Giustificato rifiuto a svolgere le mansioni superiori: illegittimo il licenziamento

Mario Gatti
02 Dicembre 2016

È illegittimo il licenziamento comminato dal datore di lavoro a seguito del rifiuto del lavoratore a svolgere la prestazione lavorativa; prefigura, inoltre, gli estremi dell'eccezione di inadempimento, nel caso in cui tale rifiuto sia determinato dal mancato riconoscimento del superiore livello, maturato dal lavoratore a fronte dello stabile svolgimento delle nuove mansioni da oltre tre anni.
Massima

È illegittimo il licenziamento comminato dal datore di lavoro a seguito del rifiuto del lavoratore a svolgere la prestazione lavorativa; prefigura, inoltre, gli estremi dell'eccezione di inadempimento, nel caso in cui tale rifiuto sia determinato dal mancato riconoscimento del superiore livello, maturato dal lavoratore a fronte dello stabile svolgimento delle nuove mansioni da oltre tre anni.

Il caso

La sentenza in esame concerne un caso del tutto particolare, in cui il recesso del datore di lavoro era stato determinato dal rifiuto (parziale) del lavoratore a svolgere mansioni corrispondenti ad un livello superiore rispetto a quello formalmente assegnato, in considerazione del mancato riconoscimento da parte dell'azienda di tale superiore livello (nonostante le mansioni oggetto di contestazione fossero svolte dal dipendente da ben tre anni).

In sentenza la Corte di Cassazione ha confermato le pronunce dei giudici di merito che avevano ritenuto legittimo il rifiuto del lavoratore, qualificandolo alla stregua di una eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., con conseguente declaratoria di illegittimità del licenziamento comminato dall'azienda sulla base di una asserita insubordinazione del dipendente.

La questione

E' opponibile al datore di lavoro l'eccezione d'inadempimento, nel caso in cui il rifiuto del lavoratore a svolgere la prestazione sia collegato ad una lesione della sua professionalità, connessa al mancato riconoscimento da parte del datore di lavoro di mansioni superiori (svolte da un rilevante periodo di tempo).

La soluzione giuridica

Il rapporto di lavoro subordinato sorge in forza di un legame sinallagmatico con il quale una parte, il prestatore di lavoro, si impegna a fornire la propria opera in favore del datore di lavoro, a fronte del pagamento della retribuzione.

La natura sinallagmatica del rapporto determina il diritto del lavoratore a sollevare - sussistendone i presupposti - l'eccezione di inadempimento, ovvero il diritto della parte che veda non eseguita la prestazione in suo favore, a propria volta di non adempiere.

Il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione nel caso in cui il datore di lavoro sia inadempiente ai propri obblighi contrattuali costituisce una forma di autotutela, ossia uno strumento di protezione rispetto agli interessi del lavoratore medesimo, da attivarsi già in fase stragiudiziale (in senso conforme v. A. Riccobono, infra Guida all'approfondimento).

Tuttavia, sulla legittimità di tale strumento contrattuale, la Suprema Corte non mantiene un univoco orientamento. In alcune pronunce, infatti, la stessa ha escluso che il lavoratore possa agire in autotutela, rifiutandosi di eseguire la prestazione senza un preventivo avvallo giudiziario, anche in via cautelare, ritenendo che il lavoratore dovrebbe essere comunque obbligato ad eseguire le disposizioni impartitegli dall'azienda, in base a quanto previsto ex artt. 2086 e 2104 c.c. (invocando l'eccezione di cui all'art. 1460 c.c. solo nei casi di grave inadempimento del datore di lavoro; cfr. vedi Cass. 22 febbraio 2008, n. 4673, Cass. 20 luglio 2012, n. 12696). Grave inadempimento che, secondo l'orientamento appena citato, sussisterebbe solo nel caso di mancata corresponsione da parte dell'azienda della retribuzione e/o dei contributi previdenziali previsti per legge (v. Mauro Dallacasa, infra Guida all'approfondimento).

