Insussistenza del fatto non rilevante disciplinarmente nel licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo
03 Agosto 2016
Massima
In caso di licenziamento disciplinare, la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell' art. 18, quarto comma, legge 300/1970 . È irrilevante il fatto qualora non sarebbe giustificata alcuna sanzione disciplinare. Il caso
Un lavoratore, dipendente con mansioni di autista di una società di trasporti, durante un turno mattutino aveva acceso con anticipo il motore di un autobus, che avrebbe dovuto prendere servizio circa mezz'ora dopo. Qualche minuto dopo il mezzo si incendiava, e solo con l'intervento dei vigili del fuoco si riusciva a spegnere l'incendio.
La società promuoveva quindi un procedimento disciplinare nei confronti del dipendente, contestandogli nella sostanza quattro addebiti:
In conseguenza di tali fatti la società, rigettate le giustificazioni del dipendente, gli intimava il recesso per giusta causa.
Il licenziamento veniva impugnato con ricorso al Tribunale di Torino, in funzione di giudice del lavoro. Il Tribunale accertava innanzi tutto che l'accensione anticipata dei mezzi costituiva una prassi aziendale, mantenuta per motivi tecnici. Inoltre accertava che generalmente la mattina in azienda chi procedeva all'accensione dei mezzi, dopo la messa in moto, si allontanava per svolgere altri compiti. Infine, risultava che in nessun modo la condotta del lavoratore aveva contribuito all'innesco dell'incendio, né al suo mancato contenimento nella fase successiva allo sviluppo delle fiamme.
Il giudice quindi considerava illegittimo il recesso per giusta causa del datore di lavoro e, ritenuto che i fatti contestati mancavano di rilievo disciplinare e che la carenza di rilievo disciplinare – come di recente affermato dalla Corte di Cassazione (si veda infra) – debba considerarsi insussistenza del fatto ai sensi dell' art. 18, co. 4, l. 300/1970 , ordinava la reintegrazione del dipendente in azienda e la condannava il datore di lavoro a risarcire il danno economico. Le soluzioni giuridiche
La pronuncia si colloca dentro una accesa querelle interpretativa nata all'indomani della storica modifica all' art. 18 dello statuto dei lavoratori , operata con la legge n. 92 del 2012 , e recepisce il principio giuridico affermato da una importante recente pronuncia della Cassazione (sent. n. 20540/2015), espressamente richiamata nella ordinanza in esame, con la quale la Suprema Corte ha operato una sorta di parziale revirement rispetto ad altra pronuncia (sent. n. 23669/2014) risalente a circa un anno prima.
Come è noto la legge 92/2012 (cd. Fornero), all'unica monolitica sanzione prevista dal testo previgente come conseguenza per qualsiasi ipotesi di illegittimità del recesso, ha opposto una articolazione di sanzioni di varia natura e forza. Il punto centrale della disputa che impegna dottrina e giurisprudenza risiede nella difficoltà di individuare la sanzione più corretta, tra quelle indicate dalla legge, da applicare al licenziamento illegittimo. Tale problema interpretativo ha riguardato svariati punti della novella (si pensi, per esempio, anche ai contrasti sorti attorno alla questione relativa alla sanzione da applicarsi al caso del licenziamento intimato tardivamente). Ma i contrasti più accesi e appassionati hanno riguardato l'esatta individuazione della nozione di «insussistenza del fatto», fattispecie che autorizza il giudice, in caso di accertata illegittimità del licenziamento, a disporre la tutela reintegratoria.
Su tale punto si sono subito formati due distinti orientamenti.
