I criteri per l’individuazione della fattispecie di mobbing da demansionamento
28 Luglio 2015
Massime
La fattispecie del mobbing è integrata in presenza di sette parametri tassativi, che sono: l'ambiente, la durata, la frequenza, il tipo di azioni ostili, il dislivello tra gli antagonisti, l'andamento secondo fasi successive, l'intento persecutorio.
Il demansionamento non costituisce elemento autonomo su cui si fonda la ritenuta sussistenza del mobbing, ma si iscrive nel più ampio contesto della vicenda fattuale che caratterizza il complessivo comportamento vessatorio a danno della vittima ed in tale prospettiva anche la sottrazione di mansioni, conseguita alla diversa assegnazione di posizione lavorativa, denota una dequalificazione professionale rispetto a quella acquisita, che integra la fattispecie di mobbing.
La circostanza che la condotta di mobbing provenga da altro dipendente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro su cui incombono gli obblighi di cui all'art. 2049 c.c., ove questo sia rimasto colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo. Il caso
Una dipendente, responsabile dell'ufficio Anagrafe del Comune di C., rifiutò, durante una tornata elettorale, di adempiere alle direttive dell'amministrazione comunale in quanto ritenute non corrette. La sua interpretazione fu avallata dalla prefettura competente, che nominò d'urgenza un commissario ad acta per la revisione delle liste elettorali. Il Segretario comunale avviò un procedimento disciplinare nei confronti della dipendente, assegnandola, contestualmente, ad un altro ufficio. La dipendente, che a seguito dello spostamento d'ufficio perse l'incarico apicale in precedenza ricoperto, ritenendo di essere vittima di una condotta mobbizzante, agiva in giudizio contro il Comune di C. e contro il segretario comunale in via extracontrattuale per ottenerne la condanna in solido al risarcimento del danno alla salute e professionale. Dopo l'esito favorevole del primo grado, la dipendente risultava vittoriosa anche nel giudizio di appello, nell'ambito del quale la Corte di merito rilevava che le risultanze istruttorie avevano confermato “la sottrazione delle mansioni, la conseguente emarginazione, lo spostamento senza plausibili ragioni da un ufficio all'altro, l'umiliazione di essere subordinati a quello che prima era un proprio sottoposto, l'assegnazione ad un ufficio aperto al pubblico senza possibilità di poter lavorare, così rendendo ancor più cocente la propria umiliazione"; e richiamava la perizia, allegata agli atti, eseguita in sede penale da uno dei massimi esperti di mobbing, che aveva riscontrato la presenza contestuale di tutti e sette i parametri tassativi di riconoscimento del mobbing. Infine, la Corte del merito condannava in solido al risarcimento del danno anche il Comune ai sensi dell'art. 2049 c.c. Sia il Comune che il Segretario Comunale presentavano ricorso per Cassazione. Le questioni
Le questioni affrontate dalla S.C. nella sentenza in commento sono le seguenti:
Le soluzioni giuridiche
La Corte di Cassazione ha avallato la decisione della Corte di merito circa la sussistenza nel caso di specie di una condotta integrante la fattispecie di mobbing sia facendo proprie le conclusioni cui è pervenuto il CTU nominato nel connesso procedimento penale, uno dei massimi esperti in materia, il quale, dall'esame della storia lavorativa della dipendente ricorrente, ha riscontrato la presenza contestuale di tutti e sette i parametri tassativi di riconoscimento del mobbing che sono “l'ambiente; la durata, la frequenza, il tipo di azioni ostili, il dislivello tra gli antagonisti, l'andamento secondo fasi successive, l'intento persecutorio", sia valorizzando le dichiarazioni testimoniali acquisite nel corso del giudizio che hanno confermato "la sottrazione delle mansioni, la conseguente emarginazione, lo spostamento senza plausibili ragioni da un ufficio all'altro, l'umiliazione di essere subordinati a quello che prima era un proprio sottoposto, l'assegnazione ad un ufficio aperto al pubblico senza possibilità di poter lavorare, così rendendo ancor più cocente la propria umiliazione". Sulla censura mossa dai ricorrenti concernente la erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ravvisa un mobbing da demansionamento in relazione ad una revoca di incarico dirigenziale, la S.C. osserva, in linea con la valutazione della Corte di merito, che il demansionamento può anche non essere considerato quale elemento autonomo su cui vada fondata la sussistenza del mobbing, ma quale elemento fattuale che si iscrive nel più ampio contesto della condotta vessatoria a danno della