Nozione di “lavoratore” ed indennità connesse al periodo di maternità secondo la giurisprudenza comunitaria

Elisa Mapelli
30 Giugno 2014

L'art. 45 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (“TFUE”) deve essere interpretato nel senso che una donna, che smetta di lavorare o di cercare un impiego a causa delle limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza ed al periodo successivo al parto, conserva la qualità di “lavoratore” ai sensi di tale articolo, purché essa riprenda il suo lavoro o trovi un altro impiego entro un ragionevole periodo di tempo dopo la nascita di suo figlio.

Sentenza della CGUE del 19 giugno 2014, causa C-507/12

La sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 19 giugno 2014, causa C-507/12, ha affrontato il delicato tema dell'interpretazione delle norme europee, con specifico riferimento all'art. 45 del TFUE ed all'art. 7 della Direttiva 2004/38/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio.
In particolare, i Giudici della Corte sono stati chiamati a verificare se le suddette norme debbano essere interpretate nel senso che una donna che cessi di lavorare o di cercare un impiego a causa delle limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza ed al periodo successivo al parto, conservi la qualità di “lavoratore” ai sensi dei citati articoli.

Svolgimento del processo

La signora Saint Prix, cittadina francese, si trasferiva nel Regno Unito nel 2006, ove svolgeva l'attività di insegnante ausiliaria fino all'agosto 2007. Successivamente, nel corso di un periodo di studi presso l'Università di Londra, finalizzato al conseguimento dell'abilitazione all'insegnamento, la signora Saint Prix scopriva di essere incinta, con data presunta del parto al 2 giugno 2008.
Pertanto, decideva di rimettersi a lavorare ed abbandonava il corso seguito presso l'Università di Londra.

Il 12 marzo 2008, quasi al sesto mese di gravidanza, la signora Saint Prix decideva, tuttavia, di abbandonare l'impiego interinale nel frattempo reperito, in quanto il lavoro, che consisteva nell'occuparsi di bambini delle scuole materne, era diventato troppo faticoso per lei. A seguito di tale decisione, per i giorni successivi, la lavoratrice cercava, senza successo, un lavoro più adatto al suo stato di gravidanza.

Il 18 marzo 2008, ossia 11 settimane prima della data prevista del parto, la signora Saint Prix presentava una domanda di indennità integrativa del reddito. Tale domanda veniva, tuttavia, respinta dal Secretary of State con decisione del 4 maggio 2008; avverso tale decisione, la signora Saint Prix proponeva ricorso dinanzi al First-tier Tribunal.

A tal riguardo, si rileva, infatti, che nel Regno Unito viene concessa un'indennità integrativa del reddito (income support) a chi non raggiunge una determinata soglia di reddito. In particolare, le donne incinte o le puerpere possono richiedere la prestazione nel periodo precedente e successivo al parto. Tuttavia, per le “persone provenienti dall'estero – cittadini di altri Stati membri”, il diritto a tale prestazione scatta unicamente se questi ultimi abbiano acquisito lo status di “lavoratore”.
Il 21 agosto 2008, ossia tre mesi dopo la nascita prematura del figlio, la signora Saint Prix riprendeva il lavoro. Con decisione del 4 settembre 2008, il First-tier Tribunal accoglieva il ricorso della signora Saint Prix. Tuttavia, il 7 maggio 2010 l'Upper Tribunal ribaltava la decisione, accogliendo il ricorso proposto dal Secretary of State avverso la decisione di primo grado. In seguito, poiché anche la Court of Appeal confermava la decisione dell'Upper Tribunal, la Signora Saint Prix adiva il giudice del rinvio.

Quest'ultimo giudice si poneva la domanda se una donna incinta che cessi temporaneamente di lavorare a causa della gravidanza debba essere considerata un “lavoratore” ai fini della libera circolazione dei lavoratori sancita dall'art. 45 TFUE e del diritto di soggiorno conferito dall'art. 7 della Direttiva 2004/38. A tal riguardo, il giudice del rinvio constatava che né l'art. 45 TFUE, né l'art. 7 della citata Direttiva, definivano la nozione di lavoratore.

