Licenziamento: il requisito della forma scritta non può essere provato per testimoni

11 Agosto 2015

Non è dunque ammissibile la prova testimoniale della esistenza della lettera di licenziamento, considerato che l'art. 2725, comma 2, Cod. civ., norma di ordine pubblico, non consente la prova per testi di un contratto (o di un atto unilaterale ex art. 1324 Cod. civ.) per il quale la legge prevede la forma scritta a pena di nullità, ad eccezione del caso in cui il datore di lavoro dimostri di aver smarrito, senza colpa, il documento.
Massime

Il licenziamento non può avvenire oralmente, posto che la legge ne prescrive la forma scritta a pena di nullità.

Non è dunque ammissibile la prova testimoniale della esistenza della lettera di licenziamento, considerato che l'art. 2725, comma 2, c.c. , norma di ordine pubblico, non consente la prova per testi di un contratto (o di un atto unilaterale ex art. 1324 c.c. ) per il quale la legge prevede la forma scritta a pena di nullità, ad eccezione del caso in cui il datore di lavoro dimostri di aver smarrito, senza colpa, il documento.

Il caso

Un lavoratore adiva il Tribunale di Roma affinché venisse dichiarata l'illegittimità del licenziamento disciplinare comunicatogli dalla società.

Nella vicenda in esame, il datore aveva prodotto in giudizio la lettera di licenziamento con la dicitura, in calce, dell'avvenuta lettura e consegna del documento al lavoratore, ad opera di due funzionari della società i quali, in sede di escussione testimoniale, avevano confermato di aver letto e consegnato la lettera al lavoratore che aveva rifiutato di sottoscriverla per ricevuta.
Di contro, il dipendente negava, a monte, che gli fosse stato letto, mostrato o consegnato un documento attestante la volontà datoriale di recesso.


Dopo il rigetto della domanda da parte del Tribunale, il lavoratore adiva la Corte d'Appello di Roma che respingeva anch'essa il gravame.
Il lavoratore si è dunque rivolto alla Suprema Corte al fine di ottenere la riforma della sentenza d'appello.
In particolare, il lavoratore ha lamentato la violazione e falsa applicazione dell' art. 2, L. 15 luglio 1966, n. 604 per aver la Corte territoriale ritenuto soddisfatto il requisito della forma scritta del licenziamento in base alla deposizione testimoniale dei due funzionari della società.
Nello specifico, ad avviso del lavoratore, la prova orale della comunicazione del licenziamento era da ritenersi inammissibile sia in virtù dell' art. 2, L. n. 604/1996, secondo cui il provvedimento espulsivo deve essere comunicato in forma scritta, sia ai sensi dell' art. 2725 c.c. , in base al quale, se, per legge o per volontà delle parti, un atto unilaterale o un contratto deve essere provato per iscritto, la prova testimoniale è ammessa solo quando il documento che fornisce la prova sia stato perso senza colpa.

Il ricorso, respinto sia in primo grado, sia in grado di appello, è stato accolto dalla Corte di Cassazione.

La questione

La questione posta all'esame della Suprema Corte è dunque la seguente: è consentito provare il licenziamento attraverso la deposizione testimoniale posto che la legge prescrive, per tale atto, la forma scritta a pena di nullità?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte ha accolto il ricorso del lavoratore, rilevando anzitutto come, nel caso in esame, fosse controversa l'esistenza stessa, al momento dell'estromissione del dipendente dalla società, di un atto scritto nel quale gli veniva comunicata l'intenzione del datore di recedere dal rapporto di lavoro.


Prima di addentrarsi nel merito della vicenda, la Corte ha ricordato che l' art. 2, commi 1 e 3, L. n. 604/1966 prevede per il licenziamento il requisito della forma scritta a pena di nullità.

E che, a dispetto della formula dell' art. 2, comma 1, L. n. 604/1966, occorre operare una distinzione tra la forma dell'atto contenente la manifestazione di volontà del recesso (che può essere solo scritta) e il mezzo di trasmissione dell'atto medesimo (mediante corriere, servizio postale, consegna a mani, ecc…).

La (trasmissione e la) consegna dell'atto infatti può essere dimostrata in molti modi e non è soggetta al requisito di forma a pena di nullità. In quanto atto unilaterale recettizio, il licenziamento produce i suoi effetti una volta giunto a conoscenza del destinatario, circostanza che può essere presunta, ai sensi dell' art. 1335 c.c. , o dimostrata, ad esempio, per mezzo della sottoscrizione per ricevuta apposta in calce alla lettera stessa o anche attraverso la prova testimoniale.

