Il licenziamento di lavoratori dipendenti da organismi di tendenza

Massimo T. Goffredo
Vincenzo Meleca
Vincenzo Meleca
28 Luglio 2015

Il Decreto 4 marzo 2015, n. 23 ha apportato un'importante modifica alla precedente normativa in materia di licenziamenti di lavoratori dipendenti da organizzazioni di tendenza: dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del provvedimento, si applicano infatti anche alle organizzazioni di tendenza le norme generali in materia di licenziamento. Gli Autori per meglio comprendere la questione esaminano la normativa di riferimento, nonché gli orientamenti giurisprudenziali.
Introduzione

In caso di licenziamento illegittimo, i lavoratori dipendenti da tali datori di lavoro ed assunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti oppure se in forza con contratto a tempo determinato, con trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, potranno essere soggetti, in funzione del tipo di illegittimità accertata, non solo alle nuove tutele economiche, ma anche, nei casi più gravi di licenziamento disciplinare, per insussistenza del fatto materiale contestato, persino alla reintegrazione (detta reintegrazione era comunque già disposta dai giudici del lavoro nel caso di licenziamenti discriminatori. Cass. 25 luglio 2008 n. 20500).

Vengono così superati in un solo colpo, almeno in relazione ai nuovi assunti, tre ordini di problematiche che erano sorte e cioè:

- l'esatta identificazione di cosa si intendesse per “organizzazione di tendenza”;

- la sostanziale discriminazione dei lavoratori dipendenti da tali organizzazioni rispetto a quelli dipendenti dagli altri datori di lavoro;

- il differente tipo di trattamento tra gli stessi dipendenti dalle organizzazioni di tendenza.

Per meglio comprendere la questione è opportuno esaminare la normativa di riferimento, nonché gli orientamenti giurisprudenziali.

La cornice normativa

È con il primo comma dell'art. 4 della Legge 108/1990 che il legislatore ritenne opportuno escludere espressamente dall'applicabilità della tutela reale prevista dall'art. 18 della Legge 300/1970 per i licenziamenti illegittimi i datori di lavoro “non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto”.

Nulla infatti aveva specificamente previsto lo Statuto dei lavoratori, che si era, per così dire, limitato ad escludere dall'applicabilità della tutela reale i datori di lavoro imprenditori con un numero di dipendenti non superiore a quindici o sessanta (cinque per le imprese agricole) legge 300/1970.

A questo punto, non si può non citare il codice civile laddove, all'art. 2082, definisce l'imprenditore come colui che “esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”. Con il secondo comma dell'art. 9 del D.Lgs. 23/2015, infine, la disciplina dei licenziamenti di lavoratori dipendenti da organizzazioni di tendenza, come detto, cambia radicalmente, nel senso che anche per tali organizzazioni, quanto meno relativamente ai lavoratori dipendenti assunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, si applicheranno le identiche norme previste per tutti gli altri datori di lavoro in caso di licenziamento illegittimo (D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23).

Gli orientamenti giurisprudenziali

La definizione di “organizzazione di tendenza”

Mutuando le indicazioni legislative, per organizzazioni di tendenza si intendono quelle organizzazioni che esercitano attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto senza il fine di trarne alcun vantaggio economico, ciò che costituisce pertanto la scriminante rispetto all'imprenditore.

Ai fini giuslavoristici, la giurisprudenza ha altresì precisato che per poter essere escluse dall'applicabilità dell'art. 18, tali organizzazioni dovevano:

- svolgere una delle tipologie di attività tassativamente elencate dalla legge (attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto);

- svolgere tali attività senza scopo di lucro;

- non avere un'organizzazione imprenditoriale (Cass. 16 gennaio 2014 n. 797, in D&G 2014, 17 gennaio).

