Parasubordinazione e procedure concorsuali
31 Maggio 2016
Premesse
Fonte: www.ilfallimentarista.it
Non vi è dubbio, anche alla luce della recente riforma, che ogni attività umana, economicamente rilevante, può essere oggetto di rapporto di lavoro subordinato, ovvero autonomo, a seconda delle concrete modalità del suo svolgimento. L'elemento tipico che contraddistingue il primo è costituito dalla subordinazione, intesa come vincolo di natura personale che assoggetta il prestatore d'opera, limitandone la libertà, al potere direttivo – che può assumere aspetti diversi, in relazione alla natura delle mansioni ed alle condizioni in cui queste si svolgono – del datore di lavoro e dei collaboratori di questi, dai quali gerarchicamente dipende; potere questo che deve inerire alle concrete modalità di svolgimento dell'attività lavorativa e non deve risolversi in direttive di carattere generale, volte a delineare l'organizzazione o il funzionamento dell'impresa. Per effetto dell'art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale, di natura autonoma – espressamente richiamati dall'art. 52, comma 2 – ricadono nell'art. 409, n. 3, c.p.c., qualora le prestazioni rese siano gestite autonomamente dal collaboratore, nel rispetto del coordinamento con l'organizzazione imprenditoriale del committente, in modo del tutto indipendente dal tempo impiegato per l'esecuzione, senza alcuna forma di etero-organizzazione che incida sulle modalità di tempo e luogo di svolgimento (art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015) (Bubola, Venturi, Collaborazioni, partita Iva, associazione in partecipazione, in Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs Act, a cura di Tiraboschi, Milano, 2016, 236-260; Tiraboschi, in Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs Act, cit. 261-268; Razzolini, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, in Commentario breve alla riforma “Jobs Act” a cura di Zilio Grandi-Biasi, Padova, 2016, 557,581; Perulli, Costanti e varianti in tema di subordinazione e autonomia, in LD, n. 2/2015, 271; Failla-Cassaneti, La riforma delle collaborazioni e dell'associazione in partecipazione, in Guida lav., 2015, 27, 9).
Le collaborazioni coordinate e continuative hanno ricevuto nell'attuale sistema istitutivo dei contratti di lavoro, una presenza centrale in forza delle specifiche deroghe, previste dall'art. 2, comma 2, rispetto, anche, alle ipotesi di etero-organizzazione, nonché per la stessa utilizzabilità, in conseguenza della voluta ed operata abrogazione del lavoro a progetto, utilizzato per lo più allo scopo di ricondurre le collaborazioni coordinate e continuative nel suo ambito, nell'intento di eludere la normativa regolatoria del rapporto di lavoro subordinato ancorando il progetto ad un risultato specifico. In conseguenza della riforma è divenuto, pertanto, legittimo il ricorso alla collaborazione coordinata e continuativa, che resta legata ai criteri fissati dall'art. 409, n. 3, c.p.c., secondo cui il limite posto alle collaborazioni è che le stesse non attengano a mansioni tipicamente inerenti al lavoro subordinato, essendo consentiti i “rapporti di collaborazione aventi per oggetto la prestazione di attività svolte senza vincolo di subordinazione a favore di un determinato soggetto nel quadro di un rapporto unitario e continuativo senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica prestabilita, semprechè gli Uffici o le collaborazioni non rientrino nei compiti istituzionali compresi nell'attività di lavoro dipendente”.
L'art. 52, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2015, ha abrogato il lavoro a progetto, disciplinato dagli artt. 61-69 del D.Lgs. n. 276/2003, e a far data dal 25 giugno 2015, oltre a non essere più consentita la stipulazione di ulteriori contratti, è stata impedita la prosecuzione, mediante proroga, di quelli in scadenza, essendo stata mantenuta vigente, transitoriamente, la disciplina dettata dai richiamati articoli, esclusivamente per i rapporti in corso.
Il legislatore delegato ha inteso, pertanto, estendere l'area della subordinazione, applicando, appunto, dal 1° gennaio 2016, le norme sul lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che avessero contestualmente alcune caratteristiche identificative delle prestazioni di lavoro dedotte nel contratto. Non a caso il “Codice dei contratti”, con l'art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015 - rubricato “Collaborazioni organizzate dal committente”- ha introdotto una norma volta a provocare l'espansione dell'area della subordinazione alle collaborazioni coordinate e continuative individuate attraverso precise caratteristiche. L'intento risponde all'esigenza di tutelare il lavoro subordinato, a tempo indeterminato, nella prospettiva di una crescita accelerata, in conseguenza dell'esonero contributivo, introdotto dall'art. 1, comma 118, L. n. 190/2014, per i rapporti di lavoro a tutele crescenti, di cui al D.Lgs. n. 23/2015 (cfr. Minervini A., Il lavoro a tutele crescenti tra l'autonomia individuale e quella collettiva, in Arg.dir.lav., 2015, 872).
Non sono scomparse, però, le collaborazioni coordinate e continuative, ma, al contrario, sono state riproposte, con le analoghe difficoltà operative, con le quali si erano diffuse prima dell'intervento operato dal D.Lgs. n. 276/2003, sol che si consideri che il comma 2 dell'art. 52 del D.Lgs. n. 81/2015, testualmente afferma: “resta salvo quanto disposto dall'art. 409 del codice di procedura civile”, confermando la portata della disposizione normativa, che ricomprende nel novero delle controversie individuali di lavoro quelle che scaturiscono da “rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”.
