Licenziamento del pubblico dipendente gay che si prostituisce in rete: un caso di discriminazione?
27 Ottobre 2016
Massima
Non può ritenersi connotato da intento discriminatorio il licenziamento per giusta causa del pubblico dipendente che offre prestazioni sessuali a pagamento su siti internet laddove risulti in modo inequivoco dalla ragione giustificativa addotta che il recesso dell'ente abbia sanzionato, non già l'orientamento sessuale e le scelte personali del dipendente, ma l'attività prostitutiva in sé. Quest'ultima (sia essa omo o etero sessuale), anche ove esercitata al di fuori dell'attività di lavoro, potrebbe infatti integrare un comportamento tale da influire sugli obblighi discendenti dal rapporto con un potenziale danno per la P.A. e dunque costituire presupposto in astratto idoneo a fondare un recesso per giusta causa dell'ente. Qualora però il lavoratore agisca in giudizio deducendo soltanto il motivo discriminatorio, l'eventuale carenza in concreto di giusta causa, rappresenta un ulteriore, e non già compreso, motivo di illegittimità del recesso, come tale non rilevabile d'ufficio. Il caso
C.B., in forza alla Provincia del Verbano Cusio Ossola, tradito da una lettera anonima, subisce licenziamento disciplinare con l'addebito di esercitare nel proprio tempo libero attività prostitutiva online. Il lavoratore, omosessuale, era in effetti risultato attivo su taluni siti dove offriva le proprie prestazioni con tanto di annuncio corredato da tariffario, rimborsi, supplementi etc. L'impiegato impugna il recesso avanti al Tribunale di Verbania deducendone la nullità: il licenziamento sarebbe stato - almeno a suo dire - sostenuto da un intento palesemente discriminatorio e fondato sull'orientamento sessuale. Il primo giudice respinge la domanda e così pure la Corte d'appello. Entrambe le pronunce sposano la tesi dell'amministrazione che passa quindi indenne il doppio grado: non vi sarebbe stata discriminazione, né diretta, né indiretta. L'impiegato è stato licenziato solo per aver esercitato attività di prostituzione, con ciò arrecando un potenziale nocumento all'immagine dell'ente. Il lavoratore non si dà per vinto e ricorre per la cassazione della sentenza. Il principale motivo della censura si incentra ancora sulla natura ritenuta palesemente discriminatoria del licenziamento. Il che si dovrebbe univocamente evincere dalla circostanza che, non solo i comportamenti censurati si sarebbero svolti in un contesto extralavorativo, ma anche dall'ulteriore fatto che C.B. nel presentare l'offerta di servizi escort, si sarebbe comunque sempre ben guardato dal menzionare la propria condizione di pubblico impiegato. Ciò che era invece accaduto nel passato, nel ben diverso ambito di alcuni social-network della comunità gay, estranei a qualsivoglia attività di commercio sessuale. In ogni caso, evidenzia ancora il ricorrente, il recesso, non solo obbedirebbe ad un'occulta logica discriminatoria, ma sarebbe altresì pacificamente privo di giusta causa o giustificato motivo e anche per ciò comunque invalido. Resiste la Provincia, con proprio controricorso. La questione
Il tema della discriminazione in ambito lavorativo, complice forse l'inesorabile declino di più tradizionali forme di tutela “forti” del prestatore, sta assumendo un primario rilievo nel dibattito giuslavoristico e nella prassi giudiziaria. Ciò peraltro in linea con una sensibilità sociale sempre più intollerante verso ogni forma discriminatoria, comunque e in qualunque sede inflitta. La complessa disciplina di tutela interna e sovranazionale, dall'art. 21 della Carta UE dei diritti fondamentali, all'art. 14 CEDU e all'art. 15 Stat. Lav. (art. 15, L. 30 maggio 1970, n. 300), solo per citare i capisaldi, affonda del resto le proprie radici in un sistema di riferimenti fondamentali e universalmente condivisi, quali il principio di uguaglianza e di valore della persona e delle sua libertà e dunque impone ad interpreti e operatori del diritto un approccio di grande oculatezza. Il caso di specie può forse definirsi un'ipotesi di confine, in cui l'esigenza di tutela della personalità del lavoratore si interseca con la non meno stringente necessità di preservare credibilità e prestigio della P.A., potenzialmente insidiati da comportamenti inappropriati (almeno secondo il sentire comune) dei propri funzionari. In relazione ad una vicenda siffatta e al livello dei valori in lizza, lo scrutinio ricostruttivo deve dunque essere quanto mai accorto ed approfondito, posto che – come talora avviene – sotto le mentite spoglie di ragioni “oggettive” dichiarate si può celare un intento di discriminazione vietata. L'ente ha dunque davvero voluto rimuovere il rischio di un potenziale pregiudizio o ha invece violato la legge, discriminando un lavoratore gay dalla vita privata “diversa” e non del tutto irreprensibile ? Ma soprattutto, in casi simili, fino a dove si può spingere l'interprete per non celebrare un “processo alle intenzioni”? Oltre al motivo, centrale, della discriminazione emerge dal caso in commento anche un ulteriore spunto problematico, rimasto tuttavia - pressoché irrisolto - sullo sfondo. Si tratta in questo caso dell'estensione del concetto di giusta causa e della sua riferibilità a condotte private del prestatore. Licenziare un dipendente che, pur con discrezione, si prostituisce nel proprio tempo libero è lecito? La stessa condotta del pubblico dipendente può gettare discredito sull'amministrazione, arrecandole un danno ingiusto? Le soluzioni giuridiche
