Risarcimento del danno da demansionamento e riforma del settore delle telecomunicazioni
29 Aprile 2015
Massime
Le tabelle di equiparazione predisposte dalla contrattazione collettiva in funzione della conservazione della posizione giuridica ed economica del lavoratore nel passaggio del servizio di telefonia dal settore pubblico a quello privato (L. 29 gennaio 1992 n. 58) possono essere disapplicate dal giudice ogniqualvolta ne ravvisi la parziale nullità per la non corrispondenza ai criteri imposti dalla legge in ragione della salvaguardia della professionalità dei lavoratori.
Il diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico, esistenziale derivante da demansionamento e dequalificazione non sorge ipso iure in ogni caso di inadempimento datoriale, ma presuppone l'esistenza di un pregiudizio di natura oggettiva, provocato su reddito, abitudini di vita e assetti relazionali, che deve essere provato dal lavoratore ai fini del soddisfacimento della propria pretesa.
In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione è onere del lavoratore non solo quello di allegare il demansionamento, ovvero l'inadempimento datoriale, ma anche quello di fornire la prova, ai sensi dell'art. 2697 c.c., sia anche per presunzioni, del danno non patrimoniale subito, nonché del nesso di causalità tra inadempimento e danno stesso. Il caso
Un lavoratore, già alle dipendenze dell'ASST (Azienda di Stato per i Servizi Telefonici), poi passato alle dipendenze dell'IRITEL (a seguito della soppressione dell'ASST in virtù della L. n. 58 del 1992) e successivamente di TELECOM ITALIA S.p.A. con identica posizione di lavoro, agiva in giudizio per vedere dichiarato il proprio diritto all'inquadramento nel V livello c.c.n.l. SIP del 1/11/93 e livello E c.c.n.l. Aziende di Telecomunicazione del 1/10/96 ed il conseguente diritto alle differenze retributive a partire dal 21/2/1998. La Corte di Appello di Napoli riformava la sentenza di primo grado riconoscendo il demansionamento e condannando TELECOM ITALIA S.p.A. al risarcimento del danno determinato nel 50% delle differenze retributive per i soli primi tre anni di demansionamento, sul presupposto della non applicabilità delle tabelle di equiparazione tra le qualifiche di provenienza e quelle di destinazione del lavoratore (la cui predisposizione è stata prevista dalla L. 29 gennaio 1992 n. 58) poiché non conformi al criterio del rispetto della professionalità acquisita. Contro la sentenza d'Appello veniva proposto ricorso per Cassazione da parte del datore di lavoro. Il lavoratore resisteva con controricorso. Le questioni
Le questioni in esame sono le seguenti: a) secondo quali criteri devono essere interpretate ed applicate le tabelle di equiparazione tra le qualifiche di provenienza e quelle di destinazione del lavoratore, elaborate dalla contrattazione collettiva in forza della L. 29 gennaio 1992 n. 58? b) che differenza sussiste tra la vecchia VI categoria del c.c.n.l. SIP del 1/11/93 ed il nuovo VI livello del c.c.n.l. Aziende di Telecomunicazione del 1/10/96? c) ai fini del risarcimento del danno da demansionamento e dequalificazione, la sussistenza del danno può essere desunta dalla mera allegazione dell'inadempimento datoriale o, viceversa, è onere del lavoratore anche quello di fornire la prova, ai sensi dell'art. 2697 c.c., dell'entità del pregiudizio subito e del nesso di causalità tra questo e demansionamento? Le soluzioni giuridiche
Appare consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui, con riferimento alla posizione del singolo lavoratore, il passaggio del servizio di telefonia dal settore pubblico a quello privato non dà luogo all'applicazione dell'art. 2112 c.c., né all'applicazione dell'art. 2103 c.c. La L. 29 gennaio 1992 n. 58, disciplinante la riforma del settore delle telecomunicazioni, ha infatti rimesso alla contrattazione collettiva la predisposizione di una serie di tabelle di equiparazione tra le qualifiche di provenienza e quelle di destinazione, con la precisa finalità di permettere a ciascun lavoratore di conservare l'acquisita posizione economica e giuridica nel passaggio da un contesto lavorativo di pubblico impiego ad una organizzazione del lavoro predisposta dal gestore privato (Cass. 30.11.2010 n. 24231). La medesima legge ha previsto che tali tabelle vengano elaborate non in termini di una rigida ed assoluta corrispondenza tra originaria e nuova qualifica, bensì sulla base di un raffronto complessivo tra qualifiche e livelli di volta in volta considerati. Ed infatti, le indicazioni ivi contenute costituiscono elemento decisivo di riferimento solo ove l'equivalenza delle posizioni dei lavoratori, messe a confronto di volta in volta, sussista realmente (Cass. 01.03.2011 n. 4991).