Il committente può, però, scegliere di ricondurre la prestazione lavorativa, resa a proprio favore, nelle forme della collaborazione coordinata e continuativa (art. 409, n. 3, c.p.c.), ovvero della prestazione d'opera (art. 2222 c.c.), a seconda delle caratteristiche obiettive dell'attività svolta. La collaborazione coordinata e continuativa risulta, pertanto, ora attuabile a tempo indeterminato e non più, soltanto, a termine, e può essere instaurata per soddisfare un interesse del committente. La forma del contratto di collaborazione torna ad essere libera, dal momento che non vi è l'obbligo di individuare alcunchè in un atto a forma scritta, né, tantomeno, il risultato, parziale o finale e, ancora, un compenso minimo in base a parametri oggettivi di riferimento. Unico limite al libero esercizio risiede nella previsione legislativa (art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015) che estende le norme sul lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione personali e continuativi, le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente con riferimento ai tempi ed al luogo di lavoro. L'esigenza della necessaria presenza dei richiamati requisiti appare essere imprescindibile, atteso che l'assenza ne determina la illegittimità e ne consente la trasformazione.
Le difficoltà di inquadramento del tema risiedono nella possibilità o meno di riconoscere, in sede di ammissione al passivo, la collocazione privilegiata del corrispettivo pattuito anche quando la collaborazione avvenga con caratteristiche temporali ristrette di tempo e, dunque, risulti avere una durata scarsamente significativa, pur se ripetuta, in ragione della difficoltà, in siffatta ipotesi, di poter riconoscere al relativo credito il privilegio generale di cui all'art. 2751-bis c.c., determinando l'opzione contraria una evidente disparità di trattamento, con riferimento ai rapporti di cui all'art. 409, n. 3, c.p.c., attesa la impossibilità di ritenere chirografario il credito stesso. Per poter dare una risposta coerente all'interrogativo, e trarre possibili conclusioni al riguardo, è senz'altro indispensabile esaminare, seppur in sintesi, gli elementi che consentono, nell'ambito della diversità dei modelli organizzativi, la individuazione della subordinazione, ovvero dell'autonomia o, ancora, della parasubordinazione, e se, nell'ambito di quest'ultima, la durata e la discontinuità possano incidere sulla collocazione del credito. La subordinazione quale vincolo di soggezione
Il problema di fondo è l'individuazione della fonte di riferimento da cui dedurre la subordinazione e degli elementi da cui ricavare l'esistenza di un vincolo di soggezione del lavoratore al potere giuridico, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro.
E' noto che nelle decisioni della Suprema Corte (Cass., 17 aprile 1990, n. 3170; Cass., 13 marzo 1990, n. 2024; Cass., 17 aprile 1989, n. 1821) è ricorrente l'affermazione secondo cui, ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, non si può prescindere dalla preventiva ricerca della volontà delle parti, giacchè il principio secondo cui, ai fini della distinzione in questione, è necessario avere riguardo all'effettivo contenuto del rapporto stesso, indipendentemente dal nomen juris usato, non implica che la dichiarazione di volontà di queste in ordine alla fissazione di tale contenuto, o di un elemento qualificante per la distinzione medesima, debba essere stralciato nell'interpretazione del precetto contrattuale, e che non debba tenersi conto del relativo reciproco affidamento delle parti stesse e della concreta disciplina giuridica del rapporto, quale voluta dalle medesime, nell'esercizio della loro autonomia contrattuale.
Nelle stesse decisioni si precisa che, la pur preliminare indagine sulla volontà negoziale non può essere disgiunta da una verifica dei relativi risultati, con riguardo alle caratteristiche e alle modalità concretamente assunte dalla prestazione stessa nel corso del suo svolgimento. Al tempo stesso, ove le parti, nel regolare i loro reciproci interessi, abbiano dichiarato di voler escludere l'elemento della subordinazione, non è possibile, specie nei casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili con l'uno e con l'altro tipo di rapporto, pervenire ad una diversa qualificazione, se non si dimostra che, in concreto, la subordinazione si sia, di fatto, realizzata nello svolgimento del rapporto medesimo (Nogler, Osservazioni su accertamento e qualificazione del rapporto di lavoro, in Giur.civ., 1992, I, 105).
Se è così, per stabilire quando, in concreto, un determinato rapporto sia riconducibile allo schema del lavoro subordinato, occorre far riferimento al suo effettivo contenuto ed alle modalità di espletamento, che devono essere caratterizzate della soggezione del lavoratore al potere giuridico, organizzativo e direttivo del datore.
Qualora non sia immediatamente rilevabile, nel suo concreto atteggiarsi, l'elemento della subordinazione, la qualificazione del rapporto può essere determinata con l'ausilio di criteri sussidiari, che possono indicarsi:
Altri elementi, invece, quali l'osservanza di un orario lavorativo, la continuità della prestazione, la predeterminazione della retribuzione, assumono un rilievo soltanto complementare, potendo essere presenti anche nel rapporto di lavoro autonomo. Sono questi i criteri distintivi utilizzati dalla giurisprudenza – e da utilizzare – per stabilire la concreta appartenenza all'una o all'altra categoria, indipendentemente dal nomen juris attribuito dalle parti, di quelle attività che, in astratto, possono costituire oggetto sia di un rapporto di lavoro subordinato che autonomo.