Premesso doverosamente che gli orientamenti giurisprudenziali che citeremo non possono che essere riferiti alla disciplina legislativa oramai superata, è comunque importante rammentare che il problema dell'esclusione dall'applicabilità della tutela reale prevista dall'art. 18 della Legge 300/1970 per i licenziamenti illegittimi si pose sin dall'entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori e fu risolto dalla giurisprudenza dapprima escludendo le organizzazioni di tendenza dall'applicabilità della tutela reale in quanto datori di lavoro non imprenditori: “Gli enti ecclesiastici che svolgono attività di educazione e di istruzione della gioventù hanno natura di "organizzazioni di tendenza" (al pari dei partiti e dei sindacati) e come tali sono estranei ex art. 35 l. 20 maggio 1970 n. 300 al campo di applicazione dello Statuto dei lavoratori (Pretura Napoli 1 febbraio 1980) e successivamente limitando l'esclusione soltanto alle organizzazioni di tendenza senza fine di lucro: “Fra le imprese industriali e commerciali, alle quali, ai sensi dell'art. 35 della l. 20 maggio 1970 n. 300, trova applicazione la disciplina dell'art. 18 della medesima legge in tema di tutela reale del posto di lavoro, sono da ricomprendersi, in quanto produttrici di un servizio, quelle aventi per scopo la gestione di istituti scolastici, senza che rilevino in contrario nè la qualità di congregazione religiosa, propria del gestore - allorché il detto servizio venga svolto per fini di lucro e non di religione e di culto, con conseguente inapplicabilità della disciplina della l. 11 maggio 1990 n. 108 per le così dette organizzazioni di tendenza, esclude dall'ambito di operatività della tutela reale e soggette soltanto alla l. 15 luglio 1966 n. 604 -, nè la fruizione di contributi pubblici da parte dello stesso genere.” Fondamentale è stata l'affermazione che un datore di lavoro “può essere considerato imprenditore quando, oltre agli altri requisiti di cui all'art. 2082 c.c., agisca con metodo "economico", ovvero con il perseguire il tendenziale pareggio tra costi e ricavi, non inerendo alla qualifica di imprenditore l'esercizio di attività allo scopo di produrre ricavi eccedenti i costi.“ (Cass. sez. un. 11 novembre 1994 n. 3353).

L'orientamento più recente tende a fissare in modo alquanto severo i requisiti affinchè un datore di lavoro possa essere davvero considerato “di tendenza”, richiedendo che, oltre allo svolgimento di una delle tipologie di attività tassativamente elencate dalla legge (attività di natura politica, sindacale, culturale - Corte Appello Potenza 28 maggio 2008 -, di istruzione ovvero di religione o di culto), debbano sussistere contemporaneamente anche la mancanza di scopo di lucro (Cass. 20 novembre 2007, n. 24043) e la mancanza di un'organizzazione imprenditoriale (identificabile, quest'ultima, laddove l'attività dell'organizzazione sia strutturata a guisa di impresa, secondo criteri di economicità): ”In tema di licenziamento illegittimo, ai fini dell'applicabilità della disciplina prevista per le cosiddette organizzazioni di tendenza dall'art. 4 della legge 5 novembre 1990 n. 108, che esclude l'operatività della tutela reale stabilita dall'art. 18 dello statuto dei lavoratori, non è sufficiente la riconducibilità del datore di lavoro ad una delle tipologie di organizzazione di tendenza indicate dalla norma, essendo necessario un accertamento in concreto della mancanza di scopo di lucro e della mancanza di un'organizzazione imprenditoriale, identificabile, quest'ultima, laddove l'attività dell'organizzazione sia strutturata a guisa di impresa, secondo criteri di economicità come ad esempio la sussistenza di un'ampia organizzazione diretta alla commercializzazione di generi di largo consumo, realizzata con l'apporto di strutture manageriali e di dipendenti valutati secondo procedure improntate alla produttività” (Cass. 4 marzo 2014 n. 4983).

I lavoratori dipendenti da organizzazioni di tendenza esclusi dalle tutele reali

Affrontato e risolto il problema dell'identificazione delle organizzazioni di tendenza, ne nacque un altro, quello di identificare i loro dipendenti esclusi dalla possibilità di essere reintegrati in caso di illegittimità del loro licenziamento. In effetti venne rilevato che il rapporto di lavoro di una parte dei dipendenti di dette organizzazioni poteva essere determinato soprattutto in ragione della loro adesione alla linea politica, sindacale o religiosa dell'organizzazione stessa, con la probabile conseguenza che, in caso di mutamento dell'ideologia o della fede, sia da parte del lavoratore sia da parte del datore, si sarebbe potuta determinare una condizione di incompatibilità tale da impedire la prosecuzione del rapporto.

