L’omessa audizione dell’incolpato configura un vizio procedurale sanzionato dall’art. 18, comma 6, Legge n. 300/1970
28 Marzo 2017
Massima
L'omessa audizione dell'incolpato, violando la disposizione di cui all'art. 7, comma 2, Legge n. 300/1970, comporta non già la nullità del licenziamento, ma la sua inefficacia ed integra un vizio procedurale con conseguente applicazione dell'indennità risarcitoria attenuata di importo compreso tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto ai sensi dell'art. 18, comma 6, Legge n. 300/1970. Il caso
Un lavoratore è stato licenziato per giustificato motivo soggettivo consistente in plurime condotte di inosservanza dell'orario di lavoro, comportamento scorretto verso i superiori e inesatta esecuzione del servizio.
Impugnato giudizialmente il licenziamento, la Corte di Appello ha affermato la violazione, da parte del datore di lavoro, dell'art. 7, comma 2, Legge n. 300/1970 per non avere comunicato al dipendente la data dell'incontro dal medesimo richiesto per fornire le proprie giustificazioni con l'assistenza dell'organizzazione sindacale.
Ha così, in applicazione dell'art. 18, comma 6, Legge n. 300/1970, dichiarato inefficace il licenziamento e dichiarato risolto il rapporto alla data del licenziamento, senza provvedere alla pronuncia di condanna al pagamento dell'indennità risarcitoria, posto che la società datrice di lavoro era stata messa in liquidazione coatta amministrativa. Le questioni
La Suprema Corte affronta la questione relativa alla sanzione applicabile in caso di vizio del licenziamento consistente nella mancata audizione del lavoratore nel corso del procedimento disciplinare, in particolare se la stessa determini la nullità del licenziamento per violazione di norma imperativa, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria piena (art. 18, comma 1), ovvero se integri un mero vizio procedurale, con conseguente applicazione della tutela indennitaria attenuata (art. 18, sesto comma). Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte ha confermato la sentenza di appello, che aveva ritenuto che la violazione dell'obbligo del datore di lavoro di sentire preventivamente il lavoratore a discolpa, quale presupposto dell'eventuale provvedimento di recesso, integri una violazione della procedura di cui all'art. 7, Legge n. 300/1970 e rende operativa la tutela prevista dal successivo art. 18, comma 6, quale modificato dalla L. n. 92/2012.
In particolare, ha ritenuto che la norma che impone al datore di lavoro di sentire il dipendente incolpato a propria discolpa (art. 7, comma 2, Legge n. 300/1970) abbia natura procedurale, rappresentando tale obbligo, quale presupposto per l'applicazione della sanzione disciplinare, un momento essenziale della sequenza procedimentale delineata dall'art. 7 citato.
Conseguenza di tale inquadramento è la configurazione della fattispecie sanzionatoria di cui all'art. 18, comma 6, Legge n. 300/1970, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi sia anche un difetto di giustificazione del licenziamento: infatti, tale norma trova applicazione in presenza di violazioni della procedura di cui all'art. 7 citato.
Sottolinea la Suprema corte che l'opposta tesi, secondo cui la violazione dell'obbligo di sentire il lavoratore a discolpa determinerebbe la nullità del licenziamento per violazione di una norma imperativa, avrebbe l'effetto di amputare la disciplina di cui all'art. 18, comma 6, e sarebbe contraria ad una chiara opzione prescelta dal legislatore entro un disegno complessivo di ricomposizione e diversificazione delle tutele. Osservazioni
La questione oggetto della sentenza in commento riguarda l'individuazione dei vizi formali che, ai sensi dell'art. 18, comma 6, Legge n. 300/1970, portano all'applicazione della c.d. tutela indennitaria attenuata (indennità risarcitoria da sei a dodici mensilità).
In materia di violazioni procedurali, la giurisprudenza ha affermato che la violazione del termine per l'adozione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare, stabilito dalla contrattazione collettiva, è idonea a integrare una violazione della procedura di cui all'art. 7, Legge n. 300/1970, tale da rendere operativa la tutela prevista dall'art. 18, comma 6, dello stesso Statuto, come modificato dalla L. n. 92/2012 (Cass. sez. lav., 16 agosto 2016, n. 17113, in il Giuslavorista, 17 ottobre 2016, nota di Di Paola).
Diversa è l'ipotesi dell'abnorme ritardo nella contestazione del fatto, da parte del datore di lavoro, perché in questo caso la fattispecie è stata ritenuta estranea al sistema ex art. 7 St. Lav. In particolare, la Corte di Cassazione ha affermato che la violazione del principio di immediatezza della contestazione (nella fattispecie avvenuta 15 mesi dopo la cessazione della condotta inadempiente), comportando la violazione del principio di trasparenza e una lesione del diritto di difesa del lavoratore, è estranea al sistema di cui all'art. 7, L. n. 300/70 e determina l'insussistenza del fatto contestato, con conseguente applicazione del regime sanzionatorio di cui all'art. 18, comma 4 (Cass. sez. lav., 31 gennaio 2017, n. 2513).