Al di là delle ipotesi sin qui considerate, ai fini dell'indagine che intendiamo svolgere, ve ne sono, però, altre derivanti dai diversi modelli organizzativi per i quali non si pone alcun problema, essendo indubitabile, per questi, che debbono e non possono non valere le medesime regole che hanno indotto il legislatore, attraverso la regolamentazione dell'art. 2751-bis c.c., ad offrire una particolare tutela ai crediti di lavoro prestato indipendentemente dalla natura del rapporto o dalla tipologia contrattuale.
Le profonde trasformazioni intervenute nell'organizzazione del lavoro e che hanno trovato una loro collocazione nella recente disciplina, che ha rivisitato il relativo “mercato”, hanno fatto emergere una pluralità di figure in cui i tradizionali indici di autonomia si intersecano con quelli propri della subordinazione e determinano perplessità in ordine alla collocazione della fattispecie in categorie proprie rendendole, tuttavia, omogenee ai fini del trattamento, nell'ambito del concorso, alla medesima tutela assicurata ai rapporti di lavoro subordinato, ovvero attraverso la rivendicazione di essa, quanto meno, nell'ambito dell'art. 2751-bis, n. 2, c.c. e, forse, anche di quella assicurata con il n. 1 della medesima norma.
La tesi illustrata, anche se ancora troppo generica, tuttavia, fornisce proficui spunti per un approfondimento del problema della qualificazione del rapporto, laddove viene posto in rilievo che spesso si presenta, quel tratto comune, l'essere il prestatore un “collaboratore” nell'impresa del soggetto cui presta la sua opera (art. 2094 c.c.). Peraltro, allo scopo di chiarire il valore di tale rilievo, è opportuno ricapitolare quanto la dottrina ha precisato in tema di collaborazione del prestatore di lavoro, atteso che, allorchè si afferma che la collaborazione costituisce elemento essenziale del rapporto di lavoro, ci si riferisce a quel dovere, previsto dall'art. 2094 c.c., secondo cui è “prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione e collaborazione nella impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore” (cfr. Napoletano, Il lavoro subordinato, Milano, 1966, 25; Arangurein, La qualifica nel contratto di lavoro, Milano, 1961, 21; Rabaglietti, Contratto con comunione di scopo, in Dir.lav., 1961, I, 149; Barassi, Diritto del lavoro, I, Milano, 1957, 352. L'Autore ha usato l'espressione “subordinazione collaborativa” al fine di distinguerla dalla collaborazione pure e semplice; per il periodo corporativo cfr. Venturi, Il diritto fascista del lavoro, Torino, 1938, 83 ss.). La collaborazione
Occorre, peraltro, stabilire se la collaborazione, di cui all'art. art. 2094 c.c., coincida con il comportamento diligente del lavoratore, oppure se essa vada considerata come qualcosa di ulteriore rispetto alla normale diligenza richiesta per lo svolgimento del rapporto. E', difatti, evidente che solo accettando la seconda ipotesi è possibile conferire alla nozione di “collaborazione” una rilevanza tale da farla apparire quale autonomo e decisivo criterio di qualificazione del rapporto di lavoro (cfr. D'eufemia, Nuovo trattato di diritto del lavoro, Padova, 1971, II, 248).
Tale concetto di “collaborazione”, distinto da quello di “subordinazione” intesa quale elemento pregnante del contratto di lavoro, è apparso equivoco, in quanto un dovere di collaborazione consistente in un che di diverso dall'obbligo di diligenza non sembra trovare spazio nel nostro ordinamento giuridico. Va, inoltre, rilevato che l'elemento della collaborazione, così intesa, se in ipotesi potrebbe trovare rilevanza nell'ambito dell'impresa, viceversa incontra maggiori difficoltà ove ci si riferisca a prestazioni di lavoro svolte fuori da tale ambito.
Pertanto, scarso fondamento risulta avere, al riguardo, la teoria del contratto di lavoro come contratto di collaborazione concepito quale tertium genus rispetto alla configurazione dello stesso come contratto di scambio (cfr. Corrado, Trattato di diritto del lavoro, vol. II, Torino, 1966, 350 ss.; Santoro Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1975, 127 ss.; Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, Milano, 1969, 307 ss.; Spaguolo Vigorita, Subordinazione e diritto del lavoro, Napoli, 1967, 58).
Le conclusioni cui si è pervenuti sono apparse meritevoli di attenzione ai fini dell'applicazione dell'art. 409 c.p.c., in forza del quale si è inteso regolare le controversie relative ai rapporti di lavoro autonomo, caratterizzate da una certa continuità e coordinamento (Andrioli, Le controversie in materia di lavoro, Bologna, 1974, 45 ss.).
Quali, dunque, i caratteri novativi dell'art. 409 c.p.c., come modificato dalla L. 11 agosto 1973, n. 533? Dall'articolo in esame si evince che il legislatore ha inteso fissare i criteri di individuazione dei rapporti, cui applicare il nuovo rito, risolvendo antiche questioni ed allargando l'ambito della nuova disciplina, in relazione alle trasformazioni intervenute nella realtà sociale. Tale articolo riassume e regola tutta una serie di rapporti che hanno, quale comune denominatore, il lavoro in ogni sua espressione ed ambito d'esercizio, “anche se non inerente all'esercizio di un'impresa”: precisazione questa di notevole rilievo, in quanto ha evitato che fossero collocati fuori dall'applicazione della legge quei rapporti in cui il datore di lavoro non sia un imprenditore.
