Abbandono del posto di lavoro o sospensione del lavoro senza giustificato motivo?
31 Marzo 2017
Massime
Il c.d. abbandono del posto di lavoro, secondo il suo significato letterale, individua il totale distacco dal bene da proteggere e non ricorre quando la persona sia fisicamente reperibile nel luogo ove la prestazione dev'essere svolta.
Non è idoneo a far decorrere il temine breve per l'impugnazione il mero avviso di deposito del provvedimento giudiziale, ma è necessaria la comunicazione del testo integrale della sentenza, che - analogamente a quanto avviene per la notificazione - consente alla parte di avere conoscenza delle ragioni sulle quali la pronuncia si è fondata e di valutarne la correttezza.
La fase di opposizione di cui alla L. n. 92/2012, art. 1, comma 51, non costituisce un grado diverso rispetto alla fase che ha preceduto l'ordinanza, in quanto non si tratta di una revisio prioris istantiae, bensì della mera prosecuzione del giudizio di primo grado in forma ordinaria e non più urgente. Deve pertanto escludersi che in tale fase possa determinarsi un obbligo di astensione o una facoltà della parte di chiedere la ricusazione. Il fatto che entrambe le fasi (sommaria e di opposizione) possano essere svolte dal medesimo magistrato non confligge con il principio di terzietà del giudice e si rivela funzionale all'attuazione del principio del giusto processo per il profilo della sua ragionevole durata.
La parziale compensazione delle spese processuali nel giudizio di primo grado rappresenta un'ipotesi di soccombenza che integra l'attualità dell'interesse a proporre ricorso incidentale. Il caso
Il caso trattato nella sentenza in esame riguarda il licenziamento di un medico dal Centro Cardiologico presso cui lavorava.
Il licenziamento era stato intimato ai sensi dell'art. 11, lettera f) del CCNL applicato, in quanto il datore di lavoro aveva ritenuto che il medico, durante il suo turno, avesse abbandonato il posto di lavoro, poiché non aveva risposto al dispositivo c.d. cercapersone in dotazione.
All'esito della fase sommaria, proposta con ricorso ex art. 1, co. 48, L. n. 92/2012, il Tribunale riteneva il licenziamento illegittimo. L'ordinanza veniva confermata sia all'esito del ricorso in Tribunale, che del reclamo avanti la Corte d'Appello.
In particolare, la Corte d'Appello, ritenuto tempestivo il deposito del reclamo, confermava la sentenza del primo giudice, laddove aveva ritenuto che la condotta addebitata al medico (cioè quella di non aver risposto al cercapersone ove era stato interpellato durante il turno), non configurasse il contestato “abbandono del posto di lavoro” previsto dalla lettera f), art. 11 del CCNL, ma, al più, la “sospensione del lavoro senza giustificato motivo”, cui avrebbe potuto essere applicata, ai sensi dell'art. 11, lettera b) del C.C.N.L., una sanzione conservativa.
Per “abbandono del posto di lavoro”, infatti, si sarebbe dovuta intendere la condotta del medico che lascia fisicamente la struttura dove lavora, uscendo all'esterno e diventando irreperibile nell'ambito del turno assegnato. Ciò, come confermato dalla Corte di merito, non sarebbe avvenuto nel caso di specie, in quanto, la mattina seguente, il dott. F.G. aveva passato le consegne al medico del turno diurno oltre al fatto, accertato, che durante la notte il medico non era stato cercato presso il locale messo a disposizione dei medici di turno, ove in altra occasione era stato reperito.
Il datore di lavoro aveva allora deciso di proporre ricorso in Cassazione sulla base di sei diversi motivi, relativi a profili sia processuali che di merito.
Si costituiva il dott. F.G., chiedeva il rigetto dell'avversario ricorso e proponeva ricorso incidentale per un solo motivo. Preliminarmente, infatti, il medico rilevava l'inammissibilità dell'appello avverso la sentenza di primo grado, per essere stato il ricorso proposto oltre il termine di 30 giorni dalla comunicazione dell'avviso di deposito della sentenza ad opera della Cancelleria.
La Cassazione disponeva la riunione dei due ricorsi ex art. 335 c.p.c., in quanto proposti in riforma della medesima sentenza e li rigettava entrambi con la compensazione delle spese tra le parti in ragione della reciproca soccombenza. Le questioni
La sentenza in esame - oltre a confermare, quanto al profilo processuale, l'orientamento in base al quale le fasi (sommaria e di opposizione) di cui al procedimento previsto dalla L. n. 92/2012, art. 1, possono essere svolte dal medesimo magistrato, poiché ciò non confligge con il principio di terzietà del giudice e si rivela funzionale all'attuazione del principio del giusto processo per il profilo della sua ragionevole durata (cfr. Corte Cost., ordinanza 5 aprile 2016, n. 72, ordinanza 22 dicembre 2015, n. 275 e sentenza 13 maggio 2015, n. 78; Cass.sez. lav., 16 aprile 2015, n. 7782) - affronta due questioni di interesse.
