Smart working: prospettive di flessibilitàFonte: L. 22 maggio 2017 n. 81
30 Marzo 2017
La disciplina dello smart working o lavoro agile
La disciplina dello “smart working” veniva introdotta nel nostro ordinamento dal Collegato Lavoro della Legge di Stabilità 2016, con Disegno di Legge n. 2233, presentato al Senato su iniziativa del Governo Renzi.
Il predetto DDL n. 2233-B, nel testo e nella numerazione approvata dalla Camera dei Deputati lo scorso 9 marzo 2017 (rubricato Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi di lavoro subordinato), dedica al lavoro “agile” tutto il Capo II (artt. 18 – 23) ripercorrendo pedissequamente – se fatta eccezione per l'articolo 20 in materia di “diritto all'apprendimento continuo e certificazione delle competenze del lavoratore” – il testo già approvato dal Senato della Repubblica.
La proposta legislativa si inserisce in quel processo di riforma del mercato del lavoro, meglio conosciuto come “Jobs Act” che, in materia contrattuale, dopo aver individuato quale contratto “tipico” quello subordinato, a tempo indeterminato, ha operato, poi, una sistemazione unitaria delle residue tipologie atipiche con il D.Lgs. n. 81/2015.
Lo smart working quindi, già solo per la sua “diversa collocazione sistematica”, non deve essere inteso come una nuova tipologia contrattuale, dovendosi piuttosto configurare come una diversa e più moderna "modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato", stabilita mediante accordo tra le parti e caratterizzata dall'utilizzo di strumenti tecnologici, eseguita in parte all'interno dell'azienda ed in parte all'esterno.
Così la norma definitoria: “Le disposizioni del presente capo, allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, promuovono il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell'attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all'interno dei locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
Ebbene, una lettura attenta della disposizione sopra riportata dimostra quanto prima accennato; si tratta di una “diversa modalità di prestazione, nell'ambito di un contratto di lavoro subordinato” che, tuttavia, non necessariamente deve essere a tempo indeterminato, ben potendo essere il contratto sottostante un contratto a termine.
Ci si dovrà forse interrogare sulla compatibilità di altre tipologie contrattuali con la modalità “agile di esecuzione” (si pensi alla somministrazione di lavoro).
La norma infatti non esclude espressamente altre tipologie di lavoro, di natura “subordinata”. La previsione, a mente della quale l'accordo sia rimesso alla definizione autonoma delle Parti, si ritiene debba fare esclusivo riferimento all'autonomia collettiva.
In effetti, non sono pochi gli accordi di rinnovo che hanno introdotto specifiche previsioni, in materia di lavoro agile (solo per citarne alcuni, cfr. Alimentari - piccola industria, accordo di rinnovo del 16 settembre 2016; Alimentari – artigianato, accordo di rinnovo del 23 febbraio 2017; Panificatori – artigianato, accordo di rinnovo del 23 febbraio 2017; Alimentari industria, accordo di rinnovo del 5 febbraio 2016; Energia – Eni, accordo di rinnovo del 25 gennaio 2017; Miniere - metallurgia, accordo di rinnovo del 15 febbraio 2017).
Dalle norme collettive esaminate si possono trarre importanti spunti “di prima applicazione” della disciplina in commento:
Tra gli altri punti che meritano una particolare attenzione nel testo del disegno di legge è senza dubbio il riferimento alla assoluta equiparazione retributiva. Nel provvedimento viene, infatti, chiarito che il trattamento economico del lavoratore agile non dovrà essere inferiore a quello applicato ai dipendenti che svolgono le stesse mansioni in azienda.
È stato poi previsto e confermato – rispetto al disegno originale – anche il cosiddetto diritto alla disconnessione, nei tempi di riposo, dagli strumenti tecnologici di lavoro.
All'articolo 16 (che nella nuova numerazione approvata dalla Camera è l'articolo 19, rubricato “Forma e Recesso”) viene infatti ulteriormente devoluta all'accordo sindacale anche l'individuazione di precisi “tempi di riposo”, allo scopo di assicurare la predetta “disconnessione”.
Allo stato, si è invece completamente obliata la necessità di “rimediare” – almeno così parrebbe potersi confermare dalla lettura dei lavori parlamentari - ad un contrasto di norme che verrebbe a crearsi con l'approvazione definitiva del disegno di legge.
Quest'ultimo, infatti, prevede l'assoggettamento della prestazione di lavoro agile ai “soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva” (articolo 15, ora articolo 18 nel testo approvato dalla Camera del Disegno di Legge).
