Nuove dimissioni online e recesso per fatti concludenti: problemi, rilievi pratici e considerazioni critiche

01 Marzo 2016

Dal 12 marzo 2016 le dimissioni e le risoluzioni consensuali dei rapporti di lavoro saranno efficaci soltanto se effettuate mediante una procedura telematica, compilando l'apposito modulo reso disponibile dal Ministero del Lavoro sul proprio sito internet, secondo le specifiche tecniche previste dal decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 15 dicembre 2015, pubblicato in Gazzetta Ufficiale 11 gennaio 2016, n. 7. La novità presenta alcuni problemi di carattere pratico e lascia spazio ad alcuni spunti critici che saranno trattati nel presente lavoro, con particolare riguardo al caso delle dimissioni per fatti concludenti.
Abstract

Dal 12 marzo 2016 le dimissioni e le risoluzioni consensuali dei rapporti di lavoro saranno efficaci soltanto se effettuate mediante una procedura telematica, compilando l'apposito modulo reso disponibile dal ministero del Lavoro sul proprio sito internet, secondo le specifiche tecniche previste dal decreto

del

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del

15 dicembre 2015

, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 11 gennaio 2016, n. 7.

La novità presenta alcuni problemi di carattere pratico e lascia spazio ad alcuni spunti critici che saranno trattati nel presente lavoro, con particolare riguardo al caso delle dimissioni per fatti concludenti.

Quadro normativo

Il

decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151

, in vigore dal 24 settembre 2015, all'art. 26 ha previsto, a pena di inefficacia, che le dimissioni e le risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro debbano essere effettuate esclusivamente con modalità telematiche, utilizzando un apposito modulo predisposto dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, disponibile sul sito web dello stesso Ministero.

Il medesimo articolo, al comma 3, ha successivamente demandato ad un decreto da emanare entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del

D. Lgs. n. 151/2015

, la definizione dei contenuti, le modalità di trasmissione ed i relativi standard tecnici del modulo di comunicazione.

Con la pubblicazione del D.M. 15 dicembre 2015 nella G.U. 11 gennaio 2016 n. 7 e con la sua entrata in vigore dal giorno successivo alla pubblicazione, in forza di quanto stabilito dal

D. Lgs. n. 151/2015, art. 26,

comma 8 che prevede l'entrata in vigore delle disposizioni in esso contenute a far data dal sessantesimo giorno successivo all'entrata in vigore del decreto, dal 12 marzo 2016 l'utilizzo del modulo suindicato e delle procedure telematiche diventa l'unica valida modalità per comunicare le dimissioni e le risoluzioni consensuali.

In realtà la disposizione in esame non rappresenta una novità per imprese e consulenti del lavoro, già alle prese con una previsione simile contenuta nella

legge n. 92/2012

, meglio nota come “riforma Fornero”, che condizionava le dimissioni ad una convalida delle stesse presso la competente Direzione territoriale del lavoro ovvero presso i Centri per l'impiego o altre sedi individuate dalla contrattazione collettiva o, ancora, sottoscrivendo apposita dichiarazione in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione obbligatoria di cessazione del rapporto di lavoro. Altri ricorderanno, prima della riforma Fornero, la

legge n. 188/2007

che imponeva l'uso di apposita modulistica allo scopo di contrastare i possibili abusi derivanti da un utilizzo strumentale delle dimissioni da parte di taluni datori di lavoro, fatte firmare al lavoratore già all'atto dell'instaurazione del rapporto di lavoro, c.d. “dimissioni in bianco”.

Passano gli anni ma il legislatore non rinuncia ad un ulteriore intervento sull'argomento e pertanto nel 2016 assistiamo all'ennesima variazione sul tema, ancora una volta destando qualche perplessità.

Il nuovo modulo dimissioni 2016

La nuova procedura in vigore dal 12 marzo 2016, prevede che il lavoratore compili il modulo di dimissioni, composto da 5 sezioni, inviandolo online attraverso due modalità procedurali:

- se possiede il PIN dispositivo INPS

il lavoratore deve creare un proprio account sul portale www.cliclavoro.it, successivamente accedere al portale www.lavoro.gov.it ed al form online per la trasmissione della comunicazione, oppure ad un modulo precedentemente inviato per la revoca che potrà essere effettuata entro e non oltre 7 giorni successivi alla comunicazione; il modulo dimissioni o risoluzione consensuale sarà successivamente inviato tramite PEC al datore di lavoro ed alla Direzione territoriale del lavoro competente;

- se non possiede il PIN dispositivo INPS

, il lavoratore provvede alla trasmissione telematica del modulo dimissioni rivolgendosi a patronati, sindacati, enti bilaterali o commissioni di certificazione previste dall'

art. 76, D. Lgs. 276/2003

.