Tant'è che sono comprese nell'articolo in esame le controversie inerenti un qualsiasi rapporto di lavoro, indipendentemente da finalità produttive o meno dell'organizzazione in cui è inserito il lavoratore e, spesso, anche quelle controversie inerenti a rapporti svolgentisi al di fuori di una vera organizzazione aziendale (in tal senso si veda Ghezzi, I rapporti di diritto privato soggetti al nuovo rito, Firenze, 2 febbraio 1974, 7-8; Mazziotti (Montesano), Le controversie del lavoro e della sicurezza sociale, Commento alla legge 11 agosto 1973, n.533, Napoli, 1974, 8).
Appare opportuno, al riguardo, premettere che sia i lavori preparatori, che le discussioni in sede dottrinale sulla riforma del processo del lavoro, confermano l'esigenza di estendere il procedimento relativo alle controversie di lavoro a quei rapporti interaziendali, che, in passato, potevano essere regolati, in quanto attratti nella disciplina processuale, solo, però, se disciplinati tramite accordi economici collettivi.
Tali nuovi principi e, in particolare, il venire meno del richiamo alla disciplina dei contratti collettivi e norme equiparate, ha consentito, dunque, l'estensione del nuovo rito a rapporti non soggetti, né assoggettabili, a regolamentazione collettiva, indipendentemente dall'inerenza o meno degli stessi all'esercizio di una impresa.
L'art. 409 c.p.c., nella sua nuova formulazione, al n. 3 attira, inoltre, sotto la disciplina processuale delle controversie individuali di lavoro, tutte quelle concernenti i rapporti di “collaborazione che si concretino in una prestazione d'opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”, ed in ciò risiede, senza dubbio, l'innovazione maggiore apportata dall'articolo in esame rispetto al precedente art. 429 c.p.c., oggi abrogato.
L'applicabilità del n. 3 dell'art. 409 c.p.c. ai rapporti innominati di “collaborazione” comporta, preliminarmente, la conduzione di una indagine analitica circa l'esistenza e consistenza dei requisiti (collaborazione, continuità) dalla norma richiesti per la sua applicabilità.
Per i detti motivi, l'art. 409 c.p.c., anche se per la sua collocazione è una norma di diritto processuale, più verosimilmente non per questo perde il carattere, al tempo stesso, di norma di diritto sostanziale. Anzi, senz'altro, tale rimane per il suo contenuto; tant'è che il giudice – ai fini della sua applicabilità al caso concreto – è indotto a svolgere un accertamento preliminare di quei requisiti caratteristici propri dei rapporti da tale norma disciplinati, ma che hanno il loro substrato nei canoni del diritto sostanziale.
Il riferimento al concetto di collaborazioneinteso in senso lessicale come contributo, partecipazione, cooperazione, ribadisce la necessaria sussistenza di un legame tra prestazione d'opera autonoma ed imprenditore. Ciò prova che il legislatore ha avuto riguardo a quei lavoratori autonomi i quali, pur se non inseriti nell'organizzazione aziendale, ad essa tuttavia partecipano in una posizione, in un certo senso, assimilabile a quella del lavoratore subordinato, giacchè anche essi svolgono un lavoro continuativo per finalità che sono proprie dell'impresa, contribuendo in tal modo alla realizzazione degli scopi aziendali.
Ai fini dell'applicabilità del rito previsto per le controversie di lavoro, debbono considerarsi compresi, nell'ipotesi di cui al n. 3 dell'art. 409 c.p.c., quei rapporti di collaborazione commerciale nei quali la continuatività dell'opera – intesa in senso affatto diverso che nel rapporto di lavoro subordinato – sia riscontrabile nel fatto che il rapporto non si esaurisce con il compimento di una o più prestazioni occasionali, ed individuate, trattandosi di una serie di prestazioni considerate dalle parti nel loro complesso e nella prospettiva del loro ripetersi durante il rapporto, in modo da costituire un'unica attività di collaborazione (cfr. Ghezzi, I rapporti di diritto privato soggetti al nuovo rito del lavoro, in Riv.giur.lav, 1974-1, 91; Andrioli (Proto-Pisano-Pezzano-Barone), Le controversie in materia di lavoro, cit., 43 ss.; Angiello, Considerazioni sull'art. 409 n.3 c.p.c., in Dir.lav., 1974-1, 293). La prestazione personale
Maggiormente delicata è l'indagine ermeneutica sul carattere della prevalenza della prestazione personale. Evidentemente, il legislatore, nel porre l'accento sul carattere prevalentemente personale, ha voluto tutelare anche quel lavoratore che, oltre a predisporre la propria attività, si avvale, nello svolgimento di essa, dell'attività di altra persona, purchè continuativa e diretta alla realizzazione delle finalità proprie dell'impresa. La prevalenza dell'impegno personale del soggetto non sembra, dunque, essere esclusa dal fatto che questo si avvalga, nell'esercizio e svolgimento dell'attività da lui prestata, di altri. E' evidente, che in casi del genere, attraverso una analisi da svolgersi caso per caso, dovrà rintracciarsi la prevalenza, o meno, del suo impegno personale, e ciò dovrà essere valutato non sulla base di criteri astratti, ma in concreto, ovvero in relazione all'attitudine che ha la prestazione di opera effettuata dal lavoratore a realizzare la necessaria collaborazione con l'imprenditore.