Le soluzioni giuridiche
I Giudici della Suprema Corte, hanno ritenuto opportuno esaminare, innanzitutto, la questione preliminare di rito sollevata con ricorso incidentale, a prescindere dal fatto che detto ricorso incidentale fosse stato qualificato dal dott. F.G. come “condizionato”.
Nel caso di specie, infatti, la Cassazione non ha applicato il principio, espresso ex multis in Cass. civ., sez. I, 6 marzo 2015, n. 4619, secondo il quale il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, riguardante questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito sulle quali sia già intervenuta la decisione gravata, va esaminato dalla Cassazione solo nell'ipotesi di fondatezza del ricorso principale, che consentirebbe di far ritenere sussistente anche l'attualità dell'interesse ad agire in via incidentale.
Ciò, in quanto la Corte d'Appello aveva compensato le spese processuali tra le parti, rendendo il medico parzialmente soccombente e l'accoglimento del ricorso incidentale avrebbe determinato anche l'eliminazione del capo di sentenza sfavorevole e si sarebbe, perciò, dovuto procedere ad una rideterminazione delle spese in ragione dell'esito complessivo della lite (cfr. Cass. civ., sez. I, 18 marzo 2014, n. 6259 e Cass. sez. lav., 1 giugno 2016, n. 11423).
Il ricorso incidentale è stato, però, respinto.
Il termine breve per l'impugnazione in Cassazione avverso la sentenza che decide il reclamo, infatti, a giudizio della Suprema Corte (così come in Cass. sez. lav., n. 10017/2016 e Cass. sez. lav., n. 17251/2016) decorre dal momento in cui viene depositato il testo integrale della sentenza, che consente alla parte di avere conoscenza dei motivi sui quali la pronuncia è fondata e di valutarne la correttezza.
Per tale ragione, pur in presenza di un rito speciale, sarebbe applicabile la disciplina di cui all'art. 45, co. 2, disp. att. c.p.c. come modificato dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 e l'art. 133 c.p.c., come modificato dal D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla Legge 11 agosto 2014, n. 114.
Inoltre, poiché la comunicazione fa decorrere il medesimo termine previsto per la notificazione, sarebbe del tutto illogica una disciplina che equiparasse alla conoscenza della sentenza che la parte acquisisce con la notificazione, la conoscenza del mero deposito del provvedimento e del suo dispositivo (Cass. sez. lav., n. 10017/2001 e Cass. sez. lav., n. 17251/2016).
Passando poi ad esaminare il merito della causa, va detto che il terzo motivo di ricorso, relativo all'interpretazione della nozione di “abbandono del posto di lavoro”, è stato respinto in ragione del fatto che parte ricorrente non aveva indicato il CCNL di riferimento, né lo aveva allegato al ricorso, né aveva indicato la collocazione in atti, né aveva trascritto la disposizione la cui corretta interpretazione veniva invocata.
La Corte ha ritenuto, perciò, che fossero state violate le prescrizioni degli artt. 366, co. 1, n. 6, e 369, co. 2, n. 4, c.p.c., che impongono il requisito della specificità anche con riferimento alle censure che abbiano ad oggetto il contratto collettivo di diritto comune (Cass. S.U., n. 20075/2010, conf. Cass. sez. lav., n. 4350/2015).
La Corte ha, comunque, indirettamente affrontato la nozione di “abbandono del posto di lavoro”, richiamandosi ad una precedente pronuncia (la sentenza n. 15441/2016), che faceva riferimento ad un diverso CCNL, quello degli Istituti di Vigilanza privata del 2/5/2006. In quella motivazione si era affermato il principio per cui “l'abbandono, secondo il suo significato letterale, individua il totale distacco dal bene da proteggere, totale distacco che non ricorre quando la persona sia fisicamente reperibile nel luogo ove la prestazione deve essere svolta (…)”.
La Suprema Corte ha, in tal modo, avvalorato la nozione di “abbandono del posto di lavoro” che era stata adottata dalla Corte territoriale, respingendo l'interpretazione proposta dal datore di lavoro, la quale era nel senso di non mettere in correlazione l'abbandono del posto di lavoro con l'ubicazione fisica della persona, quanto piuttosto con il pieno assolvimento dell'obbligo di immediata reperibilità e con la risposta al cercapersone in qualunque momento.
Si legge, peraltro, in sentenza che sarebbe stato onere del datore di lavoro dimostrare l'allontanamento del dipendente, in quanto chiedere al medico di dar prova della propria presenza in struttura (secondo quanto preteso dal Centro Cardiologico ricorrente) avrebbe “sollecitato in tal senso un'inammissibile inversione dell'onere della prova”.