Le premesse di cui sopra consentono di determinare sia il criterio interpretativo, che l'ambito di applicazione/disapplicazione delle tabelle in esame. Sotto il primo profilo, le tabelle di equiparazione possono ritenersi conformi solo qualora, nel passaggio da un rapporto di lavoro all'altro, risulti rispettata e mantenuta la professionalità acquisita dal lavoratore e, nel contempo, sia a questi assicurato un trattamento economico globalmente non inferiore a quello goduto in precedenza (Cass. 30.11.2010 n. 24231; Cass. 11.08.2004 n. 15605). Sotto il secondo profilo, ne consegue che il Giudice potrà disapplicare tali tabelle ogniqualvolta ne ravvisi, anche solamente in via incidentale, la non corrispondenza ai criteri imposti dalla legge a tutela della professionalità del lavoratore. La nuova qualifica o il nuovo livello da attribuire al lavoratore viene individuata/o mediante una valutazione globale e non meccanicistica della qualifica precedentemente rivestite (Cass. 08.07.2004 n. 12647).
Sulla questione inerente il punto b), la Suprema Corte ribadisce la differenza tra la vecchia VI categoria prevista nel c.c.n.l. SIP del 1/11/93 ed il nuovo VI livello del c.c.n.l. Aziende di Telecomunicazione del 1/10/96; ed in particolare, mentre la prima ricomprende compiti di coordinamento e di controllo svolti in autonomia, il secondo prevede compiti meramente esecutivi, pur tecnicamente qualificati, su impianti semplici con solo eventuali compiti di supporto professionale e coordinamento di altri lavori.
Sulla questione di cui al punto c), appartiene ad un'opzione giurisprudenziale ormai abbastanza consolidata il principio per cui, in caso di pregiudizio derivante da demansionamento o dequalificazione, il lavoratore, che pretende di vedersi risarcire il pregiudizio patito, non può limitarsi alla mera allegazione dell'avvenuto/a demansionamento/dequalificazione, ma deve altresì fornire la prova, ai sensi dell'art. 2697 c.c., del danno non patrimoniale subito nella sua entità, nonché del nesso di causalità tra l'inadempimento datoriale e il danno stesso (Cass. 29.09.2014 n. 20473; Cass. 25.03.2014 n. 6965; Cass. 11.10.2013 n. 23171).
A tali fini, non è quindi sufficiente che il lavoratore alleghi la mera potenzialità offensiva della condotta datoriale, essendo invece necessario che fornisca la dimostrazione che tale condotta abbia prodotto tangibili riflessi negativi su reddito, professione, abitudini e assetti relazionali, tali da indurlo a scelte di vita diverse rispetto a quelle altrimenti intraprese. In particolare è onere del dipendente precisare le circostanze idonee a sorreggere la propria pretesa risarcitoria, quali, ad esempio, i risultati negativi conseguenti alla perdita di professionalità, le ragionevoli aspettative frustrate, le capacità professionali perdute, i riflessi negativi conseguenti alla perdita di aggiornamento, l'eventuale perdita di chance, la mancata possibilità di ottenere avanzamenti in carriera, le eventuali occasioni perdute, la difficoltà di ricollocare all'esterno la propria professionalità (Cass. 11.07.2013 n. 17174). Il danno non patrimoniale, nelle sue categorie descrittive di danno biologico, danno morale e danno esistenziale deve, pertanto, avere natura effettiva ed oggettivamente accertabile in giudizio. La sua dimostrazione può essere fornita dal lavoratore con tutti i mezzi offerti dall'ordinamento, anche per presunzioni (Cass. 08.01.2014 n. 172; Cass. 19.04.2012 n. 6110; Cass. 21.03.2012 n. 4479), secondo le regole di cui all'art. 2727 c.c.
Pertanto il Giudice, dalla complessiva valutazione degli elementi fattuali dedotti dal lavoratore potrà risalire all'esistenza del pregiudizio e alla sua entità facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115, comma 2, c.p.c., alle nozioni generali di comune esperienza, secondo il suo prudente apprezzamento (Cass. 08.01.2014 n. 172; Cass. 19.04.2012 n. 6110; Cass. S.U. 22.02.2010 n. 4063). Osservazioni
La pronuncia in esame presenta due profili di diritto di diverso calibro sia con riferimento alla settorialità della materia trattata, sia, di conseguenza, per quanto concerne la rilevanza e la portata giuridica della stessa.
