Il lavoro carcerario: da misura punitiva a rapporto speciale, il retaggio delle mercedi

Pasquale Staropoli
01 Agosto 2017

Il lavoro carcerario è un fenomeno complesso e non omogeneo, basti pensare che all'origine non soltanto non era considerato come una legittima pretesa per i detenuti ma, anzi, configurava un obbligo, elemento integrativo della pena, con finalità pressoché esclusivamente afflittive. È solo con l'avvento dei princìpi costituzionali ed una lenta evoluzione normativa, che l'approccio al lavoro dei detenuti muta direzione, divenendo un momento fondamentale delle finalità rieducative e reinclusive della misura detentiva, delle quali costituisce una delle attuazioni.
Inquadramento normativo

Le norme fondamentali si rinvengono nell'ordinamento penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354) che con gli interventi riformatori nel tempo succeduti, disciplina i princìpi delle diverse tipologie ed i requisiti fondamentali, unitamente al regolamento attuativo della Legge sull'ordinamento penitenziario (D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230).

Di fatto il lavoro carcerario ad oggi rappresenta una fattispecie ascrivibile comunque alla branca del diritto del lavoro. Ciò pur costituendo, quello dei detenuti, un rapporto di lavoro evidentemente speciale, innanzi tutto a causa delle particolari condizioni in cui versano proprio i lavoratori stessi.

L'evoluzione normativa e sociale del lavoro carcerario. L'assetto attuale

Le prime tracce normative di una previsione del lavoro carcerario risalgono al R.D. 18 giugno 1931, n. 787, che nel regolamentare gli istituti di prevenzione e di pena, concepiva il lavoro come parte integrante della pena, con una funzione prevalentemente punitiva, costituente un obbligo per i detenuti, quale strumento di ordine e di disciplina. Il rapporto di lavoro mancava perciò degli elementi tipici delle rispettive obbligazioni che lo connotano, risultando soprattutto funzionale alla garanzia della funzione punitiva della detenzione, cui si accompagnava.

È con l'entrata in vigore della Costituzione che il quadro muta. L'assetto di valori portato dalla Carta costituzionale, con la tutela del lavoro in tutte le sue forme (art. 35 Cost.), unito alla valorizzazione della finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost.), con il lavoro che rappresenta un momento prioritario del (re)inserimento sociale, rende incompatibile la visione di una condanna al lavoro. La prestazione lavorativa non può essere una punizione ed il rapporto di lavoro dei detenuti è invece strumento d'elezione per il loro reinserimento sociale e progresso. Il rapporto di lavoro carcerario muta dunque radicalmente la sua accezione: non più obbligo, bensì momento di promozione da agevolare, opportunità e non punizione, con la conseguente attrazione nel campo operativo del diritto del lavoro, non esclusivamente relegato all'ordinamento penitenziario. Si tratta pur sempre di un rapporto di lavoro speciale, se non altro per la qualità delle parti, per le finalità proprie che la sua applicazione persegue, per le norme speciali che regolano la determinazione della retribuzione. Può dirsi dunque, allo stato attuale, un rapporto di lavoro assimilato a quello ordinario, le cui differenze di disciplina nascono dal riconoscimento delle peculiarità appena descritte, tali che alcuni autori inquadrano il lavoro dei detenuti non già come diritto soggettivo ma piuttosto quale aspettativa.

L'assetto attuale è determinato dalle norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure preventive e limitative della libertà (in breve: ordinamento penitenziario, L. 26 luglio 1975, n. 354), che hanno nel D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 il regolamento attuativo, ed ha trovato importanti interventi innovativi ai fini dell'efficacia dell'attuazione dei princìpi prefissi, tra i quali la L. 10 ottobre 1986, n. 663, c.d. “Legge Gozzini”, e la Legge 22 giugno 2000, n. 193, c.d. “Legge Smuraglia”, che ha considerato come lavoratori svantaggiati anche i detenuti, estendendo i benefici contributivi riconosciuti alle cooperative sociali e gli sgravi fiscali per chi assume lavoratori detenuti per un periodo di tempo non inferiore a trenta giorni.