Il rapporto di lavoro, come noto, trova la sua specifica e apposita disciplina all'interno del codice civile e nelle leggi speciali che completano e meglio definiscono i contenuti dei reciproci obblighi tra le parti.

Sul datore di lavoro gravano obblighi ulteriori rispetto a quelli connessi al pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali. Si pensi ad esempio agli obblighi di sicurezza o di salvaguardia della professionalità dei lavoratori.

Nelle pronunce summenzionate, la Corte sembra qualificare tali obblighi come oggetto di prestazioni di natura secondaria, trattandosi di obbligazioni accessorie rispetto alla prestazione principale (il pagamento della retribuzione), il cui inadempimento non giustificherebbe il diritto del lavoratore a ricorrere ad alcuna eccezione di inadempimento.

La Corte motiva tale conclusione deducendo che il rifiuto di eseguire la prestazione dovuta in ragione dell'inadempimento dell'altra parte può considerarsi legittimo soltanto in relazione alla gravità dell'inadempimento datoriale (v. L. Scarano, infra Guida all'approfondimento). L'inadempimento, può considerarsi grave quando sia tale da incidere in maniera irrimediabile “sulle esigenze vitali” del lavoratore (Cass. 22 luglio 2012, n. 12696).

Su questi presupposti, nelle predette pronunce la Corte ha escluso che il lavoratore possa ricorrere all'eccezione di inadempimento in caso di suo rifiuto ad eseguire attività (anche di per sé dequalificanti), assumendo che la dequalificazione professionale non costituisca grave inadempimento rispetto all'obbligazione principale del datore di lavoro (v. Mauro Dallacasa, infra Guida all'approfondimento; in giurisprudenza: Cass. 23 dicembre 2003, n. 19689).

Tale posizione è stata criticata da una parte della dottrina, che - sulla base di un confronto fra le norme - ha sottolineato come presupposto per l'applicazione dell'art. 1460 c.c. non sia la gravità dell'inadempimento, come invece richiesto espressamente ex art. 1455 c.c. per l'ipotesi di risoluzione contrattuale per inadempimento (che si riferisce per l'appunto ad un inadempimento di non scarsa importanza). Il rifiuto della parte non inadempiente potrebbe pertanto considerarsi legittima tutte le volte in cui l'altra parte (semplicemente) non esegua la propria prestazione. L'unico limite espressamente imposto dalla norma è che il rifiuto del lavoratore non sia contrario a buona fede e quindi che non sia pretestuoso (v. P. Albi, infra Guida all'approfondimento).

Sussiste peraltro un diverso ed opposto orientamento giurisprudenziale, che piuttosto che fondare il proprio giudizio sulla base della natura (principale o accessoria) delle prestazioni datoriali, ritiene doveroso dare rilevanza al rapporto di proporzionalità tra l'adempimento del dipendente e l'inadempimento del datore di lavoro. Sul punto la Cassazione ha disposto che di fronte al rifiuto del lavoratore ad adempiere alla propria prestazione, “il Giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, tenendo conto non solo dell'elemento cronologico, ma anche di quello logico, essendo necessario stabilire se vi sia relazione causale ed adeguatezza, nel senso della proporzionalità rispetto alla funzione economico sociale del contratto, tra l'inadempimento dell'uno e il precedente inadempimento dell'altro; che il rifiuto di adempiere, come reazione all'inadempimento dell'altra parte, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, deve risultare ragionevole e logico in senso oggettivo, trovando concreta giustificazione nella gravità della prestazione ineseguita, alla quale si correla la prestazione rifiutata”(Cass. n. 29832/2008, Cass. n. 4673/2008, Cass. 16 maggio 2006, n. 11430).

La valutazione della proporzionalità e adeguatezza, nonché della consequenzialità dei rispettivi inadempimenti delle parti non può dunque prescindere da un'accurata analisi sulla natura e tipologia degli obblighi che derivano dal contratto.