Sotto tale aspetto innovativo l'art. 409, n. 3, c.p.c. sembra essere indiscutibilmente – al di là della sua specifica collocazione – norma di diritto sostanziale.
Non rimane, dunque, che esaminare l'ultimo dei quattro requisiti richiesti per l'applicabilità dell'art. 409, n. 3: la continuità. Per collaborazione continuativa deve intendersi non una partecipazione meramente occasionale o episodica, ma la reiterazione di determinate prestazioni concatenate nel loro complesso ai fini dell'impresa. Quanto detto ha incontrato l'adesione della dottrina prevalente, ma purtroppo è generico. Difatti il legislatore, non specificando gli opportuni criteri distintivi della continuità della collaborazione, ha finito col concedere all'interprete ampi spazi valutativi, con rischi non indifferenti.
Viene, difatti, spontaneo chiedersi: quando un rapporto di collaborazione deve e può ritenersi continuativo? Qual è il periodo di durata apprezzabile, perché si possa parlare di collaborazione continuativa? E' evidente che tali interrogativi, non potendo trovare univoca soluzione nell'ambito di uno schema rigido, adattabile in linea generale, dovranno essere risolti di volta in volta, dall'interprete, attraverso l'adozione di criteri valutativi diversi, a seconda della differente realtà effettuale, risultante dalla fattispecie concreta sottoposta al suo esame.
E' necessario, dunque, che la prestazione sia finalizzata non occasionalmente, ma continuativamente, all'impresa; tale requisito potrà sussistere ancorchè il lavoratore svolga la sua attività in forma autonoma e non subordinata, anche quindi in quei casi in cui l'imprenditore non sia in grado di esercitare il suo potere direttivo per conformare direttamente la prestazione alla realizzazione dei fini della sua organizzazione imprenditoriale (Cfr. Perone, Il nuovo processo del lavoro, Padova, 1975, 34).
Sulla base di quanto sin qui evidenziato si comprende che elemento informatore dei vari rapporti accomunati nell'unico contesto del n. 3 dell'art. 409 c.p.c. è il concetto di parasubordinazione (Mazziotti, Le controversie del lavoro e della sicurezza sociale, cit. 4, ss.) o soggezione socio- economica, che si riscontra in tutti i casi nei quali viene prestato il lavoro senza il prevalente ausilio di un capitale proprio. Caratteristica essenziale di tali innominati “altri rapporti” è, dunque, la collaborazione coordinata, intendendosi come tale quella continuativa e prevalentemente personale.
Ora, rapporti di questo tipo sussistono tutte le volte che un soggetto, anche se non inserito nella struttura organizzativa dell'impresa altrui, mantenendo una propria posizione di autonomia, quantomeno in ordine ai poteri di autorganizzazione, pur tuttavia viene ad adeguare la propria attività, di carattere prevalentemente personale, al raggiungimento del fine dell'impresa. Il legislatore ha usato il termine di collaborazione, unito a quelli di continuità e di attività prevalentemente personale, per porre in evidenza la stretta e necessaria correlazione intercorrente fra tali termini; onde di collaborazione si può parlare solo in relazione ad una attività che sia, al tempo stesso, coordinata e continuata e tale appare indiscutibilmente quella svolta da coloro che sono chiamati a partecipare all'attività di impresa per il raggiungimento degli obiettivi prefissati, senza che si possa fare una concreta ed effettiva distinzione con riferimento alla collaborazione resa dal lavoratore subordinato. L'applicabilità dell'art. 409, n. 3 c.p.c. potrebbe essere esclusa solo ove si riuscisse a dimostrare che il soggetto non abbia prestato, in realtà, un'attività di collaborazione.
La ristrutturazione sistemica del mercato del lavoro
L'operata rivisitazione della pregressa disciplina impone la necessità di verificare se, ed in quale misura, la ristrutturazione sistemica del mercato del lavoro e la prevista possibilità, per le parti, di instaurare rapporti di lavoro stabili, ed il contrastato uso improprio e strumentale dei sistemi di flessibilità, progressivamente introdotti nel nostro ordinamento, con riguardo alle diverse tipologie contrattuali, risultino essere coerenti con le nuove regole dettate per la risoluzione della crisi dell'impresa o la liquidazione di essa e se sia ancora giustificata la previsione di una diversa tutela riferita ai rapporti parasubordinati instaurati dall'imprenditore.
Il legislatore, difatti, nell'attuare la riforma delle procedure concorsuali, ha avvertito la necessità di un adeguamento del nuovo sistema ad una prospettiva di recupero delle capacità produttive dell'impresa, sul presupposto che in questa confluiscono oggi interessi economici e sociali ben più ampi, rispetto alla diversa e più ristretta concezione data, dal legislatore del 1942, al medesimo fenomeno, tanto che ha inteso, per quanto possibile, privilegiare il risanamento o, comunque, la conservazione.