Così, la Magistratura del lavoro, iniziò ad approfondire la questione, tendendo a riconoscere l'applicabilità della tutela reale non a tutti i lavoratori dipendenti da organizzazioni di tendenza, come sostenuto dall'orientamento giurisprudenziale dominante fino ad allora (“l'applicazione, nei confronti degli istituti privati di istruzione, della disciplina prevista per le cosiddette organizzazioni di tendenza dall'art. 4 l. 11 maggio 1990 n. 108 - con conseguente esclusione, nei loro confronti, della tutela reale di cui all'art. 18 l. 20 maggio 1970 n. 300, come modificato dall'art. 1 citata l. n. 108 del 1990 -, presuppone l'accertamento in concreto, da parte del giudice, dell'assenza, nel singolo istituto, di una struttura imprenditoriale e della presenza dei requisiti tipici dell'organizzazione di tendenza, definita come datore di lavoro non imprenditore che svolge, senza fine di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di religione e di culto, senza possibilità di distinguere tra dipendenti che svolgono mansioni "neutre" e quelli che invece espletano mansioni connesse all'ideologia dell'organizzazione di tendenza) Cass. 16 settembre 1998 n. 9237, ma soltanto a quelli che, per il tipo di attività svolta, potevano essere considerati ideologicamente collegati alle finalità perseguite dall'organizzazione stessa.

Ciò portò, in buona sostanza, a ritenere ammissibile, in caso di licenziamento illegittimo degli altri lavoratori, la loro reintegrazione: “Non compete, salvo il caso in cui il licenziamento si riferisca ad un lavoratore occupato in mansioni assolutamente neutre rispetto agli scopi qualificanti dell'organizzazione di tendenza, la tutela reale del posto ma quella obbligatoria al dipendente licenziato illegittimamente da un'organizzazione che svolga, sia pure in forme e modalità imprenditoriali, attività che, in quanto diretta a fornire un servizio rivolto unicamente agli iscritti, si traduca in una forma di assistenza o comunque di sostegno professionale della categoria rappresentata, con esclusione di ogni attività, anche analoga, a favore di terzi clienti” (Cass. 6 novembre 2001, n. 15721).

Gli effetti della nuova disciplina

Con l'entrata in vigore della nuova disciplina si supera la sostanziale discriminazione tra lavoratori dipendenti da organizzazioni di tendenza e lavoratori dipendenti da tutti gli altri datori di lavoro, ma solo, come detto, per quelli assunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e per quelli che, già in forza al 7 marzo 2015 con contratto a tempo determinato, si sono visti proporre, accettando, la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Anche per i lavoratori a tempo indeterminato delle organizzazioni di tendenza, dunque, come per tutti gli altri, si ripropone il doppio binario normativo: per quelli in forza prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015 valgono ancora le vecchie norme, mentre le nuove saranno applicabili soltanto a quelli assunti (o trasformati a tempo indeterminato) a decorrere dal 7 marzo 2015. Vi è però un'importante eccezione: l'art. 1, comma 3 del D.Lgs. 23/2015 estende la nuova disciplina dei licenziamenti anche ai lavoratori già in forza al 7 marzo 2015 nel caso in cui il loro datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente a tale data, abbia superato il limite dei 15/60 dipendenti previsto dall'art. 18, commi 8 e 9, della Legge 300/1970, n. 300.

Quali sono dunque per questi ultimi gli effetti della nuova disciplina legislativa per i casi di accertata illegittimità del licenziamento?