Questioni pregiudiziali

Ciò considerato, la Supreme Court of the United Kingdom decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

  1. se il diritto di soggiorno conferito ad un “lavoratore subordinato” dall'art. 7 della Direttiva 2004/38 debba essere interpretato nel senso che si applica soltanto alle persone che (i) si trovano in un rapporto di lavoro esistente, (ii) sono, quantomeno in alcune circostanze, alla ricerca di un'occupazione, o (iii) rientrano nell'ambito di applicazione delle ipotesi previste dall'art. 7, par. 3 di tale Direttiva, oppure se l'art. 7 di debba essere interpretato nel senso che non osta a riconoscere tale diritto ad altre persone che conservano la qualità di “lavoratori subordinati” a tal fine;
  2. (a)se, in quest'ultimo caso, esso si applichi ad una donna che, ragionevolmente, abbia cessato di lavorare o abbia interrotto la ricerca di un'occupazione, a causa delle limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza ed al periodo successivo al parto;
    (b)in caso affermativo, se essa abbia diritto all'applicazione della definizione, fornita dal diritto nazionale, del momento in cui tale scelta è ragionevole.

La motivazione

L'art. 7, par. 3, della Direttiva 2004/38 precisa che il cittadino dell'Unione che abbia cessato di essere un lavoratore subordinato o autonomo conserva, comunque, la qualità di lavoratore in casi particolari:

  1. quando sia temporaneamente inabile al lavoro a seguito di una malattia o di un infortunio,
  2. quando si trovi in stato di disoccupazione involontaria o
  3. qualora segua, a determinate condizioni, un corso di formazione professionale.


Orbene, si deve rilevare che il suddetto articolo non prevede espressamente il caso di una donna che si trovi in una situazione particolare a causa delle limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza ed al periodo successivo al parto.

Peraltro, secondo una giurisprudenza costante della Corte, la gravidanza deve essere nettamente distinta dalla malattia nel senso che lo stato di gravidanza non è in alcun modo assimilabile ad uno stato patologico (v. sentenza Webb, C‑32/1993).
Ne consegue che una donna che si trovi nella situazione della signora Saint Prix, che cessi temporaneamente di lavorare a causa delle ultime fasi della gravidanza e del periodo successivo al parto, non può essere qualificata come persona temporaneamente inabile al lavoro a seguito di una malattia, ai sensi dell'art. 7, par. 3, lett. a), della Direttiva 2004/38.

Tuttavia, a contrario, non risulta né dall'art. 7 di detta Direttiva nel suo complesso, né da altre disposizioni della stessa Direttiva che, in siffatte circostanze, un cittadino dell'Unione che non soddisfi le condizioni previste da detto articolo sia, per tale ragione, sistematicamente privato dello status di “lavoratore”, ai sensi dell'art. 45 TFUE.

Infatti, la normativa, che mira espressamente ad agevolare l'esercizio del diritto dei cittadini dell'Unione di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, non può di per sé limitare la portata della nozione di lavoratore ai sensi del TFUE. Al contrario, la Corte nelle proprie decisioni si è sempre orientata verso un'interpretazione estensiva della nozione di “lavoratore” contenuta nell'art. 45 TFUE (v. sentenza n., C‑46/2012).
È in tale prospettiva che la Corte ha affermato che ogni cittadino di uno Stato membro, indipendentemente dal suo luogo di residenza e dalla sua cittadinanza, che si sia avvalso del diritto alla libera circolazione dei lavoratori ed abbia esercitato un'attività lavorativa in uno Stato membro diverso da quello di residenza, rientra nella sfera di applicazione dell'art. 45 TFUE (v., sentenze Ritter-Coulais, C‑152/2003 e Hartmann, C‑212/2005).

In tal modo, la Corte ha precisato anche che, nell'ambito dell'art. 45 TFUE, deve considerarsi “lavoratore” la persona che fornisce, per un certo periodo di tempo, a favore di un'altra e sotto la direzione di quest'ultima, prestazioni a corrispettivo. Una volta cessato il rapporto di lavoro, l'interessato perde, in linea di principio, la qualità di lavoratore, fermo restando tuttavia che, da un lato, questa qualifica può produrre taluni effetti dopo la cessazione del rapporto di lavoro e che, dall'altro, una persona all'effettiva ricerca di un impiego deve del pari essere qualificata come lavoratore (v. sentenza Caves Krier Frères, C‑379/2011).
Inoltre, occorre sottolineare che la libera circolazione dei lavoratori implica il diritto per i cittadini degli Stati membri di circolare liberamente nel territorio degli altri Stati membri e di soggiornarvi al fine di cercarvi un lavoro. Pertanto, la qualifica di “lavoratore” ai sensi dell'art. 45 TFUE, nonché i diritti derivanti da un siffatto status, non dipendono necessariamente dall'esistenza o dalla effettiva prosecuzione di un rapporto di lavoro.