Nella stessa relazione illustrativa, difatti, del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, viene sottolineata l'incapacità, della precedente disciplina, in quanto ispirata “… ad una finalità essenzialmente liquidatoria dell'impresa insolvente ed una tutela accentuata del diritto del creditori”, di prendere atto della nuova realtà per rendere le procedure concorsuali maggiormente rispondenti all'attuale esigenza di consentire la sopravvivenza dei complessi aziendali, ove risanabili o recuperabili, senza con ciò abbandonare e tradire l'originario e principale scopo di tali procedure, quello di garantire la tutela degli interessi dei creditori concorrenti.
Il sistema che nasce dal confronto delle disposizioni che caratterizzano la riforma delle procedure concorsuali e del mercato del lavoro appare essere segnato, in modo piuttosto evidente, da una totale assenza di tratti comuni per una regolamentazione appropriata:
Ove intendessimo, a distanza di poco tempo dall'entrata in vigore delle relative discipline normative, che hanno interamente ridisegnato il sistema delle procedure concorsuali e del mercato di lavoro, analizzare se e quali modifiche avrebbero dovuto essere elaborate, ci troveremmo, inevitabilmente, ad effettuare suggerimenti ed a sollecitare proposte che, invero, risulterebbero anacronistiche, sol che si consideri che il compito dell'interprete è quello di stabilire, non tanto, se i correttivi apportati siano realmente in grado di risolvere i problemi, quanto, piuttosto, di chiedersi se gli stessi siano stati correttamente percepiti, e ad una siffatta conclusione sarà possibile pervenire solo verificando se sia ancora logico e coerente, ancora oggi, prevedere una diversa tutela per i rapporti parasubordinati relegandoli al n. 2 dell'art. 2751-bis c.c., o non sia giunto il momento di una diversa applicazione della norma estendendo a questi la medesima tutela di quelli subordinati.
D'altronde, di una medesima legge possono essere fornite letture contrastanti, nel senso che la stessa disposizione normativa può essere ritenuta in grado di costituire una valida ed efficace risposta al processo di modernizzazione del mercato delle imprese, ovvero considerata scarsamente significativa, sul presupposto che, in relazione alle attese, ha finito per apportare, in definitiva, dei correttivi minimi rispetto a quelli auspicati, in quanto disegnati per una realtà economica non coincidente con il mercato interno nel quale, affianco delle imprese socialmente rilevanti, operano altre di modestissime dimensioni, ed in settori nei quali l'esigenza di misure di sostegno del reddito non sono minori.
Non ha senso, pertanto, dare del nuovo sistema una valutazione complessiva, quanto, piuttosto, da un punto di vista strutturale, applicativa, attesa la necessità di verificare se, in effetti, attraverso le norme riformate, sarà realmente possibile il recupero dell'impresa e, contestualmente, la realizzazione della tutela dei livelli occupazionali e dalle ragioni di credito di quanti hanno collaborato, a diverso titolo, alla crescita, in ragione della esigenza di realizzare la necessaria correlazione tra andamento del mercato delle imprese e del lavoro. La ristrutturazione sistemica del mercato del lavoro
L'operata rivisitazione della pregressa disciplina impone la necessità di verificare se, ed in quale misura, la ristrutturazione sistemica del mercato del lavoro e la prevista possibilità, per le parti, di instaurare rapporti di lavoro stabili, ed il contrastato uso improprio e strumentale dei sistemi di flessibilità, progressivamente introdotti nel nostro ordinamento, con riguardo alle diverse tipologie contrattuali, risultino essere coerenti con le nuove regole dettate per la risoluzione della crisi dell'impresa o la liquidazione di essa e se sia ancora giustificata la previsione di una diversa tutela riferita ai rapporti parasubordinati instaurati dall'imprenditore.
Il legislatore, difatti, nell'attuare la riforma delle procedure concorsuali, ha avvertito la necessità di un adeguamento del nuovo sistema ad una prospettiva di recupero delle capacità produttive dell'impresa, sul presupposto che in questa confluiscono oggi interessi economici e sociali ben più ampi, rispetto alla diversa e più ristretta concezione data, dal legislatore del 1942, al medesimo fenomeno, tanto che ha inteso, per quanto possibile, privilegiare il risanamento o, comunque, la conservazione.
Nella stessa relazione illustrativa, difatti, del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, viene sottolineata l'incapacità, della precedente disciplina, in quanto ispirata “… ad una finalità essenzialmente liquidatoria dell'impresa insolvente ed una tutela accentuata del diritto del creditori”, di prendere atto della nuova realtà per rendere le procedure concorsuali maggiormente rispondenti all'attuale esigenza di consentire la sopravvivenza dei complessi aziendali, ove risanabili o recuperabili, senza con ciò abbandonare e tradire l'originario e principale scopo di tali procedure, quello di garantire la tutela degli interessi dei creditori concorrenti.
Il sistema che nasce dal confronto delle disposizioni che caratterizzano la riforma delle procedure concorsuali e del mercato del lavoro appare essere segnato, in modo piuttosto evidente, da una totale assenza di tratti comuni per una regolamentazione appropriata:
Ove intendessimo, a distanza di poco tempo dall'entrata in vigore delle relative discipline normative, che hanno interamente ridisegnato il sistema delle procedure concorsuali e del mercato di lavoro, analizzare se e quali modifiche avrebbero dovuto essere elaborate, ci troveremmo, inevitabilmente, ad effettuare suggerimenti ed a sollecitare proposte che, invero, risulterebbero anacronistiche, sol che si consideri che il compito dell'interprete è quello di stabilire, non tanto, se i correttivi apportati siano realmente in grado di risolvere i problemi, quanto, piuttosto, di chiedersi se gli stessi siano stati correttamente percepiti, e ad una siffatta conclusione sarà possibile pervenire solo verificando se sia ancora logico e coerente, ancora oggi, prevedere una diversa tutela per i rapporti parasubordinati relegandoli al n. 2 dell'art. 2751-bis c.c., o non sia giunto il momento di una diversa applicazione della norma estendendo a questi la medesima tutela di quelli subordinati.