I giudici di legittimità, pur avvalendosi di un approccio prudente, hanno nella sostanza convalidato la scelta datoriale e confermato la correttezza delle precedenti decisioni di merito, escludendo la ricorrenza del fumus del profilo discriminatorio. Anche se la vicenda offriva appigli di possibile suggestione - nella specie la dichiarata omosessualità di C.B. oltre a taluni altri aspetti di contorno - gli ermellini hanno escluso che questi bastassero a fondare il sospetto di un intento illecito. La chiave di questa operazione ermeneutica risiede essenzialmente nella tenuta della motivazione giustificativa del recesso. Sottoposta ad una sorta di prova di resistenza, la ragione addotta regge all'urto del dubbio. L'attività prostitutiva, diffusamente avvertita con un tendenziale disfavore dalla coscienza sociale, può in astratto ritenersi incompatibile con il decoro imposto dallo svolgimento di pubbliche funzioni e mette potenzialmente in questione il buon nome dell'amministrazione. Tanto basta e rende logicamente autosufficiente il provvedimento espulsivo, degradando le ulteriori questioni poste dal ricorrente a base della propria tesi a dati ininfluenti nel processo decisionale dell'ente. Ciò non solo e non tanto perché di essi non viene fatta menzione, ma soprattutto perché le stesse circostanze vengono assorbite nel percorso logico formalmente enunciato; quello, appunto, riscontrato immune da ogni logica discriminatoria e sotteso al licenziamento. Ed alla stregua del quale il problema non è che il funzionario sia gay, ma che si prostituisca, con ciò esponendo l'ente di appartenenza ad un rischio di discredito e di lesione della propria immagine. Risolto il dilemma principale, vi è però l'ulteriore questione già accennata della riconducibilità della condotta di C. M. all'area della giusta causa. Rispetto a questo tema, nonostante il tentativo del ricorrente di inserirlo nel “dibattito processuale”, la Cassazione si chiama, correttamente, fuori. Troppo tardi, rileva il Collegio: la censura andava avanzata prima e non in sede di legittimità e l'ufficio. Osservazioni
La colorita vicenda all'attenzione della Corte regolatrice potrebbe forse - a tutta prima - suscitare comprensibili reazioni di pruderie, disponendo taluni osservatori a censurare senza tanti distinguo il disinibito funzionario. Sennonché, come si evince dall'articolata e accorta motivazione della pronuncia, le problematiche implicate dal caso verbanese sono più complesse e delicate di quanto sembri, non giustificando soluzioni preconcette o anatemi sommari. La tensione tra l'esigenza di tutela dei diritti fondamentali del lavoratore e la concorrente necessità di non scivolare nella political correctness, convertendo suggestioni in certezze giuridiche, sembra però aver trovato nella decisione di nomofilachia un ragionevole contemperamento. Il recesso supera anche l'ultimo vaglio in virtù dell'impossibilità di «ancorare il licenziamento ad alcun riferimento, neppure remoto, di natura discriminatoria». E in effetti la censura disciplinare non solo lega il licenziamento all'attività prostitutiva, ma esclude la rilevanza dell'orientamento sessuale del dipendente. Qui si ferma la Cassazione, appagandosi del dato logico-testuale e rifuggendo da ulteriori indagini dietrologiche. La Corte pare tuttavia meno tranchant quando si misura, benché a distanza, con l'ulteriore problematica della giusta causa e del danno. Non ne può discorrere, ovvio, poiché il tema esce dal suo perimetro. Ma sembra percepirsi la tentazione di una qualche apertura; quasi che, adottato un piglio più prudente in punto discriminazione, i giudici vogliano lasciare aperto a soluzioni future e più innovative il tema del conflitto tra le insopprimibili esigenze della persona e altri interessi protetti che, come in questo caso, con esse possono entrare in apparente urto. Nel caso di specie, il conflitto può sussistere con il diritto all'immagine della P.A., cui è offerta copertura costituzionale ex artt. 2 e 97, comma 1, della Carta; è tuttavia escluso anche in questo caso (la Corte lo dice tra le righe), ogni automatismo risarcitorio. Si tornerà forse presto sulla questione, vuoi in sede di tutela antidiscriminatoria, vuoi in ambito di definizione del concetto di giusta causa. Al centro, in ogni caso, resta il processo verso una tutela sempre più intensa e specializzata della persona e delle sue peculiarità. |