Il potere direttivo del datore di lavoro (art. 2104 c.c.), in esecuzione del quale il lavoratore è tenuto ad adempiere alle prescrizioni impartite, non può considerarsi privo di limitazioni, in questo senso molteplici sono gli obblighi che vengono imposti al medesimo, al fine di rafforzare e tutelare la posizione del lavoratore. Oltre al dovere di corrispondere al prestatore di lavoro la retribuzione, nonché i contributi previdenziali e assicurativi previsti per legge, sul datore di lavoro gravano ad esempio gli ulteriori obblighi contrattuali di protezione dell'integrità psico-fisica del lavoratore previsti dall'art. 2087 c.c. e dal Testo Unico in materia di sicurezza.

L'art. 2103 c.c. definisce i limiti ed i contenuti dello ius variandi, ossia il potere di variare in senso ascendente e discendente le mansioni a cui il lavoratore è originariamente adibito.

Secondo la predetta norma, il lavoratore può essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento rispetto alle ultime effettivamente svolte. Questi limiti possono considerarsi senz'altro posti a tutela del lavoratore e del suo diritto allo svolgimento della prestazione lavorativa, intesa come mezzo di estrinsecazione della sua personalità.

Abbiamo visto come in alcune pronunce la Suprema Corte - in adesione al sopraesposto orientamento - abbia di fatto posto in secondo piano gli obblighi accessori del rapporto, comunque gravanti sul datore di lavoro, sino a considerare non opponibile l'eccezione di inadempimento del lavoratore, qualora lo stesso abbia adempiuto all'obbligo principale di corresponsione della retribuzione.

In virtù di quanto precede, da una parte della dottrina si è sostenuto che il dipendente non possa comunque rifiutarsi di eseguire la prestazione richiesta, senza esporsi al rischio di incorrere in un licenziamento per giusta causa, in quanto riconducibile ad una sua condotta illecita (insubordinazione) (v. L. Scarano, infra Guida all'approfondimento).

Tale orientamento tuttavia non può essere condiviso, in quanto contribuirebbe ad aggravare oltremodo la posizione del lavoratore, impedendogli di opporre il rifiuto allo svolgimento della prestazione, ad esempio nelle ipotesi in cui non gli venga riconosciuto un livello superiore, pur a fronte dello svolgimento di mansioni del tutto compatibili e conformi a tale migliore livello.

La legittimità della condotta del lavoratore (ed il suo eventuale rifiuto allo svolgimento della prestazione) non può prescindere da una attenta disamina delle sue mansioni, del suo percorso professionale e di una analisi comparata degli interessi in gioco.

Se, quindi, in capo al lavoratore vi è il dovere di svolgere le proprie mansioni con la diligenza richiesta dalla natura e dalla tipologia della prestazione, in capo al datore di lavoro vi è il dovere di adibire il medesimo ad un livello contrattuale che sia compatibile e conforme alla sua professionalità e soprattutto alle mansioni espletate.

La norma individua nelle mansioni assegnate al lavoratore il fulcro del suo bagaglio professionale, sul presupposto che il suo percorso prosegua naturalmente in senso migliorativo (v. D. Carlomagno, infra Guida all'approfondimento).

Tale principio è rimasto intatto (nonostante il parere contrario di una parte della dottrina) pur a fronte della recente modifica dell'art. 2103 c.c. (intervenuta ex D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81).

Infatti il nuovo testo della norma ha previsto il diritto del datore di modificare le mansioni del lavoratore anche riconducendole ad un livello contrattuale inferiore, tuttavia tale facoltà è limitata ai casi in cui l'azienda effettui riorganizzazioni, ristrutturazioni o conversioni aziendale.

Lo sforzo del Legislatore resta quindi volto a mantenere vivo il diritto del lavoratore a non veder pregiudicata la professionalità acquisita, se non in forza di poche ipotesi particolari in cui ad essere messo in gioco è la sopravvivenza stessa dello rapporto di lavoro.