Da una parte si è collocato un orientamento di dottrina e giurisprudenza che ha manifestato l'intento esplicito di salvaguardare al massimo la lettera e lo spirito della riforma legislativa. Nella sostanza, si è affermato con tale primo orientamento – ovviamente con differenti sfumature – che l'accertamento giudiziale della legittimità del licenziamento e l'applicazione delle conseguenze di legge si compongono, per effetto della riforma, di due fasi ben distinte. Nella prima fase, il giudice accerta la legittimità della sanzione disciplinare sotto i profili formali (sussistenza di specifica contestazione, motivazione, etc.) e sostanziali (sussistenza giusta causa, giustificato motivo soggettivo, etc.), con le medesime modalità quindi che esistevano prima della riforma. Se viene accertata l'illegittimità del licenziamento, il giudice deve vagliare quale sanzione sia applicabile, tra quelle previste dal nuovo testo dell'art. 18, operazione che in precedenza invece si rivelava più semplice per la presenza di un'unica sanzione, che si applicava automaticamente alle aziende che possedevano il requisito dimensionale previsto dalla legge. Ma in tale seconda fase, affermano i fautori di questa prima visione interpretativa, non si può più mettere in discussione la proporzionalità della sanzione rispetto ai fatti contestati; il giudizio di proporzionalità ha definito la prima fase e si è concluso con essa. Nella seconda fase il giudice valuta solamente l'esistenza del mero fatto materiale, quale elemento di discrimine tra una maggiore ed una minore gravità della illegittimità del licenziamento, e quindi dell'applicazione della sanzione reintegratoria rispetto a quello indennitaria, o viceversa.
A tale orientamento – e ci si scusa se, per le limitate finalità di questo contributo, le complesse opinioni afferenti alle due opzioni interpretative vengono riassunte con una sinteticità che non dà conto della profondità delle argomentazioni a sostegno delle due (e forse più) tesi – si è opposto una differente visione interpretativa della novella dell' art. 18, st. lav ., preoccupata soprattutto della possibilità che una interpretazione restrittiva del concetto di «insussistenza del fatto» potesse dare adito ad abusi inconcepibili. Per tale differente opinione interpretativa, limitare alla sola sussistenza del fatto materiale il giudizio sulla sanzione applicabile al licenziamento illegittimo, sarebbe una operazione prima di tutto errata sotto il profilo logico giuridico, poiché il diritto disciplina e prende in considerazioni le condotte umane in quanto sono connotate, oltre alla materialità dell'azione, anche dallo stato soggettivo che le accompagna. In secondo luogo, la considerazione della sola materialità della condotta, ai fini della scelta della sanzione applicabile al caso del licenziamento illegittimo, potrebbe condurre a conseguenze ritenute inaccettabili; per esempio all'esclusione della tutela reintegratoria nel caso di annullamento di un licenziamento comminato per un ritardo di pochi minuti.
Questo secondo orientamento interpretativo, che ha esordito in giurisprudenza – per quel che consta – con una pronuncia del Tribunale di Bologna (sent. 15 ottobre 2012, n. 2631, est. Marchesini), ha avuto un largo seguito tra i giudici di merito, ma ha avuto uno autorevole stop dalla Cassazione , la quale con la sentenza n. 23669/2014 ha invece affermato che «la reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell'accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato».
Circa un anno dopo tale pronuncia la Cassazione ha corretto il tiro (sent. n. 20540/2015), affermando testualmente: «quanto alla tutela reintegratoria, non è plausibile che il Legislatore, parlando di "insussistenza del fatto contestato", abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione, restando estranea al caso presente la diversa questione della proporzione tra fatto sussistente e di illiceità modesta, rispetto alla sanzione espulsiva ( Cass. 6 novembre 2014 n. 23669 , che si riferisce ad un caso di insussistenza materiale del fatto contestato) . In altre parole la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e da perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell'art. 18, comma 4 cit.».