D'altronde, di una medesima legge possono essere fornite letture contrastanti, nel senso che la stessa disposizione normativa può essere ritenuta in grado di costituire una valida ed efficace risposta al processo di modernizzazione del mercato delle imprese, ovvero considerata scarsamente significativa, sul presupposto che, in relazione alle attese, ha finito per apportare, in definitiva, dei correttivi minimi rispetto a quelli auspicati, in quanto disegnati per una realtà economica non coincidente con il mercato interno nel quale, affianco delle imprese socialmente rilevanti, operano altre di modestissime dimensioni, ed in settori nei quali l'esigenza di misure di sostegno del reddito non sono minori.
Non ha senso, pertanto, dare del nuovo sistema una valutazione complessiva, quanto, piuttosto, da un punto di vista strutturale, applicativa, attesa la necessità di verificare se, in effetti, attraverso le norme riformate, sarà realmente possibile il recupero dell'impresa e, contestualmente, la realizzazione della tutela dei livelli occupazionali e dalle ragioni di credito di quanti hanno collaborato, a diverso titolo, alla crescita, in ragione della esigenza di realizzare la necessaria correlazione tra andamento del mercato delle imprese e del lavoro.
È vero che per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 2751-bis, n. 2, c.c., disposta dalla sentenza della Corte Costituzionale (Corte Cost., 26 gennaio 1998, n. 1) nella parte in cui limitava il privilegio stesso al prestatore d'opera intellettuale, esso è stato esteso a qualsiasi prestatore d'opera, indipendentemente dalla qualificazione intellettuale o meno della prestazione (Cass., 7 settembre 1999, n. 9475, in Il fallimento, 2000, con nota di Anfuso). A seguito di tale pronuncia, dunque, il privilegio generale non ha riguardato, in via esclusiva, i compensi professionali di quanti fossero iscritti ad Albi, per l'esercizio della relativa attività, ma il lavoro personale svolto in forma autonoma e, pertanto, inevitabilmente anche a quei crediti derivanti dai rapporti di collaborazione caratterizzati da una prestazione continuativa, coordinata, e prevalentemente personale. A tale conclusione si è giunti sul presupposto che il privilegio, di cui al n. 1 del citato art. 2751-bis c.c. è applicabile, in ragione della chiara formulazione della relativa disposizione, solo ai crediti dei prestatori di lavoro subordinato. E d'altronde, il riconoscimento conseguente alla pronuncia della Corte Costituzionale ha riguardato i crediti maturati per gli ultimi due anni di prestazione, mediante computo del biennio a ritroso dal compimento della stessa e, non già, dal momento in cui sono chiesti e devono essere determinati (si vedano: Cass., 28 gennaio 1999, n. 748, in Corr.giur., 1999, 1407 con nota di Danovi, Gli onorari dell'avvocato e il privilegio del credito; in Il fallimento, 1999, 1124, con nota di Rinaldi, Nuovi dubbi sul computo del biennio per le prestazioni del professionista; nello stesso senso Cass., 22 gennaio 1999, n. 569; Cass., 6 novembre 1999, n. 12366). Non può, però, essere ignorato che già il D.Lgs. 6 ottobre 2004, n. 251, a far data dal 26 ottobre, ha inserito, nel corpo del precedente D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, alcuni correttivi importanti e non poche integrazioni, ritenute indispensabili per meglio identificare contenuto e significato di alcuni istituti del rimodulato mercato del lavoro e, soprattutto, molti dei rapporti derivanti dall'attuazione delle deleghe contenute nella Legge 14 febbraio 2003, n. 30 (Cfr. Tiraboschi, La riforma Biagi dopo lo schema del decreto legislativo, in Guida al lavoro, 2004, 25; Rausei, Lo schema del decreto correttivo, in Dir.prat.lav., 2004, 27, 1791; Id., Le novità nel correttivo alla riforma del lavoro, inserto, in Dir.prat.lav., 2004, 43).
E' stata, difatti, operata una rivisitazione dei diversi modelli collaborativi che hanno modificato il mercato del lavoro, in ragione della ampia utilizzazione degli stessi, anche ai fini della riduzione dei costi, erroneamente ignorati per quel che attiene le conseguenze derivanti dall'apertura del concorso, in termini di possibile continuità degli stessi, ovvero per gli effetti perniciosi relativi alla realizzazione degli obblighi rimasti inadempiuti (Caiafa A., Il trasferimento dell'azienda nell'impresa in crisi o insolvente, Padova, 2005, 79). Considerazioni conclusive
Al riguardo, ancora, non può ignorarsi che la tutela dei lavoratori subordinati, in caso di insolvenza del datore di lavoro, trova una espressa regolamentazione nell'ambito della direttiva 80/987/Cee del Consiglio, del 20 ottobre 1980, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri, modificata, da ultimo, dalla direttiva 2002/74/Cee del Parlamento Europeo e del Consiglio.