La norma non si applica al lavoro domestico ed alle dimissioni o risoluzioni consensuali disposte nelle sedi conciliative

ex

art. 2113, c.c.

, comma 4 e commissioni di certificazione.

Si nota immediatamente che la nuova procedura si sostanzia in un aggravio di adempimenti a carico del lavoratore e potrebbe generare incertezze e problemi di carattere pratico ai datori di lavoro, come a breve andremo ad analizzare.

Dimissioni per fatti concludenti

Com'è noto, le dimissioni hanno natura di atto unilaterale recettizio pertanto non richiedono accettazione da parte del datore di lavoro ma il lavoratore, secondo quanto disposto dall'

art. 2118 c.c.

, ha l'obbligo di comunicare il recesso rispettando i termini di preavviso nelle forme previste dal CCNL applicato, solitamente per iscritto.

Orbene, è purtroppo prassi diffusa che alcuni lavoratori, in barba al disposto dell'

art. 2118 c.c.

e senza che ricorrano le fattispecie previste dal successivo

art. 2119 c.c.

, per motivi personali ovvero, come spesso accade, a causa di contrasti con il datore di lavoro, abbandonino definitivamente il posto di lavoro senza alcun preavviso.

Simili comportamenti rappresentano motivo di disagio per i datori di lavoro, sia per l'improvvisa mancanza di forza lavoro, sia per la necessità di coprire il posto vacante senza subire pregiudizio economico e rallentamenti dell'attività produttiva, in una situazione di incertezza che talvolta non permette di effettuare scelte adeguate al contesto aziendale nel brevissimo termine.

I comportamenti sopra descritti vengono definiti dimissioni per fatti concludenti o per facta concludentia, vale a dire dimissioni dedotte da determinati comportamenti del lavoratore, senza un'espressa comunicazione da parte di quest'ultimo.

In giurisprudenza sussistono due distinti orientamenti in materia: secondo il primo orientamento le parti, anche mediante clausole negoziali o previste da accordi collettivi, possono prevedere che determinati comportamenti del lavoratore, ad esempio un'assenza ingiustificata e prolungata oltre un certo numero di giorni, assuma il valore giuridico di un atto di dimissioni, in quanto considerata espressione della volontà del lavoratore di recedere dal rapporto sulla base di un'esplicita e predeterminata disposizione delle parti (

Cass. 10 giugno 1998, n. 5776

) quindi per fatti concludenti; sulla base del secondo orientamento, invece, simili comportamenti non assumono rilievo oggettivo ed è sempre necessario accertare la reale volontà del lavoratore, essendo ammessa la prova contraria a quanto desunto dal comportamento del lavoratore medesimo. La Suprema Corte, con sentenza 2 luglio 2013, n. 16507 aderendo a tale orientamento, ha ritenuto censurabile la clausola contrattuale secondo la quale un lavoratore che al termine del periodo di aspettativa non riprenda servizio senza giustificato motivo, possa considerarsi dimissionario.

Nella fattispecie, i giudici di legittimità hanno precisato che non si possono attribuire a determinati comportamenti il significato e l'efficacia di un atto unilaterale di recesso, senza che si compia un accertamento sulle effettive intenzioni del soggetto, pertanto non è possibile attribuire significato negoziale ad una manifestazione comportamentale per facta concludentia senza ammettere la possibilità di prova contraria.

La Suprema Corte nella medesima sentenza è andata oltre, distinguendo tra dimissioni per fatti concludenti ed assenza ingiustificata protratta oltre uno specifico termine, chiarendo che "l'assenza ingiustificata e protratta oltre un certo termine può essere assunta, in sede di contrattazione collettiva o individuale del rapporto di lavoro privato, quale causa di scioglimento del rapporto di lavoro, soltanto considerandola quale sanzione disciplinare (cfr.