La chiusura della massima, enunciata dopo una prima parte della frase costruita su una complicata doppia negazione, afferma un principio giuridico che ha riscosso consensi tra gli interpreti, per la sua capacità di collocarsi in una posizione che sembra di ragionevole equilibrio tra le opposte tesi, ed è stata pienamente recepita dall'ordinanza del Tribunale di Torino in esame, che l'ha esplicitamente richiamata e riportata nel testo del provvedimento. Nell'ordinanza in annotazione si legge infatti l'affermazione secondo cui «in caso di licenziamento disciplinare, la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell' art. 18, quarto comma, legge 300/1970 ». Il Tribunale di Torino, nell'occasione, ha fatto un passo in più rispetto all'inquadramento concettuale operato dalla Cassazione, provando a definire il fatto privo di rilievo disciplinare, nei seguenti termini: «è irrilevante il fatto qualora non sarebbe giustificata alcuna sanzione disciplinare». Osservazioni
Sia consentito a margine dell'illustrazione del caso proposto far notare come risulti veramente difficile trovare una soluzione condivisa riguardo al problema interpretativo esaminato in questo contributo. Per oltre quarant'anni il diritto del lavoro è stato permeato da un sistema normativo fondato sul “posto di lavoro”, assistito da una “tutela reale”, azionabile nei confronti dell'uso illegittimo dei poteri espulsivi del datore di lavoro. Tale sistema non ha conosciuto arretramenti, anzi si è via via rafforzato nel tempo. Si pensi all'evoluzione del concetto di extrema ratio cui doveva (e deve?) essere informata l'adozione di un provvedimento di licenziamento; alla prova della impossibilità del repêchage – anche in mansioni inferiori – che si richiede all'imprenditore che voglia recedere dal rapporto di lavoro per motivi oggettivi; alla scarsità delle pronunce con le quali sia stato ridotto il risarcimento per licenziamento illegittimo anche in considerazione dell' aliunde percipiendum ; all'applicazione della sanzione della reintegrazione al caso di contestazione inadeguata o di sanzione applicata con un ritardo di qualche giorno rispetto ai tempi strettissimi previsti in alcuni contratti collettivi, nonostante il lavoratore si fosse macchiato di colpe gravissime.
Quando oggi si argomenta la necessità di una interpretazione dell'art. 18 che sia tesa a prevenire abusi, e si paventa il rischio di vedere risolto il rapporto di lavoro anche per inadempimenti di scarso rilievo, si dimostra che non si riesce ad abbandonare – e ciò è certamente comprensibile – quella visione del lavoro imperniato sul “posto di lavoro” che ha regnato incontrastata per così tanto tempo. L‘indennizzo economico, pur quello consistente voluto dalla riforma Fornero, si fa fatica a considerarlo una sanzione per un licenziamento illecito. Per cui si ritiene che un licenziamento illegittimo, sanzionato solamente con dodici o anche diciotto mensilità di retribuzione globale di fatto, abbia in buona sostanza lasciato il lavoratore privo di tutela legale.
Il peso di un tale retaggio ha probabilmente condizionato il dibattito interpretativo di questi ultimi tempi. Viceversa, nell'approccio ermeneutico alla materia sensibile di cui ci stiamo occupando, si sarebbe dovuto tenere presente che il legislatore, diminuendo le garanzie riguardo al mantenimento del posto di lavoro ed aumentando le tutele nel mercato del lavoro, attraverso la messa a regime di un sistema di ammortizzatori sociali universali, ed attraverso il potenziamento delle politiche attive contro la disoccupazione, ha mostrato di voler virare verso un sistema di flexicurity, per contrastare in qualche modo anche la debolezza delle aziende, soggette alla estrema competitività del mercato economico globale.
Tornando allo specifico della questione interpretativa in esame, deve ribadirsi come dopo un primo periodo di applicazione della novella dell'art. 18 caratterizzata dalla disputa sulla possibile rilevanza giuridica di un fatto meramente materiale, risolta in senso positivo dalla Cassazione nel 2014, nel 2015 la Suprema Corte, come sopra già ricordato, non contraddicendo in apparenza quanto affermato un anno prima con la sentenza n. 23669/2014, ha ricondotto nell'alveo dei fatti insussistenti, peraltro in un obiter dictum della motivazione, anche i fatti «non rilevanti sotto il profilo disciplinare». Sembra una soluzione di buon senso, alla luce delle argomentazioni che l'hanno giustificata, ed il Tribunale di Torino, come si è visto, con l'ordinanza in esame, l'ha pienamente recepita.