Il lavoro intramurario

Appartengo al lavoro all'interno delle strutture penitenziarie le cosiddette lavorazioni, che pur potendo svolgersi anche come lavoro esterno al carcere, tuttavia costituiscono la regola per le forniture di vestiario e corredo, nonché per le forniture di arredi e quant'altro necessario negli istituti (art. 47 D.P.R. n. 230/2000, co. 4). Tali produzioni non hanno alcuna ricaduta economica per gli istituti che le rendono, mentre il ricorso a imprese esterne è giustificato soltanto in caso di una significativa convenienza economica, per la valutazione della quale si deve tenere conto anche della funzione essenziale di attuazione del trattamento penitenziario alla quale devono assolvere le lavorazioni penitenziarie.

Sono altresì tipici del lavoro penitenziario intramurario i c.d. lavori domestici, destinati cioè a garantire le attività necessarie al funzionamento ed alla organizzazione della vita interna degli istituti. Appartengono a questo ambito le attività di cucina, lavanderia, magazzino, manutenzione elettrica, idraulica, lavori di falegnameria, riparazioni elettrodomestici, manutentori, giardinieri, imbianchini. Tipiche di queste particolari forme di lavoro intramurario sono le mansioni di scrivano, assistente alla persona, addetto alle pulizie e alla distribuzione dei pasti.

Questa fattispecie presenta il più marcato carattere di specialità, in considerazione della particolare natura della sua attuazione: la prestazione è resa all'interno della struttura penitenziaria, alle dirette dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, per finalità strettamente e direttamente connesse alle esigenze della struttura stessa.

Le lavorazioni possono essere organizzate e gestite anche da soggetti terzi, che stipulano apposite convenzioni anche per regolare i rapporti con la direzione della struttura penitenziaria. In questo caso il rapporto di lavoro dei detenuti è reso in favore di questi soggetti terzi e sono questi ultimi a gestirlo, in maniera non dissimile da quello libero, nell'ambito di quanto previsto dalle convenzioni.

Il lavoro esterno al carcere

La prestazione lavorativa resa all'esterno del carcere è, tra quelle possibili, quella che più è assimilabile al lavoro libero. L'autorizzazione al lavoro all'esterno del carcere deve provenire dall'autorità giudiziaria (art. 21, co. 2 L. n. 354/75), anche alla luce della verifica della idoneità della stessa a garantire l'attuazione effettiva delle finalità rieducative e di reinserimento sociale di cui all'art. 15 dell'Ordinamento Penitenziario (art. 21, co. 1 L. n. 354/75). La destinazione del detenuto a questa tipologia di lavoro (che può essere indifferentemente di natura subordinata o anche autonoma) avviene su proposta del direttore dell'istituto, con l'approvazione del magistrato di sorveglianza. Non è necessaria la scorta, a meno che sia ritenuta necessaria per motivi di sicurezza.

I condannati per reati associativi o altri di grave allarme sociale indicati nei commi 1, 1 ter e 1 quater dell'art. 4-bis dell'Ordinamento Penitenziario, secondo quanto previsto dal primo comma dell'art. 21 L. n. 354/75, possono essere assegnati al lavoro all'esterno solo dopo l'espiazione di almeno un terzo della pena e, comunque, di non oltre cinque anni. I condannati all'ergastolo possono essere ammessi dopo aver scontato almeno dieci anni di pena detentiva. Non possono essere invece assegnati al lavoro all'esterno del carcere i condannati per il delitto di associazione di stampo mafioso e per reati commessi per favorire le attività di stampo mafioso.

Il trattamento economico del detenuto lavoratore

Per i detenuti destinati al lavoro al di fuori del carcere ed alle dipendenze di terzi la determinazione della retribuzione segue le regole ordinarie così come per ogni altro lavoratore dipendente.

Per il lavoro intramurario invece, l'importo che viene riconosciuto ai sensi dell'art. 22 dell'Ordinamento Penitenziario, la cosiddetta mercede, è “equitativamente stabilita in relazione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato, alla organizzazione e al tipo del lavoro del detenuto in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro”.

Sin dal dato testuale appare immediatamente la differenza ontologica: il diritto si sostanzia non nella pretesa della retribuzione del lavoro prestato, ma in una sorta di ricompensa, che ha tra i suoi parametri determinativi la quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato, ma non in maniera esclusiva e diretta, così come avviene per la quantificazione della retribuzione. Per la determinazione delle mercedi dei lavoranti intramurari, il sinallagma fondamentale di cui all'art. 36 Cost. è interrotto dalla interposizione di due ulteriori elementi: la valutazione equitativa(e dunque non soltanto remunerativa) e la relazione con la organizzazione e il tipo del lavoro del detenuto.