Corte cost. 29 novembre 1982 n. 204 e Corte cost. n. 427 del 1989), necessariamente preceduta dalle garanzie procedimentali previste nei primi tre commi dell'art. 7 L. 20 maggio 1970 n. 300 (Cass. 6 ottobre 2005 n. 19418)".

In effetti, il dibattito sull'argomento si è spesso incentrato sulla corretta interpretazione del comportamento concludente del lavoratore, spesso alla luce delle previsioni dei contratti collettivi che prevedono un numero di giorni di assenza ingiustificata, oltre il quale il datore di lavoro possa inequivocabilmente ritenere il lavoratore dimissionario. L'orientamento giurisprudenziale consolidato prevede in ogni caso che l'assenza ingiustificata non sia causa di licenziamento tout court ma che essa debba protrarsi oltre un certo termine e valutata come infrazione disciplinare, attivando il procedimento che ne consegue.

In tal senso anche le più recenti sentenze della

Cassazione civile sez. lavoro, 2 luglio 2013, n. 16507

e

Cassazione civile sez. lavoro, 21 g

ennaio 2015, n. 102

5

che negano la possibilità di attribuire significato negoziale alla manifestazione di volontà implicita (per facta concludentia) del lavoratore, stabilendo in maniera “convenzionale” altre cause di estinzione del rapporto di lavoro che non siano quelle del licenziamento da parte del datore di lavoro ovvero delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, pertanto sarebbe in ogni modo necessaria una manifestazione espressa da parte del lavoratore per integrare la fattispecie delle dimissioni.

Si legge difatti nella sentenza

Corte di Cassazione, sezione lavoro, n. 1025 del 21 gennaio 2015

, che “non è permesso alle parti introdurre altre cause di estinzione del rapporto, stante il carattere inderogabile della disciplina legislativa limitativa dei licenziamenti” pertanto la cessazione del rapporto nel nostro ordinamento deve seguire due modalità: dimissioni espresse del lavoratore o licenziamento del datore di lavoro.

Il caso di specie si riferiva ad un'azienda che aveva previsto nel proprio regolamento aziendale una clausola che stabiliva a priori che fossero considerate dimissioni del lavoratore le assenze senza giustificato motivo per un periodo superiore a 10 giorni lavorativi consecutivi.

Osserva infatti la suprema Corte che “alle parti non è consentito di attribuire a determinati comportamenti del lavoratore il valore ed il significato negoziale di manifestazione implicita o per facta concludentia della volontà di dimettersi, senza possibilità di prova contraria” pertanto non è possibile prevedere una tipizzazione dei comportamenti integranti la fattispecie delle dimissioni ma è necessario considerare l'effettiva volontà del soggetto, che non ammetta prova contraria, non una clausola risolutiva espressa del rapporto di lavoro, inammissibile “stante il carattere inderogabile della disciplina legislativa limitativa dei licenziamenti”.

Nuova procedura, nuovi problemi

Preso atto dei principi e dell'orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, viene allora da chiedersi come debba comportarsi un datore di lavoro che, alla luce delle novità in vigore dal 12 marzo 2016, venga a trovarsi in quella particolare condizione “sospensiva” creata da lavoratori che abbandonino il posto di lavoro senza alcuna giustificazione e senza osservare la prevista procedura online.

Il fenomeno a dire il vero è molto diffuso, soprattutto in alcuni settori come quello agricolo e quello edilizio, caratterizzati da un'elevata mobilità e da un massiccio ricorso a manodopera straniera, con soggetti che facilmente ed improvvisamente diventano irreperibili.

Analizziamo quindi alcune situazioni tipo che spesso viviamo in azienda e negli studi dei consulenti del lavoro, che potrebbero assumere dei risvolti paradossali con l'entrata in vigore della nuova modalità di comunicazione online.

Ipotizziamo il caso di un lavoratore che improvvisamente abbandoni il posto di lavoro senza alcun preavviso né altro tipo di informazione nei confronti del datore di lavoro, evitando di effettuare la prevista procedura telematica di dimissioni.

Orbene, in un caso simile il datore di lavoro è costretto suo malgrado a sopportare uno stato di "sospensione" imprevista catapultato nella difficile situazione di dover far fronte ad una riduzione della forza lavoro, ancora più grave se ipotizziamo che il lavoratore svolgeva mansioni di primaria importanza all'interno dell'azienda (si pensi a titolo esemplificativo all'unico cuoco di un ristorante).