Si legge nella sentenza che "un fatto non tempestivamente contestato ex art. 7, L. n. 300/1970 non può che essere considerato come "insussistente" non possedendo l'idoneità ad essere verificato in giudizio. Si tratta in realtà di una violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro a carattere radicale che, coinvolgendo i diritti di difesa del lavoratore, impedisce in radice che il Giudice accerti la sussistenza o meno del "fatto", e quindi di valutarne la commissione effettiva, anche a fini delle scelta tra i vari regimi sanzionatori. Non essendo stato contestato idoneamente ex art. 7 il "fatto" è " tamquam non esset" e quindi "insussistente" ai sensi a dell'art. 18 novellato. Sul piano letterale la norma parla di insussistenza del "fatto contestato" (quindi contestato regolarmente) e quindi, a maggior ragione, non può che riguardare anche l'ipotesi in cui il fatto sia stato contestato abnormente e cioè in aperta violazione dell'art. 7".
In senso analogo, in caso di mancanza della contestazione disciplinare la Cassazione ha ricondotto il vizio non a profili di carattere formale, ma di carattere sostanziale: il licenziamento intimato in assenza di previa formulazione degli addebiti ex art. 7, St. Lav. configura l'ipotesi prevista dall'art. 18, comma 4, ravvisabile non solo quando la condotta integrante infrazione non sussista, ma anche ove quest'ultima non sia stata preventivamente contestata, avuto proprio riguardo alla locuzione – contenuta nella norma – “insussistenza del fatto contestato” (Cass. sez. lav., 14 dicembre 2016, n. 25745).
Interpretazione analoga è stata affermata in dottrina da qualche autore, che ha ritenuto che il requisito della tempestività non ha valenza formale, né tanto meno procedurale, inerendo allo stesso esercizio del potere disciplinare. Pertanto la violazione della regola della tempestività della esternazione delle ragioni del licenziamento andrebbe ricondotta proprio alla categoria dei vizi integranti ingiustificatezza (cfr. Luigi Di Paola in Giustizia Civile.com del 23.5.2014)
Quest'ultima posizione interpretativa sembra però meno coerente sia con il dato normativo di cui all'art. 18 (che prevede la diversificazione delle tutele), sia con il dato fattuale, dal momento che non considera le diverse gradazioni che può esprimere la tardività di una contestazione disciplinare. Conseguenza di tale tesi parrebbe essere quella di mettere sullo stesso piano una contestazione “appena” tardiva (come nel caso esaminato dalla sentenza Cass. sez. lav., n. 17113/2016), con l'ipotesi di un ritardo abnorme della contestazione disciplinare (come nel caso esaminato dalla sentenza Cass. sez. lav., n. 2513/2017). Le due sentenze da ultimo citate hanno invece distinto quando la contestazione tardiva si configura quale vizio procedurale, e quando invece rileva come vizio sostanziale.
Il punto di discrimine risulta essere dato dal rispetto del diritto di difesa del lavoratore; sicchè laddove una contestazione tardiva consente comunque al lavoratore di esercitare il suo diritto di difesa, la violazione della tempestività non può che risolversi in una violazione procedurale ex art. 7, L. n. 300/1970. Quando invece la tardività della contestazione non consente al lavoratore di esprimere le proprie difese, il vizio rileva sotto il profilo sostanziale.
Il novellato art. 18, comma 6, L. n. 300/7190, prevede che, anche in caso di vizi di forma attinenti alla motivazione del licenziamento, debba trovare applicazione la tutela risarcitoria compresa tra le sei e le 12 mensilità. Tale tutela trova quindi applicazione nell'ipotesi in cui la contestazione disciplinare, finalizzata al licenziamento, non contenga una sufficiente e specifica descrizione della condotta tenuta dal lavoratore.
Con sentenza 10 agosto 2016, n. 16896, la Cassazione ha affermato che è applicabile l'art. 18, comma 6, St. Lav. (nella formulazione "ratione temporis" vigente, risultante dalla L. n. 92/2012), con riferimento alle ipotesi di vizi di forma attinenti alla motivazione del recesso, come ora disciplinata dall'art. 2, comma 2, L. n. 604/1966, con conseguente dichiarazione giudiziale di risoluzione del rapporto di lavoro e condanna del datore al pagamento di un'indennità risarcitoria compresa tra sei e dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Come evidenziato dai giudici di legittimità, si ha violazione del requisito della motivazione non solo quando la stessa sia assente ma anche nelle ipotesi in cui sia generica, imprecisa, insufficiente sì da non consentire al lavoratore di poter apprezzare l'infrazione disciplinare che viene contestata. Tutto ciò ovviamente presuppone l'esistenza materiale del fatto contestato; la reintegrazione infatti trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell'accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto materiale (cfr. Cass. citata e Cass. sez. lav., n. 23669/2014)
La sentenza in commento, seppure riguardante una fattispecie diversa, sembra andare in senso contrario alla citata pronuncia n. 25745/2016 nella parte in cui inserisce la violazione dell'obbligo di sentire preventivamente il lavoratore a discolpa tra le violazioni meramente procedurali, pur incidendo tale violazione sul diritto di difesa del lavoratore. Osserva, infatti, la Suprema Corte che una diversa conclusione avrebbe l'effetto, contrario alla chiara opzione prescelta dal legislatore entro il disegno complessivo di una ricomposizione e diversificazione delle tutele, di amputare la disciplina di cui all'art. 18, comma 6, di larga parte dell'area di applicabilità cui la stessa si riferisce, posto che le ragioni a sostegno di essa potrebbero convalidarne l'estensione ad ogni altra disposizione compresa nell'art. 7. |