In esito al contemperamento di questi diversi elementi, il trattamento economico riconosciuto al lavoratore detenuto per l'attività intramuraria può anche essere inferiore alla retribuzione normalmente riconosciuta ai lavoratori di pari inquadramento e livello, purché non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro.

La previsione ha suscitato diffuse perplessità sulla opportunità e legittimità di una norma che, posto il percorso normativo qui brevemente riassunto, che ha condotto il lavoro carcerario a divenire da corollario obbligatorio della pena a facoltà e momento essenziale di promozione del trattamento e requisito fondamentale della funzione di reinserimento della pena, opera una distinzione così marcata in relazione ad un elemento come la retribuzione, caratteristica fondamentale e qualificante del rapporto obbligazionario connesso al rapporto di lavoro.

Le critiche sono state diffuse e reiterate tanto da investire della questione, e più volte, la Corte costituzionale, sul presupposto della compatibilità della norma che determina le mercedi con i principi, noti, portati dall'art. 36 Cost. e della plausibilità della previsione della riduzione della retribuzione/mercede per i lavoratori detenuti.

La Corte costituzionale ha respinto la fondatezza dei prospettati vizi di incostituzionalità della norma, che sarebbe coerente con l'impianto costituzionale in virtù del contesto e delle specifiche finalità del lavoro carcerario. Come motivato in maniera piuttosto articolata con una delle pronunce più note (Corte cost., 30 novembre 1988, n. 1087), la Corte costituzionale, nel rigettare la domanda di incostituzionalità dell'art. 22 dell'Ordinamento Penitenziario ha giustificato la possibilità che la mercede possa essere inferiore alla retribuzione ordinaria innanzitutto con la natura del datore di lavoro, l'amministrazione penitenziaria, che non si prefigge utili o guadagni e con la natura della manodopera, di norma non qualificata, disomogenea, variabile, per effetto dei provvedimenti, estranei alla gestione del rapporto di lavoro, che possono imporre il trasferimento dei detenuti destinati alla prestazione di lavoro. Ne conseguirebbe, è il giudizio della Corte con la sentenza richiamata, una prestazione lavorativa meno produttiva di quella di una organizzazione “libera”, ed i prodotti che ne scaturiscono non sempre garantiscono qualità e rifiniture degli standard ordinari e perciò poco appetibili sul mercato e venduti sottocosto.

Si tratta di motivazioni evidentemente discutibili, che non possono però prescindere dal dato oggettivo: la conferma della legittimità costituzionale dell'art. 22 e la conferma della effettività del regime da questo stabilito.

Appare invece immediatamente condivisibile la parte della motivazione della sentenza n. 1087/88, quando ribadisce in ogni caso la necessità della immanenza, anche alla fattispecie in esame, dei princìpi di cui agli artt. 35 e 36 Cost., per effetto dei quali una remunerazione eccessivamente inferiore a quella ordinaria violerebbe entrambi i canoni svilendo fra l'altro la funzione rieducativa dell'attività lavorativa.

Pertanto, nel limite dei due terzi fissato dall'art. 22, la determinazione delle mercedi deve essere innanzi tutto equa ed il pregiudizio della quantità e qualità del lavoro prestato, della considerazione dei bisogni del lavoratore e della sua famiglia, non possono essere sacrificati automaticamente, ma giustificati soltanto in esito alla ponderazione di tutti gli elementi posti dalla norma, secondo i canoni interpretativi forniti più volte dalla Corte costituzionale.

La determinazione ai sensi dell'art. 22 L. n. 354/75 avviene in seno ad una commissione composta dal direttore generale degli istituti di prevenzione e di pena, che la presiede, dal direttore dell'ufficio del lavoro dei detenuti e degli internati della direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena, da un ispettore generale degli istituti di prevenzione e di pena, da un rappresentante del Ministero del tesoro, da un rappresentante del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale e da un delegato per ciascuna delle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale.

La stessa commissione stabilisce il numero massimo di ore di permesso di assenza dal lavoro retribuite e le condizioni e modalità di fruizione delle stesse da parte dei detenuti e degli internati addetti alle lavorazioni, interne o esterne, o ai servizi di istituto, i quali frequentino i corsi della scuola d'obbligo o delle scuole di istruzione secondaria di secondo grado, o i corsi di addestramento professionale, ove tali corsi si svolgano, negli istituti penitenziari, durante l'orario di lavoro ordinario.

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