Non si dimentichi, infatti, che la vigente normativa sull'orario di lavoro esenta invece il “telelavoro” dai limiti di durata massima (peraltro ormai solo settimanale) della prestazione; diversamente, non avrebbe potuto essere atteso che è il lavoratore stesso a determinare la durata della sua prestazione “senza precisi vincoli di orario”) oltre tutto difficilmente superabile. Condizione paradossale che finirebbe, quindi, per rendere sul punto, il vecchio “telelavoro” anche più “agile” del nuovo smart working.
Assai più elementare è invece la disciplina del recesso “dall'accordo” con il quale sono state previste le modalità di svolgimento agile della prestazione lavorativa.
L'articolo 16 del DDL (ora art. 19 nel testo approvato dalla Camera) esplicita che “l'accordo di cui al comma 1 può essere a termine o a tempo indeterminato; in tale ultimo caso, il recesso può avvenire con un preavviso non inferiore a trenta giorni. [..] In presenza di un giustificato motivo, ciascuno dei contraenti può recedere prima della scadenza del termine nel caso di accordo a tempo determinato, o senza preavviso nel caso di accordo a tempo indeterminato.
In buona sostanza, in caso di accordo a tempo indeterminato, il recesso deve avvenire con un preavviso di almeno 30 giorni.
Manca invece una previsione per l'ipotesi di una indennità sostitutiva del preavviso, laddove le parti si trovino nella impossibilità di osservare detto periodo; allo scopo vengono piuttosto equiparati gli effetti della giusta causa ad un non meglio precisato “giustificato motivo”. Il che lascia intendere che, tanto in caso di motivo soggettivo che oggettivo, entrambi i contraenti potranno recedere senza osservare il periodo di preavviso.
Non viene neppure previsto secondo quali modalità dovrebbero regolarsi le parti in ipotesi volessero recedere “ante tempus” .
Già esaminate le lacune connesse alla descrizione dell'obbligo di sicurezza, laddove si arrivi a sottoscrivere un accordo in cui è il lavoratore a dotarsi della strumentazione necessaria a svolgere la prestazione lavorativa, nonché ad accollarsi i conseguenti oneri manutentivi. La previsione in materia di cui all'articolo 22 del DDL, approvato anche dalla Camera, evidenzia che detto obbligo “si esaurirebbe” – in ogni caso – consegnando al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza “un'informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro”.
Quasi a voler confermare i dubbi interpretativi sopra richiamati, si legge altresì al comma 2 che “il lavoratore è tenuto a cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all'esecuzione della prestazione all'esterno dei locali aziendali”.
Allo stato, dalla disposizione non è dato neppure rinvenire a “completamento” un esplicito rinvio alle norme generali in materia di salute e sicurezza dei luoghi di lavoro. Compatibilità tra la modalità di esecuzione “agile” del lavoro e la nuova disciplina dei “controlli a distanza” ex art. 4, St. Lav.
Altrettanto problematica è la questione connessa all'utilizzo, da parte dello smart worker, di strumenti potenzialmente idonei a consentire il controllo a distanza del proprio lavoro (si pensi, più esemplificativamente, a tablet e smartphone); strumenti che, alla luce del nuovo articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970), proprio in quanto strumenti utilizzati per “rendere la prestazione”, consentono al datore di lavoro di operare detto controllo “anche in assenza di un previo accordo sindacale”.
Si ricorda che l'articolo in questione, dedicato agli “impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo”, interviene in maniera preponderante e sostanziale sulle modalità con cui il datore di lavoro può esercitare i propri controlli sui lavoratori, sancendo che gli impianti e gli stumenti da cui derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori possono essere utilizzati esclusivamente per esigenze produttive ed organizzative, per la sicurezza sul lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, previo accordo collettivo con le rappresentanze sindacali.
Come si è già anticipato – ed è ciò che rileva maggiormente nel caso specifico – la vera rivoluzione di questa disciplina si è concretizzata con l'introduzione della modifica di cui al comma 2, art. 4, St. Lav., nel quale si concede al datore di lavoro ampia libertà nella definizione delle modalità di gestione degli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa (si pensi, per lo smart worker, a notebook, tablet, smartphone, ecc.), con la possibilità di utilizzare le informazioni e i dati raccolti per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro (compresi quelli disciplinari), il tutto senza il previo consenso delle rappresentanze sindacali o delle autorità amministrative.
La convinzione di chi scrive è che la possibilità di utilizzare gli strumenti utilizzati dallo smart worker per rilevare eventuali condotte inadempienti o per l'eventuale adozione di sanzioni disciplinari, comporterà in ogni caso la necessità di vincolare strettamente il potere di controllo del datore di lavoro al rispetto del Codice della Privacy e di tutte le prescrizioni e le linee guida emanate dal Garante della Privacy, soprattutto in tema di geolocalizzazione, e di aggiornare regolamenti aziendali e codici disciplinari alle mutate previsioni legislative, al fine di garantire un sereno utilizzo dello smart working.