In particolare, la direttiva considera in stato di insolvenza un datore di lavoro, allorché sia stata chiesta l'apertura di una procedura concorsuale disciplinata dalle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, di uno Stato membro, che venga a determinare lo “spossessamento parziale o totale del datore di lavoro stesso e la designazione di un curatore o di una persona che esplichi una funzione analoga”.
La tutela, per quel che attiene i nuovi modelli di collaborazione nell'impresa, è previsto venga assicurata in modo pieno:
Non solo, gli Stati membri non possono condizionare il diritto dei lavoratori stabilendo, in genere, una durata minima del contratto di lavoro che, pertanto, se potrà essere prevista ai fini del computo per la applicazione, o meno, di determinate disposizioni normative interne, non potrà mai incidere sulla tutela limitandone gli effetti.
Ho, in passato (Caiafa A., Nuovi modelli di collaborazione nell'impresa insolvente o in crisi, in Diritto Europeo: crisi d'impresa e sorte dei rapporti di lavoro, Milano, 2008, 314), tentato, seppur in estrema sintesi, di individuare gli elementi distintivi del rapporto di lavoro subordinato richiamando la sottoposizione del lavoratore al potere disciplinare ed alle direttive tecniche ed organizzative del datore di lavoro, all'obbligo del rispetto di un orario di lavoro ed alla continuità ed uniformità, per lo più, della retribuzione.
Ebbene, qualora ci si soffermi su quelle tipologie che, pur essendo riconducibili alla fattispecie tipizzata dall'art. 2094 c.c., tuttavia presentano caratteristiche peculiari per le modalità di espletamento della prestazione lavorativa e che, per tale ragione, possiamo definire “speciali”, è possibile, all'interno di tali rapporti, operare una ulteriore ripartizione, a seconda che si intenda aver riguardo alla causa del contratto, alle modalità di esecuzione o, infine, all'oggetto della prestazione.
Ne discende la seguente distinzione tra rapporti di lavoro o collaborazione: 1. a contenuto formativo, in relazione alla causa; 2. ad orario ridotto, modulato o a prestazioni flessibili, con riferimento alle modalità di esecuzione; 3. speciali, in ragione dell'oggetto dell'attività.
Ebbene, nonostante la chiara previsione discendente dal regolamento comunitario, vi è la convinzione che l'art. 2751-bis, n. 1, c.c. trovi applicazione, in via esclusiva, a tutela dei crediti derivanti dal lavoro subordinato, con la conseguenza che gli altri rapporti collaborativi, anche se tipici, non possono che rimanere fuori, spettando ad essi, in via esclusiva, il minore privilegio, sia per ampiezza, che per limite temporale, accordato dall'art. 2751-bis, n. 2, c.c.
Ne è conseguito che, nonostante il D.Lgs. n. 276 del 2003 abbia avuto la finalità di mettere ordine in una materia piuttosto confusa, con riferimento alla peculiarità delle collaborazioni individuate - che, comunque, trovavano applicazione e riconoscimento nei settori produttivi attraverso variegate tipologie negoziali - e sebbene nella stessa direzione si è mossa, poi, la L. 28 giugno 2012 n. 92 (c.d. riforma Fornero) attraverso la introduzione di specifiche disposizioni restrittive, al fine di eliminare ovvero quanto meno circoscrivere, il ricorso a forme asseritamente collaborative, ma proprie di una prestazione spesso subordinata, non par dubbio che anche la stessa previsione e regolamentazione realizzata attraverso la creazione di un codice dei contratti continua a determinare l'esistenza di un vuoto normativo, per quel che attiene il trattamento privilegiato dei crediti nascenti da tali rapporti che, irragionevolmente, risultano relegati al n. 2 dell'art. 2751-bis c.c. (Ferraro, Flessibilità in entrata: nuovi e vecchi modelli di lavoro flessibile, in AA.VV., Nuove regole dopo la legge n.92 del 2012 di riforma del mercato del lavoro, Torino, 2013, 53; Aprile, Prestatori d'opera, in Le insinuazioni al passivo, a cura di Ferro, Padova, 2010, II, 1710; Aprile; Il privilegio lavoristico nelle evoluzione legislativa e giurisprudenziale, in Diritto concorsuale del lavoro, a cura di Aprile-Bellé, Milano, 2013, 160) così come incoerente può risultare la soluzione di riconoscere collocazione chirografaria a quelle collaborazioni discontinue nel tempo, ma tali da determinare, comunque, una soggezione socio-economica non diversa da quella propria dei rapporti parasubordinati.
In questa prospettiva, non sarebbe irragionevole pervenire alla conclusione che ai compensi maturati nell'ambito dei rapporti di collaborazione continuata e continuativa fosse assicurato il riconoscimento del medesimo privilegio di cui all'art. 2751-bis, n. 1 c.c., in ragione della protezione costituzionale del lavoro, ormai, non più rivolta, in via esclusiva, a quello subordinato (Ichino, Lezioni di diritto del lavoro, Milano, 2004, 112) e, al tempo stesso, venisse garantita la diversa collocazione, di cui all'art. 2751-bis, n. 2, c.c. alle collaborazioni discontinue nel tempo, ovvero di durata intermittente e non per questo scarsamente significativa. |