È di tutta evidenza, infatti, come la questione attinente la conservazione della professionalità acquisita dal lavoratore nel contesto della riforma del settore delle telecomunicazioni presenti elementi di maggior interesse solo ove trasposta in un quadro non circoscritto allo specifico ambito della telefonia. In linea generale appare del tutto condivisibile il principio secondo cui la tutela della professionalità acquisita dal dipendente vada garantita non solo nel momento della regolamentazione teorica del passaggio da un rapporto di lavoro ad un altro (nel caso specifico, attraverso tabelle di equiparazione), ma anche nella successiva fase pratica di applicazione della “regola” alla posizione lavorativa considerata. La sentenza in oggetto si mostra quindi coerente con la ratio della L. 29 gennaio del 1992 n. 58 nel momento in cui prevede, a conferma di un costante orientamento giurisprudenziale sul tema (Cass. 01.03.2011 n. 4991; Cass. 30.11.2010 n. 24231; Cass. 11.08.2004 n. 15605; Cass. 08.07.2004 n. 12647), che il giudice possa disapplicare la “regola” quando da un raffronto complessivo e contingente questa risulti non conforme al principio di conservazione della professionalità acquisita ovvero non riscontri corrispondenza fra la categoria di provenienza e il nuovo livello attribuito (Cass. 23.01.2015 n. 1249).
Il secondo aspetto di diritto, vertendo in materia di demansionamento e prova del danno alla professionalità, si mostra di ben più ampio respiro e consente, in linea teorica, un maggior approfondimento giuridico. Come è noto, in corso di rapporto, il lavoratore può essere adibito a mansioni equivalenti a quelle originarie. Per verificare la legittimità di esercizio dello “ius variandi” va accertato, in concreto, se le nuove mansioni siano aderenti alla competenza professionale specifica acquisita dal dipendente e ne garantiscano, al contempo, lo svolgimento e l'accrescimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze, senza che assuma rilievo l'equivalenza formale fra le vecchie e le nuove mansioni (Cass. 03.02.2015 n. 1916; Cass. 04.03.2014 n. 4989). Una volta accertata la non corrispondenza la giurisprudenza è unanime nel riconoscere al prestatore di lavoro il diritto al risarcimento del danno per lesione della professionalità o della dignità professionale ogni qualvolta il datore di lavoro, in violazione dell'art. 2103 c.c., lo adibisca a mansioni inferiori rispetto alle ultime effettivamente svolte.
Tuttavia, lo specifico profilo della pretesa risarcitoria è stato per lungo tempo esposto ad incertezze interpretative e a contrasti giurisprudenziali relativamente sia al contenuto dell'onere della prova sia alla quantificazione del danno.
Le S.U. della Corte di Cassazione hanno tentato di risolvere, prima nel 2006 (Cass. S.U. 24.03.2006 n. 6572) e poi nel 2010 (Cass. S.U. 22.02.2010 n. 4063), le incertezze interpretative, sancendo il principio che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente deriva da demansionamento o dequalificazione – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non possa prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Ma mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento. In tale contesto assume precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno e all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si può, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.
Ferma la necessità di evitare, trattandosi di danno non patrimoniale, ogni duplicazione con altre voci di danno accomunate dalla medesima fonte causale (Cass. 29.09.2014 n. 20473), è stato chiarito – pur con qualche distinguo – che le espressioni danno “esistenziale”, danno “biologico” e danno “morale” non esprimono distinte categorie di danno, né, tantomeno, possono considerarsi l'una sottocategoria dell'altra, trattandosi, piuttosto, di locuzioni meramente descrittive di un'unica categoria di danno che è quella del danno non patrimoniale, identificabile nel danno dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica (Cass. S.U. 11.11.2008 n. 26972).
Sotto il profilo della quantificazione del danno, essa viene per lo più operata con valutazione equitativa, sulla base della retribuzione (Cass. 19.04.2012 n. 6110), del tipo di professionalità colpita, della durata del demansionamento e di ogni altra circostanza rilevante nel caso concreto. Qualora il rapporto di lavoro sia ancora in corso, il giudice, ove dovesse riscontrare anche l'esistenza di un comportamento contrario all'art. 2103 c.c., oltre a sanzionare l'inadempimento datoriale attraverso una pronuncia di condanna al risarcimento del danno patito dal lavoratore, potrebbe altresì condannare in forma specifica il datore di lavoro alla rimozione degli effetti negativi, derivati e derivanti al lavoratore dall'assegnazione a mansioni inferiori, mediante riaffidamento dell'incarico originario o affidamento di incarico ad esso equiparabile. Tale obbligo può essere derogato solo ove il datore di lavoro dimostri l'impossibilità oggettiva di ricollocare il lavoratore nelle mansioni occupate in precedenza, o ad esse equivalenti (Cass. 11.07.2014 n. 16012).
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