In estrema sintesi, la reintegrazione si ha soltanto in due ipotesi e cioè (in entrambi i casi in cui è prevista la reintegrazione, resta confermata la facoltà del lavoratore di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. Tale richiesta, che deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione determina la risoluzione del rapporto di lavoro. L'indennità non è assoggettata a contribuzione previdenziale e si aggiunge al risarcimento del danno determinato dal giudice ed all'indennità sostitutiva del preavviso, ove spettante):

- per il licenziamento ritenuto discriminatorio, nullo, verbale o dovuto a disabilità fisica o psichica del lavoratore, qualsiasi sia stata la sua motivazione formalmente addotta dal datore di lavoro, scattano reintegrazione, risarcimento del danno (in questo, come i tutti gli altri casi, il risarcimento del danno, per i lavoratori in forza con contratto a tempo indeterminato ed a tutele crescenti illecitamente licenziati, sarà calcolato in base all'ultima retribuzione di riferimento per il TFR (per gli altri lavoratori il calcolo continuerà ad essere fatto in base alla retribuzione globale di fatto) o dalla data del licenziamento a quella dell'effettiva reintegrazione e pagamento dei contributi (D.Lgs. 23/2015 art. 2);

- se il fatto materiale contestato al lavoratore ed alla base del licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa (c.d. “licenziamento disciplinare”) è inesistente vi saranno reintegrazione, risarcimento del danno fino ad un massimo di 12 mensilità e pagamento dei contributi dalla data del licenziamento a quella dell'effettiva reintegrazione e pagamento dei contributi (D.Lgs. 23/2015 art. 3, co. 2);

In tutti gli altri casi, ferma restando l'estinzione del rapporto di lavoro dalla data del licenziamento, è previsto il solo risarcimento del danno, ma in misura diversificata sia in funzione del tipo di illegittimità, sia in funzione del numero di occupati dal datore di lavoro di tendenza (tra parentesi le conseguenze per quelli fino a 15/60 dipendenti):

- qualora non ricorrano gli estremi del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo e soggettivo o per giusta causa, vi sarà un risarcimento, non assoggettato a contribuzione previdenziale, tra un minimo di quattro ed un massimo di ventiquattro mensilità (D.Lgs. 23/2015 art. 3, co. 1. Per i datori di lavoro a 15/60 dipendenti risarcimento tra due e sei mensilità, D.Lgs. 23/2015, art. 9 comma 1);

- se vi è stata violazione dei requisiti di motivazione o delle procedure disciplinari, il risarcimento, non assoggettato a contribuzione previdenziale, sarà compreso tra un minimo di due ed un massimo di dodici mensilità (D.Lgs. 23/2015 art. 4. Per i datori di lavoro a 15/60 dipendenti risarcimento tra una e sei mensilità, D.Lgs. 23/2015, art. 9 comma 1).

- se, infine, è stata rilevata violazione delle procedure o dei criteri di scelta previsti per i licenziamenti collettivi, il risarcimento, non assoggettato a contribuzione previdenziale, sarà compreso tra un minimo di quattro ed un massimo di ventiquattro mensilità (D.Lgs. 23/2015 art. 10)

In conclusione

Riteniamo che la nuova disciplina dei licenziamenti costituisca senz'altro un passo avanti nella razionalizzazione delle sanzioni conseguenti l'illegittimità del licenziamento. Non possiamo però non rilevare che, anche per le organizzazioni di tendenza, la disparità di trattamento tra lavoratori in forza con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e tutti gli altri potrà rappresentare motivi di attrito non solo tra lavoratori e lavoratori, ma anche tra lavoratori e datori di lavoro, con possibile incremento della conflittualità sindacale e giudiziaria.

Sotto il profilo squisitamente della legittimità giuridica, non convincono completamente alcune norme, come ad esempio quella che estende la nuova disciplina anche ai lavoratori per i quali il rapporto di lavoro è stato trasformato da tempo determinato a tempo indeterminato: la legge delega prevedeva infatti che i provvedimenti governativi in materia di licenziamenti illegittimi fossero limitati ai soli nuovi assunti (art. 1, comma 7, lettera c) della Legge 183/2014). Inoltre, suscita dubbi di costituzionalità l'impossibilità per il giudice di valutare la proporzionalità tra la gravità dell'infrazione disciplinare contestata e la sanzione del licenziamento disciplinare. L'applicazione letterale dell'art. 3, comma 1, potrebbe portare a casi in cui una infrazione di lieve o lievissima entità (per esempio, un ritardo all'inizio dell'orario di lavoro) verrebbe sanzionata con un licenziamento. Ciò potrebbe portare ad interventi della Corte Costituzionale o addirittura dell'Alta Corte di Giustizia Europea.