E se invece il lavoratore correttamente effettuasse la dovuta comunicazione attraverso le nuove modalità online? Ebbene, ad oggi ancora non si conoscono i tempi in cui tutto l'iter comunicativo si concluderà né il momento in cui il datore di lavoro verrà effettivamente a conoscenza del recesso del lavoratore, ma trattandosi di procedure telematiche che prevedono la comunicazione mediante posta elettronica certificata potremmo essere ottimisti e sperare in tempi rapidi se non addirittura immediati.

Tra i vari problemi che potrebbero presentarsi dobbiamo considerare anche l'eventualità in cui il datore di lavoro non possieda, anche solo temporaneamente, un indirizzo di posta elettronica certificata. Il caso in prima battuta sembrerebbe meramente scolastico, stante l'obbligo previsto per tutte le imprese dopo la conversione del

D.L. n. 179/2012

nella

Legge n. 221/2012

ma nel concreto ed in particolar modo nelle piccole realtà aziendali, non è raro riscontrare casi in cui il datore di lavoro dimentichi di rinnovare il contratto di fornitura del servizio PEC restandone privo addirittura per mesi. In questi casi ci si domanda in quale modo il datore di lavoro possa venire a conoscenza del recesso del lavoratore che correttamente abbia adempiuto all'obbligo di utilizzare la procedura online. Probabilmente il lavoratore potrebbe consegnare al datore di lavoro copia della ricevuta stampata dal sistema al termine della procedura ed il codice identificativo, ma questa è solo un'ipotesi, resta da verificare l'efficacia delle dimissioni in simili casi, alla luce di quanto disposto dall'

art. 1334 c.c.

La pratica quotidiana ci porta però a considerare casi ben più gravi. Ipotizziamo che il medesimo lavoratore abbandoni definitivamente il posto di lavoro senza osservare la prescritta procedura di dimissioni online, lasciando come anzidetto, il datore di lavoro in uno stato di incertezza ed aggiungiamo che nel nostro esempio il lavoratore sia straniero ed abbia deciso di tornare in patria diventando a tal punto irrintracciabile.

Ebbene, in questi casi si aprono scenari davvero paradossali per il datore di lavoro.

L'

art. 26, comma 1, del D. Lgs. 151/2015

dispone che le dimissioni non effettuate utilizzando la nuova procedura online sono inefficaci, pertanto il datore di lavoro rischierebbe di restare in attesa di una sorta di “dimissioni Godot” e l'unica via percorribile resterebbe l'apertura di un procedimento disciplinare ai sensi dell'

art. 7, legge n. 300/1970

che si concluderebbe inevitabilmente con il licenziamento e con l'obbligo per il datore di lavoro di dover versare il c.d. ticket licenziamento introdotto dalla riforma Fornero, che va a finanziare la Naspi ed è pari a circa 1.500 euro nei casi di lavoratore a tempo indeterminato con almeno 36 mesi di anzianità lavorativa.

Tutto ciò oltre a rappresentare una beffa per i datori di lavoro, mostra un'evidente lacuna della norma.

A questo punto il pensiero va a coloro che, dal 12 marzo 2016, volendo recedere dal rapporto di lavoro preferiranno dileguarsi ed evitare di comunicare le proprie dimissioni, attendendo che il datore di lavoro proceda a licenziamento ed ottenendo, in tal modo, il diritto alla percezione della Naspi, che gli sarebbe negata in caso di dimissioni.

A questo si aggiunga che il rito disciplinare solitamente ha tempi da rispettare ed il datore di lavoro, sebbene sia ormai certo del recesso definitivo del lavoratore, dovrà contestargli l'assenza, attendere le giustificazioni a sua difesa (che non arriveranno mai) ed infine procedere al licenziamento quale sanzione più grave per l'assenza ingiustificata.

Ma non è tutto, ricordiamo che ai sensi dell'

art. 26, comma 2, D.Lgs. n. 151/2015

, il lavoratore entro sette giorni dalla data di trasmissione del modulo ha facoltà di revocare le dimissioni con le stesse modalità telematiche.