In tali condizioni, contrariamente a quanto asserito dal governo del Regno Unito, non si può affermare che l'art. 7, par. 3, della Direttiva 2004/38 elenchi in maniera esaustiva le circostanze nelle quali un lavoratore migrante, che non si trovi più in un rapporto di lavoro, possa tuttavia continuare a beneficiare di detto status.

Con riferimento al caso di specie, la signora Saint Prix ha svolto attività di lavoro subordinato nel Regno Unito prima di cessare di lavorare meno di tre mesi prima della nascita di suo figlio, a causa delle limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza ed al periodo immediatamente successivo al parto. Inoltre, senza aver lasciato il territorio di tale Stato durante il periodo di interruzione della sua attività professionale, essa ha ripreso a lavorare il terzo mese successivo alla nascita di suo figlio.

Orbene, la circostanza che dette limitazioni costringano una donna a cessare di esercitare un'attività subordinata durante il periodo necessario al suo ristabilimento non è, in linea di principio, idonea a privare tale persona della qualità di “lavoratore”, ai sensi dell'art. 45 TFUE.

Infatti, la circostanza che una siffatta persona non sia stata effettivamente presente sul mercato del lavoro dello Stato membro ospitante per alcuni mesi non implica che tale persona abbia cessato di far parte di detto mercato durante tale periodo, purché essa riprenda il suo lavoro o trovi un altro impiego entro un termine ragionevole dopo il parto (v., sentenza Orfanopoulos e Oliveri, C‑482/2001 e C‑493/2001).

L'astensione congrua

Per determinare se il periodo intercorso tra il parto e la ripresa del lavoro possa essere considerato ragionevole, il giudice nazionale dovrà tener conto di tutte le circostanze specifiche del procedimento principale e delle norme nazionali applicabili che disciplinano la durata del congedo di maternità.

Tale soluzione risulta conforme alla finalità, perseguita dall'art. 45 TFUE, di consentire ad un lavoratore di spostarsi liberamente nell'ambito del territorio degli altri Stati membri e di soggiornarvi al fine di svolgervi un'attività lavorativa.

Infatti, nell'ipotesi opposta, una cittadina dell'Unione sarebbe dissuasa dall'esercitare il suo diritto di libera circolazione se, nel caso in cui fosse incinta nello Stato ospitante e lasciasse per tale motivo il suo impiego, sia pur soltanto per un breve periodo, essa rischiasse di perdere la qualità di lavoratore in tale Stato.

Riflessi nel nostro ordinamento

Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, la Corte ha risposto alle questioni pregiudiziali poste dal giudice del rinvio dichiarando che l'art. 45 TFUE deve essere interpretato nel senso che una donna, che smetta di lavorare o di cercare un impiego a causa delle limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza ed al periodo successivo al parto, conserva la qualità di “lavoratore” ai sensi di tale articolo, purché essa riprenda il suo lavoro o trovi un altro impiego entro un ragionevole periodo di tempo dopo la nascita di suo figlio.

Tale decisione, ancorché assunta con riferimento all'ordinamento britannico, ha una rilevanza anche per l'ordinamento italiano, sol che si consideri le conseguenze ed i riflessi che la stessa potrebbe avere con riferimento alle indennità di maternità erogate dagli organi previdenziali alle “lavoratrici” in stato di gravidanza. Detto ciò, è pur vero che il nostro ordinamento sembra essere più garantista rispetto a quello britannico, prevedendo ipotesi di astensione anticipata – con sostegno al reddito – nel caso in cui nel corso della gravidanza si verifichino condizioni oggettive che possano mettere a rischio la salute della lavoratrice o del nascituro (e.g., attività faticose o insalubri, condizioni di lavoro o ambientali pregiudizievoli, etc.).

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