In ogni caso, a giudizio della Corte, la condotta del medico non sarebbe stata di gravità tale da determinare il recesso per giusta causa, anche perché non era risultato che in altre occasioni, quando il medico non aveva risposto al cercapersone, ci fossero state delle conseguenze disciplinari. Osservazioni
Tra le questioni affrontate nella sentenza i commento, merita una riflessione quella relativa alla nozione di “abbandono del posto di lavoro”, avvalorata dalle Suprema Corte nella sentenza in esame.
Ai fini della individuazione della condotta disciplinarmente rilevante, infatti, a giudizio della Suprema Corte, parte ricorrente avrebbe dovuto allegare il CCNL di riferimento, in relazione alle (solo) richiamate lett. f) e b), art. 11 , rispettivamente “abbandono del posto di lavoro” e “sospensione del lavoro senza giustificato motivo”.
In mancanza, la Corte, ritenuto di non potersi pronunciare sulla nozione di “abbandono del posto di lavoro”, di cui alla specifica disciplina contrattuale applicabile al personale medico dipendente, ha deciso di mutuare il significato della suddetta nozione da una precedente pronuncia che, in merito all'art. 140 del CCNL Istituti di Vigilanza, aveva ritenuto integrato l'abbandono del posto di lavoro solo in presenza di un “totale distacco dal bene da proteggere” (Cass. sez. lav., n. 15441/2016).
Così facendo, la Suprema Corte ha indirettamente confermato l'interpretazione della Corte d'Appello, secondo cui, nella fattispecie, non si sarebbe potuto parlare di “abbandono del posto di lavoro”, atteso che il giorno seguente il medico aveva passato le consegne al Collega del turno diurno. Era, inoltre, rimasta indimostrata la circostanza che il medico avesse abbandonato la struttura.
Sia la Corte di merito, che quella di legittimità, hanno cioè confermato che l”abbandono” del posto di lavoro sia configurabile solo in caso di distacco definitivo dalla struttura.
In ciò, l'interpretazione adottata riprende l'orientamento in base al quale la Suprema Corte aveva distinto l'abbandono del posto di lavoro rispetto all'allontanamento dallo stesso, proprio in ragione della definitività del primo rispetto al secondo (cfr. Cass. sez. lav., n. 10015/2016).
L'interpretazione proposta, tuttavia, desta alcune perplessità dal momento che la richiamata decisione riguardava un settore (la Vigilanza Privata) dove la stessa prestazione lavorativa sostanzialmente coincide con la permanenza nel luogo di lavoro; in altri termini, solo il totale distacco dal bene da proteggere, finisce per rappresentare un abbandono del posto di lavoro.
Nel caso del medico di turno, invece, la attesa la particolare natura prestazione lavorativa, l'abbandono del posto di lavoro potrebbe assumere anche forme diverse rispetto a quella del definitivo abbandono della struttura durante il turno.
Tant'è che, l'irreperibilità da parte dei medici può addirittura integrare dei profili di rilevanza penale – con particolare riferimento all'art. 340 c.p., Interruzione del servizio - nel caso in cui l'interruzione della prestazione, per durata ed entità, sia in grado di incidere sulla regolarità dell'ufficio o servizio; e ciò a prescindere dalla ubicazione fisica della persona.
In tal senso è stata, ad esempio, affermata la responsabilità penale di un medico dell'Asl il quale, resosi irreperibile per l'intera giornata, aveva provocato con la sua assenza la necessità della sostituzione con un altro medico addetto ad altro servizio, che per conseguenza interrompeva, per la durata di due ore, la relativa attività, con evidente disservizio per i pazienti (Cass. pen., sez. VI, 08 aprile 2003, n. 33062).
In ogni caso, va tenuto presente che la giusta causa di licenziamento è una nozione legale e, dunque, il Giudice - indipendentemente dalle tipizzazioni effettuate dal contratto collettivo – potrà ritenerla integrata in ogni caso di inadempimento, tale da non consentire la prosecuzione del rapporto (Cass. sez. lav., 30 marzo 2012, n. 5115, con nota di M. Scofferi, Dir. Giust. Online, fasc. 0, pag. 317).
La sentenza in commento, dunque, non ci pare possa portare ad escludere incondizionatamente la possibilità di sanzionare il lavoratore con il licenziamento qualora si rendesse irreperibile, nel caso in cui il provvedimento sia proporzionato alla gravità della condotta.
E, in tale ottica, dovrebbe essere considerato il comportamento del dipendente nel suo complesso, attraverso la valutazione di aspetti quali l'elemento intenzionale, il grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, le precedenti modalità di attuazione del rapporto (e anche la sua durata ed l'assenza di precedenti sanzioni), la sussistenza e l'entità dell'eventuale danno derivante dal comportamento del medico sanzionato (cfr. es., Cass. pen. 33062/2003 cit., in cui era venuto in considerazione il disservizio per i pazienti), nonché la particolare natura e tipologia del rapporto (gli indici sono mutuati da Cass. sez. lav., 22 giugno 2009, n. 14586, in cui un operaio veniva licenziato per aver momentaneamente abbandonato la postazione di lavoro, pur essendo rimasto nella struttura aziendale). |