vittima; ed in tale prospettiva, la verificata sottrazione di mansioni superiori (incarico dirigenziale) anche se seguita dall'assegnazione della dipendente a mansioni corrispondenti alla qualifica rivestita, denota una dequalificazione professionale rispetto a quella acquisita (v. per tutte da ultimo Cass. 4 marzo 2014 n. 4989), che integra la fattispecie di mobbing. Ed infine, quanto alla corresponsabilità dell'Organo politico, la Suprema Corte, accreditando la correttezza della decisione e della motivazione della Corte di merito nella sentenza impugnata, enuncia il principio secondo cui la circostanza che la condotta di mobbing provenga da altro dipendente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro su cui incombono gli obblighi di cui all'art. 2049 c.c., ove questo sia rimasto colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo: nella specie, la durata e le modalità con cui è stata posta in essere la condotta mobbizzante, quale risulta anche dalle prove testimoniali, sono tali da far ritenere la sua conoscenza anche da parte del datore di lavoro, nonché organo politico, che l'ha comunque tollerata. Osservazioni
La sentenza si segnala per due motivi. Innanzitutto avalla la prassi invalsa nei Tribunali italiani nell'ultimo decennio di accertare la sussistenza del mobbing in presenza di tutti e sette i parametri individuati da EGE, il più affermato studioso del fenomeno, nel suo scritto del 2002, ossia:
Nella sentenza commentata, la Suprema Corte lascia intendere che la consulenza tecnica deve sopraggiungere ad un compendio istruttorio, formato (eventualmente) da documenti e (necessariamente) da dichiarazioni testimoniali che descrivano i vari comportamenti assunti dal datore di lavoro o da un dipendente sovraordinato per emarginare e screditare la vittima. Solo a questo punto, un'indagine scientifica affidata ad un esperto potrà accertare, mediante l'utilizzo dei sette parametri sopra citati, se le varie condotte riferite dai testimoni abbiano integrato l'illecito e determinato un danno di tipo biologico nel dipendente che ne è vittima.
In secondo luogo, la sentenza della Corte di Cassazione si segnala anche per i principi dettati in ordine alla corresponsabilità del datore di lavoro nella integrazione di una condotta mobbizzante da parte di un dipendente sovraordinato gerarchicamente alla vittima. Si tratta di un'ipotesi che può ricorrere negli enti pubblici o privati caratterizzati da una struttura organizzativa complessa. Nel caso di specie, poiché la dipendente ha intentato un'azione risarcitoria extracontrattuale (art. 2043 c.c.) nei confronti del Segretario comunale, la Corte di legittimità ha confermato la qualificazione giuridica della Corte di merito della corresponsabilità dell'organo politico in termini di responsabilità oggettiva (art. 2049 c.c.) per non aver impedito che si consumasse l'illecito pur essendo a conoscenza dei fatti, come narrato dai testimoni. Tale principio era stato in precedenza enunciato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 18093 del 25 luglio 2013. Difatti, in tal caso, è ravvisabile il nesso di "occasionalità necessaria" tra l'illecito e il rapporto di lavoro che vincola i due soggetti, nel senso che le mansioni affidate al dipendente hanno reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno al terzo, quale presupposto individuato dalla giurisprudenza ai fini dell'applicazione della responsabilità indiretta prevista dall'art. 2049 c.c. Si tratta di un nuovo orientamento che si sta affermando rispetto a quello tradizionale che configura la responsabilità del datore di lavoro per i danni da mobbing causata da un dipendente sovraordinato nei confronti di un altro, come responsabilità diretta, di tipo contrattuale, rientrante nel paradigma normativo dell'art. 2087 c.c., quale violazione di obbligo di sicurezza generale verso i propri dipendenti, indipendentemente dall'inadempimento di specifichi obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato (Cass. n. 4774 del 6 marzo 2006). Ne consegue che un dipendente che si ritiene vittima di mobbingad opera di un altro dipendente sovraordinato, può agire nei confronti di quest'ultimo a titolo di responsabilità extracontrattuale ed in solido nei confronti dell'ente, pubblico o privato, datore di lavoro, a titolo di responsabilità contrattuale, ex art. 2087 c.c., facendo valere, per quest'ultimo, l'omessa predisposizione di misure atte a rimuovere le condotte mobbizzanti, ovvero a titolo di responsabilità extracontrattuale di tipo indiretto ex art. 2049 c.c. Il quadro giurisprudenziale attuale ammette entrambe le forme di tutela risarcitoria. |