il secondo (inerente al mercato interno) che mira ad armonizzare gli oneri che le norme di tutela comportano per le imprese dell'Unione europea.

Complessa opera di bilanciamento che la Corte opera con estrema attenzione nelle diverse fattispecie che le vengono sottoposte.

La nozione di “lavoratori abitualmente impiegati” nello stabilimento

Il giudice di rinvio, nella causa C-422/14, chiede alla Corte se i lavoratori assunti soltanto a tempo determinato debbano essere parimenti ricompresi nel conteggio volto a stabilire se sia stata raggiunta la soglia che determina l'applicazione della direttiva 98/59.

La risposta positiva della Corte si basa su due considerazioni di fondo.

In primo luogo, la nozione di “lavoratore”, che dev'essere interpretata in modo autonomo ed unitario (Cfr. CGUE sentenza 13 febbraio 2014, C-596/12, Commissione/Italia, punto 16), deve essere definita in base a criteri oggettivi che caratterizzano il rapporto di lavoro sotto il profilo dei diritti e degli obblighi degli interessati.

La caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un'altra e sotto la direzione di quest'ultima prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione(Cfr. CGUE sentenza 13 febbraio 2014, C-596/12, Commissione/Italia, punto 17).

Essendo pacifico, afferma la Corte, che, nella specie, “i contratti di lavoro conclusi a tempo determinato o per un compito determinato soddisfano le caratteristiche essenziali così definite, si deve rilevare che le persone che ne beneficiano devono essere considerati lavoratori ai sensi dell'art. 1, paragrafo 1, della direttiva 98/59”.

In ordine, poi, alla questione se detti lavoratori possano essere considerati “abitualmente” impiegati nello stabilimento interessato la Corte ricorda che la direttiva non può essere interpretata nel senso che le modalità di calcolo delle “soglie” possano essere rimesse alla discrezione degli Stati membri, giacché una interpretazione del genere consentirebbe a questi ultimi di alterare l'ambito della direttiva, privandola della sua efficacia.

Di conseguenza, e sulla scorta dei suoi precedenti (Cfr. CGUE sentenza 13 febbraio 2014, C-596/12, Commissione/Italia, punto 47), la Corte conclude che i lavoratori coinvolti nel procedimento in esame “devono essere considerati abitualmente impiegati nello stabilimento interessato, dato che, come rilevato dal giudice di merito, essi erano stati assunti di anno in anno per un compito determinato.

Conclusione che non può essere rimessa in discussione dall'argomento dedotto dal giudice di rinvio secondo cui sarebbe contraddittorio non consentire ai lavoratori i cui contratti cessino alla scadenza del termine convenuto di beneficiare della tutela garantita dalla direttiva 98/59, sebbene tali lavoratori siano presi in considerazione ai fini della determinazione del numero di persone impiegate “stabilmente” da uno stabilimento.

Infatti, riprendendo le conclusioni dell'avvocato generale (punti 31 e 32), precisa La Corte” da un lato, lo stesso legislatore ha ritenuto che per le persone che beneficiano di contratti di lavoro conclusi a tempo determinato o per un compito determinato e i cui contratti cessino regolarmente con la scadenza del termine o con l'espletamento del compito non sussista un'analoga esigenza di tutela come per i lavoratori a tempo indeterminato. Conformemente all'art. 1, paragrafo 2, lettera a) della direttiva 98/59, dette persone possono tuttavia beneficiare della stessa tutela dei lavoratori assunti a tempo indeterminato se si vengono a trovare in una situazione analoga, vale a dire se il rapporto cessa prima della scadenza del termine fissato dal contratto o dall'espletamento del compito per il quale siano stati assunti.

Dall'altro lato, il legislatore stesso, assoggettando a criteri quantitativi l'applicazione dei diritti conferiti ai lavoratori dell'art. 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a) della direttiva 98/59, ha inteso prendere in considerazione l'organico complessivo degli stabilimenti interessati per non imporre ai datori di lavoro un onere sproporzionato rispetto alle dimensioni del loro stabilimento. Orbene, ai fini del calcolo dell'organico di uno stabilimento per l'applicazione della direttiva 98/59, la natura del rapporto di lavoro è irrilevante”.

L'impatto della sentenza sull'ordinamento interno sembra confermare un orientamento, da tempo, prevalente.

In sostanza, la sentenza conferma la tesi della computabilità dei contratti a tempo determinato qualora essi risultino non legati ad esigenze eccezionali ma facciano parte dell'ordinario fabbisogno dell'azienda.

In conclusione

Una considerazione finale può svolgersi.

Dalle sentenze esaminate emergono alcune indicazioni di fondo.

I) In ordine alla nozione di licenziamento collettivo:

a) trova conferma la tesi, prevalente, che “solo una volta raggiunto il numero di cinque licenziamenti nell'arco temporale di 120 giorni, anche altre ipotesi risolutorie del genere restano assoggettate alla procedura di mobilità ed ai criteri di scelta, stabiliti dagli artt. 4 e 5 della stessa legge”.

In questo contesto, l'esistenza di un licenziamento “indiretto” si pone come eccezione rispetto alla regola che impone, per il configurarsi della condizione che “i licenziamenti siano almeno cinque”, la presenza di licenziamenti in senso stretto (“veri” licenziamenti).

Affermazione che, se condivisa, impone una individuazione estremamente accurata dell'esistenza di tale ipotesi circoscritta, nell'analisi sopra descritta, ad alcune ipotesi che, in precedenza, potevano integrare gli estremi di dimissioni per giusta causa.

II) La nozione di stabilimento, nella direttiva 98/59, viene interpretata dalla CGUE in modo casistico.

In sostanza, la Corte, pur non mancando di fornire chiarimenti sugli elementi costitutivi della fattispecie, privilegia un approccio attento alle peculiarità delle diverse fattispecie bilanciando due obiettivi diversi.

Il primo (che possiamo definire di protezione sociale) tendente ad assicurare una tutela minima in riferimento all'informazione e alla consultazione dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi, salva la possibilità, per gli Stati membri, di adottare misure più favorevoli per i lavoratori.

Il secondo (inerente al mercato interno) che mira ad armonizzare gli oneri che le norme di tutela comportano per le imprese dell'Unione europea.

Complessa opera di bilanciamento che la Corte opera con estrema attenzione nelle diverse fattispecie che le vengono sottoposte.

III) L'individuazione della nozione di “lavoratori abitualmente impiegati” nello stabilimento effettuato dalla CGUE conferma la tesi, prevalente nell'ordinamento interno, della computabilità dei contratti a tempo determinato qualora essi risultino non legati ad esigenze eccezionali ma facciano parte dell'ordinario fabbisogno dell'azienda.

Con la nozione comunitaria di “lavoratore” dovrà, infine, fare i conti l'attuale dibattito sull'art. 2 del d.lgs n. 81/2015. Nozione comunitaria che, secondo alcuni Autori avrebbe indotto il legislatore attuale ad imperniare la definizione sull'elemento della “etero-organizzazione”.

La molteplicità delle tesi in campo per ricostruire il dettato normativo dovrà, inevitabilmente, fare riferimento alla giurisprudenza della Corte di giustizia.

Guida all'approfondimento

Cosio, Curcuruto e Foglia, Il licenziamento collettivo in Italia nel quadro del diritto dell'Unione europea (a cura di ), Milano, 2016.

Pessi, Il tipo contrattuale: autonomia e subordinazione dopo il Jobs Act, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D'Antona”.IT – 282/2015

Ichino, Il lavoro parasubordinato organizzato dal committente, in www.pietroichino.it

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