Tuttavia non può negarsi come la nozione di «fatto disciplinarmente rilevante», essendo legata, come ben evidenziato anche dal Tribunale di Torino, al concetto di inadempimento, riporta in campo la questione della irrilevanza giuridica del mero fatto materiale, essendo indubitabile che l'inadempimento è integrato da una condotta quantomeno colpevole.
Il Tribunale di Torino ha affermato che un fatto è privo di rilievo disciplinare quando per esso «non sarebbe legittima alcuna sanzione». E quindi, si presume, per ritenere il fatto sussistente sarebbe sufficiente che esso presenti un rilievo disciplinare minimo, per il quale sarebbe congrua anche una sanzione conservativa; in tal caso si determinerebbe l'esclusione della reintegrazione quale sanzione per il licenziamento illegittimo.
Se si dovesse ritenere invece che per affermare la sussistenza del fatto sia necessario accertare che esso abbia un rilievo disciplinare congruo con la sanzione del licenziamento, si finirebbe per svuotare completamente di contenuto la riforma del 2012, perché attraverso una tale concezione interpretativa si finirebbe per applicare sempre la reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo.
Insomma, dibattendosi nel dilemma tra la valorizzazione del dato normativo da un lato e l'esigenza di una interpretazione che riduca il rischio di utilizzo arbitrario del recesso datoriale dall'altro, non sembra si possa giungere ad una soluzione di equilibrio soddisfacente.
Sembra a chi scrive che ciò accade perché, come si è già evidenziato, la questione viene sovente malposta. L'esempio migliore di sanzione è ravvisabile in quegli ordinamenti (es. Germania) dove il Giudice che accerta l'illegittimità del recesso datoriale, ha poi a disposizione svariati strumenti di tutela del lavoratore, e può scegliere quello che ritiene più adatto al caso concreto, verificati diversi criteri di giudizio, tra i quali anche la possibilità di un proficuo reinserimento del lavoratore in azienda.
In Italia il legislatore, prendendo una strada opposta, ha scelto di ridurre la discrezionalità del giudice, ed ha regolamentato la materia facendo dell'indennizzo economico la conseguenza ordinaria del licenziamento illegittimo, mentre ha confinato la sanzione della reintegrazione al caso straordinario di un licenziamento fondato su un fatto inesistente, inventato o erroneamente ritenuto esistente dal datore di lavoro.
La resistenza ad accettare che l'indennizzo economico possa essere una congrua sanzione per il recesso illecito, probabilmente conduce al rovesciamento del rapporto tra conseguenza ordinaria e sanzione straordinaria per il licenziamento illegittimo, e spinge ad ipotizzare soluzioni interpretative in grado di attenuare, da un certo punto di vista, l'impatto della nuova normativa, ritenuta eccessiva sotto il profilo della riduzione delle tutele del lavoratore per licenziamento illegittimo.
Ma se non si colloca la norma nel quadro sistematico della flexicurity e non si accetta l'impostazione di fondo per cui nell'attuale assetto normativo, l'indennizzo economico costituisce la sanzione ordinaria del licenziamento illegittimo, la varietà e l'incongruenza delle soluzioni interpretative in materia sarà probabilmente destinata ad aumentare. Eventuali arbitri datoriali potranno essere sanzionati attraverso l'applicazione dell' art. 1344 cod. civ. (applicabile anche agli atti unilaterali ex art. 1324 cod. civ. ), anziché attraverso la ricerca di un significato antielusivo intrinseco alla norma stessa.
Sulle due opposte tesi riguardo alla consistenza del “fatto insussistente”:
- A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche all' art. 18, statuto dei lavoratori . RIDL, 2012, I, 438 ss.
- F. Carinci, Il nodo gordiano del licenziamento disciplinare, ADL, 2012, 6, 1103 ss.
Sullo stato dell'ermeneutica dopo la sentenza della Cassazione n. 20540/2015 :
- O. Mazzotta, Fatti e misfatti nell'interpretazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori , RIDL, 2016, II, 102 |