A conferma di quanto precede, è qui solo il caso di ricordare che lo stesso articolo 2103 al comma 7 c.c. prevede che “il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e all'assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dal contratto collettivo o in mancanza, dopo sei mesi continuativi”.

Con tale disposizione il Legislatore ha inteso tutelare le legittime prerogative del dipendente che svolga mansioni superiori e che in costanza di rapporto maturi il diritto a vedersi riconoscere un trattamento contrattuale e retributivo conforme ed in linea al miglior livello raggiunto.

Se, quindi, il diritto del lavoratore al riconoscimento del miglior livello consegue per legge ed in automatico a fronte dell'esercizio di mansioni superiori - per un periodo di almeno sei mesi continuativi - altrettanto legittima appare la reazione del lavoratore che opponga al datore di lavoro il suo rifiuto ad eseguire la prestazione lavorativa, dopo che per ben tre anni ha svolto mansioni riconducibili ad un livello superiore, senza tuttavia ottenere alcun riconoscimento da un punto di vista contrattuale.

Dalla liceità del rifiuto del lavoratore a svolgere mansioni (illegittimamente) non riconosciute, consegue giocoforza l'illegittimità di un licenziamento per giusta causa, che su tale (legittimo) rifiuto si fonda.

Come affermato da parte della dottrina infatti, qualora si accerti che il comportamento del lavoratore era giustificato, lo stesso non può essere qualificato come insubordinazione, e pertanto la sua condotta esclude da un punto di vista oggettivo la legittimità del licenziamento (v. G. Del Borrello, infra Guida all'approfondimento).

Osservazioni

In relazione al caso in esame, le motivazioni che hanno sorretto la decisione in esame ci sembrano pertanto del tutto condivisibili, in quanto fondate su una corretta disamina dei presupposti fattuali e giuridici che hanno giustificato il diritto del lavoratore ad opporre, a fronte dell'illecita condotta datoriale, l'eccezione di inadempimento (determinando in tal modo l'illegittimità del relativo licenziamento).

In tali ipotesi i Giudici sono evidentemente chiamati a svolgere un'attenta valutazione comparativa della condotta delle parti ed una analisi delle ragioni giustificative del rifiuto del lavoratore a svolgere la prestazione.

In altre parole tale rifiuto, per essere ricondotto nell'alveo dell'art. 1460 c.c. e quindi passibile di tutela, non deve essere valutato in senso astratto ed assoluto ma con specifico riferimento alla condotta dell'altro contraente, cui è collegato da un nesso di interdipendenza funzionale e causale.

Nel caso di specie, da un lato, non può non essere considerato come grave l'inadempimento dell'azienda che per ben tre anni ha omesso di riconoscere al lavoratore il superiore livello contrattuale e, dall'altro, non può non essere ritenuta come in buona fede la condotta dello stesso dipendente che, sempre nel medesimo periodo (evidentemente attendendo invano un adeguamento contrattuale) ha comunque regolarmente svolto la propria prestazione lavorativa.

Guida all'approfondimento

A. Riccobono, Profili applicativi degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie: l'autotutela individuale del lavoratore, in Riv. It. Dir. Lav. 2010 pag.126

M. Dallacasa, Demansionamento del lavoratore e rifiuto di eseguire la prestazione richiesta, in Lav. giur. 2004, 1169 ss.

L. Scarano, Note critiche sull'applicazione dell'art. 1460 c.c. al rapporto di lavoro, in Riv. it. dir. lav. 2009, pag. 635

P. Albi, Eccezione di inadempimento e obbligo di sicurezza, in Riv. it. dir. lav. 2009 p. 543 ss.

D. Carlomagno, Lavoro pubblico: l'equivalenza delle mansioni nel contratto collettivo, in Lav. giur. 2003, p. 469

G. Del Borrello, Licenziamento per colpa del lavoratore ed eccezione inademplenti non est ademplendum, in Riv. it. dir. lav. 2004, 384

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