In sostanza, le informazioni raccolte attraverso gli strumenti informatici in dotazione del lavoratore potranno essere utilizzate a fini disciplinari a condizione che sia stata preventivamente sottoposta al lavoratore una informativa idonea a renderlo edotto della “ulteriore” modalità d'uso degli strumenti e della eventualità quindi, che, attraverso gli stessi, la propria attività lavorativa potrà anche essere sottoposta ad un controllo a distanza, a fini disciplinari.
L'utilizzo di questi strumenti potrebbe avvenire pertanto senza particolari formalità, limitando in tal modo il formalismo e la burocratizzazione che sono stati tra le cause principali del fallimento di istituti simili come il telelavoro; il tutto, però, a evidente danneggiamento della sfera personale del lavoratore.
È quindi necessario interrogarsi più specificamente sulla questione connessa alla “geolocalizzazione” degli strumenti che il lavoratore utilizza per rendere la prestazione fuori dai locali aziendali; è sempre bene ricordare che, anche nel caso dello smart working, il gps connesso a tablet e smartphone potrebbe non rappresentare sempre uno strumento richiesto per lo svolgimento della prestazione lavorativa, limitando quindi le facoltà del datore di lavoro di controllare “gli spostamenti” del lavoratore o i luoghi in cui eserciterà la prestazione lavorativa.
Detta impostazione è stata definitivamente confermata dalla Circolare 7 novembre 2016, n. 2 dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) con la quale sono state fornite “indicazioni circa la corretta lettura dell'art. 4, Legge 20 maggio 1970, n. 300 – come novellato dall'art. 23, D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151 – Sulla questione, acquisito il parere dell'Ufficio Legislativo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, si rappresenta quanto segue. [..] In linea di massima, e in termini generali, si può ritenere che i sistemi di geolocalizzazione rappresentino un elemento “aggiunto” agli strumenti di lavoro, non utilizzati in via primaria ed essenziale per l'esecuzione dell'attività lavorativa ma, per rispondere ad esigenze ulteriori di carattere assicurativo, organizzativo, produttivo o per garantire la sicurezza del lavoro. Ne consegue che, in tali casi, la fattispecie rientri nel campo di applicazione di cui al comma 1 dell'art. 4, L. n. 300/1970 e pertanto le relative apparecchiature possono essere installate solo previo accordo stipulato con la rappresentanza sindacale ovvero, in assenza di tale accordo, previa autorizzazione da parte dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro (art. 4, comma 1, L. n. 300/1970 come modificato dall'art. 5, comma 2, D.Lgs. n. 185/2016). Si evidenzia tuttavia, che solo in casi del tutto particolari - qualora i sistemi di localizzazione siano installati per consentire la concreta ed effettiva attuazione della prestazione lavorativa (e cioè la stessa non possa essere resa senza ricorrere all'uso di tali strumenti), ovvero l'installazione sia richiesta da specifiche normative di carattere legislativo o regolamentare (es. uso dei sistemi GPS per il trasporto di portavalori superiore a euro 1.500.000,00, ecc.) – si può ritenere che gli stessi finiscano per “trasformarsi” in veri e propri strumenti di lavoro e pertanto si possa prescindere, ai sensi di cui al comma 2, art. 4, L. n. 300/1970, sia dall'intervento della contrattazione collettiva che dal procedimento amministrativo di carattere autorizzativo previsti dalla legge”. Conclusioni
L'evoluzione scientifica e dottrinale reperibile al momento in cui si scrive, dimostra che il fenomeno in Italia è in graduale espansione, anche se la stragrande maggioranza delle aziende ad oggi ha semplicemente approvato degli accordi di rinnovo che mirano a lanciare un “progetto pilota” in attesa della definitiva approvazione parlamentare del disegno di legge.
Disegno di legge che dimostra di essere spesso carente di precisi rimandi a discipline “cardine” del rapporto di lavoro e con le quali non sembra essere in grado di comunicare “armonicamente” .
Ciò conferma lo stato ancora incerto ed embrionale delle realizzazioni compiute, nonostante la forte tensione all'adozione di queste nuove modalità, per l'evidente e sempre maggiore richiesta “di autonomia individuale”, l'evidente ricerca da parte delle aziende di professionalità sempre più specifiche, nonché per l'evidente e crescente esigenza di correlare finalmente, senza frizioni reciproche, la vita personale e quella lavorativa.
Studio Legale Quorum
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