Siccome al peggio non c'è mai fine, ipotizziamo allora il caso in cui un lavoratore, pur presentando le dimissioni con la modalità prescritte dall'

art. 26, D. Lgs. 151/2015

, decida entro 7 giorni di revocarle ed ipotizziamo altresì che nel frattempo, il datore di lavoro abbia già provveduto a sostituire il dimissionario assumendo un nuovo lavoratore (se poi volessimo complicare ulteriormente la situazione potremmo immaginare che tutto si svolga a cavaliere di due mesi e che il datore di lavoro ovvero il suo consulente del lavoro si trovino nella totale incertezza anche per l'elaborazione delle buste paga e del LUL).

In tal caso il datore di lavoro si troverebbe a sopportare il costo di un lavoratore aggiuntivo assunto solo per sopperire alla mancanza del primo.

Quali rimedi in casi come questi? La prima soluzione sarebbe quella più scontata, vale a dire attendere il decorso di 7 giorni dalla comunicazione, prima di procedere a nuove assunzioni, ma anche in questo caso c'è da chiedersi per quale motivo il datore di lavoro debba sopportare la mancanza di forza lavoro per una settimana pur avendo la possibilità di sopperire ad essa immediatamente, al solo scopo di scegliere “il male minore" e non rischiare di ritrovarsi in azienda due lavoratori al posto di uno?

Tornando invece all'ipotesi di licenziamento con pagamento del ticket a carico del datore di lavoro, alcuni si chiedono se sia legittimo inserire nel contratto individuale sottoscritto all'atto dell'assunzione ovvero nel regolamento aziendale, clausole ad hoc che prevedano il diritto del datore di lavoro di addebitare al lavoratore che non osservi la prescritta procedura e sia dimissionario per facta concludentia, il corrispettivo di quanto ingiustamente versato a titolo di ticket, oltre alla normale trattenuta per mancato preavviso.

Chi scrive nutre seri dubbi sulla legittimità di una simile clausola di rivalsa perché gli strumenti di difesa del datore di lavoro sono già previsti dall'

art. 7 dello Statuto dei lavoratori

, inoltre nulla vieta al datore di lavoro di esperire successivamente le vie legali per ottenere il risarcimento del danno scaturito da un comportamento scorretto del lavoratore, a prescindere da una preventiva tipizzazione e dalla previsione dell'addebito, stante altresì il comma 31 dell'

articolo 2 della legge 92/2012

, che disciplina il c.d. ticket e che dispone espressamente che tale contributo sia previsto "a carico del datore di lavoro"

.

In conclusione

Paradossalmente la norma è stata introdotta da un decreto legislativo che nel titolo riporta "

Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità"

.

In realtà non si sentiva il bisogno di un ulteriore adempimento per contrastare un fenomeno, quello delle dimissioni in bianco, sì deprecabile ma probabilmente sovrastimato.

Come affermato in apertura del presente lavoro, la riforma Fornero aveva già introdotto l'obbligo di convalidare le dimissioni presentate dal lavoratore senza esagerare nei formalismi e con modalità non eccessivamente complesse, pertanto la nuova procedura, oltre a non rappresentare una facilitazione, introduce ulteriori complicazioni burocratiche a carico dei lavoratori i quali, presumibilmente, non accetteranno di buon grado questa nuova procedura e si rivolgeranno in massa ai soggetti abilitati (anche in considerazione dei tempi per ottenere il PIN INPS).

Senza dubbio, per molti lavoratori, la complessità di questo nuovo iter procedurale (ricordiamo che il lavoratore che decida di effettuare la comunicazione autonomamente, oltre al PIN INPS deve essere in possesso delle credenziali di accesso ad un'utenza ClicLavoro sul sito ministeriale

) rappresenterà un deterrente tale da indurli a sparire nel nulla lasciando il datore di lavoro in balìa di procedure disciplinari dall'esito scontato sin dalla fase iniziale, dilatando i tempi per effettuare nuove assunzioni sostitutive ed addirittura per la gestione degli ordinari adempimenti mensili quali l'elaborazione della busta paga e della corretta compilazione del libro unico del lavoro.

Confidiamo nel buon senso del legislatore, spesso troppo distante dalle realtà lavorative ed aziendali, affinché possa effettuare correzioni alla norma, magari già prima dell'entrata in vigore della nuova procedura, se non addirittura optare per un passo indietro e lasciare le cose nello stato in cui sono.

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