Mentre l'avvenuta consacrazione dell'atto di licenziamento in forma scritta non può essere provato per testimoni, stante il divieto posto dall' art. 2725, comma 2, c.c. , norma che non consente la prova testimoniale di un contratto (o di un atto unilaterale, ex art. 1324 c.c. ) per il quale la legge prevede la forma scritta a pena di nullità, con la sola eccezione, ex art. 2724, comma 3, c.c. , della perdita incolpevole del documento (prova che, nel caso in esame, non era stata fornita).


Nel caso esaminato, è risultato contestato tra le parti il fatto stesso che, al momento della sua estromissione dall'azienda, al lavoratore fosse stato letto, consegnato o anche solo mostrato uno scritto contenente la volontà datoriale di recesso. Il lavoratore aveva infatti negato, fin dall'inizio, di aver ricevuto la lettura e il tentativo di consegna a mani dell'atto di licenziamento.


Né è risultato, infine, che la lettera di licenziamento prodotta in giudizio dalla datrice di lavoro fosse munita di data certa anteriore o coeva all'estromissione del lavoratore.

Dunque, ha concluso la Corte, doveva anzitutto essere provata l'esistenza del licenziamento in forma scritta. Per tale ragione, i giudici di merito avevano errato nel ritenere ammissibile la deposizione dei due funzionari (che avevano riferito di aver letto e consegnato la comunicazione al lavoratore).

Pertanto, non potendosi provare in via testimoniale la controversa comunicazione per iscritto del licenziamento, la Corte ha ritenuto nullo il provvedimento espulsivo, per difetto della forma prevista dalla legge.

La Corte si è altresì premurata di precisare che l'inammissibilità della testimonianza ex art. 2725, comma 2, c.c. può essere rilevata in ogni stato e grado del giudizio, poiché il divieto attiene a norme di ordine pubblico; contrariamente a quanto accade in caso di violazione degli artt. 2721 e segg. c.c. o di testimonianza assunta per atti e contratti per i quali la forma scritta è richiesta solo «ad probationem» (art. 2725, comma 1, c.c. ), la prova testimoniale non attiene all'ordine pubblico, ma alla tutela di interessi privati e come tale suscettibile di essere sanata se non rilevata tempestivamente, ex art. 157, comma 2, c.p.c.. Per tale ragione, il divieto posto dall'art. 2725, comma 2, c.c. , non può essere superato neppure mediante l'esercizio dei poteri istruttori previsti dall' art. 421, comma 2, c.p.c. che va riferito ai soli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c.

Osservazioni

Il tema affrontato dalla Corte gode del fascino dato dal sottile crinale, concettuale e logico, sul quale si muove. Il problema esaminato dalla Corte, infatti, si colloca sul filo della distinzione tra la forma dell'atto di licenziamento e la forma della comunicazione del licenziamento medesimo. E della prova testimoniale che può concernere queste due circostanze. La distinzione, in realtà, appare concettualmente cristallina. Eppure ha dato luogo a ben due pronunce di merito di segno contrario alla decisione di legittimità.

Orbene, la Suprema Corte ha dato una rigorosa applicazione dell' art. 2725, comma 2, c.c. , ed è così pervenuta a ritenere nullo per difetto di forma scritta il licenziamento perché non ne è stata provato il requisito formale.

La conclusione non lascia del tutto soddisfatti.

E non soltanto perché la decisione non riflette la realtà materiale dei fatti che pure è emersa nel processo.

Anche attenendosi alla cd. realtà processuale, resta infatti aperta un'incongruenza.

Ricordiamo che la Corte ha avuto cura di precisare che la prova della consegna di un atto pur formale può avvenire anche per testi, non incontrando i limiti stabiliti dall' art. 2725 c.c. Ed è stato dimostrato in causa, mediante le deposizioni dei testi, che il datore effettivamente tentò di consegnare quello specifico documento, prodotto in atti, al momento dell'estromissione del lavoratore dall'azienda.

Occorre pertanto ammettere che risulti provato il fatto che quel dato giorno, il datore tentò la consegna di quel dato documento; ma ritenere non fornita la prova dell'esistenza del documento che fu oggetto della consegna.

È dunque forse in questo punto che risiede la ragione della diversa decisione assunta delle Corti di merito.

Certamente la stessa Suprema Corte si è avveduta del problema: nella motivazione, infatti, la Corte ha cura di precisare che, qualora si ammettesse la prova della data del documento versato in atti (la lettera di licenziamento) attraverso la deposizione dei testi, si finirebbe con l'aggirare il divieto posto dall' art. 2725, comma 2, c.c.

Il Collegio ha dunque ritenuto di dover privilegiare il dato letterale del divieto posto dall' art. 2725, comma 2, c.c.

Sul tema della distinzione tra requisito formale dell'atto di licenziamento e della sua trasmissione: Cass. 5 novembre 2007, n. 23061; Cass. 3 novembre 2008, n. 26390.

Sul tema della rilevabilità in ogni stato e grado della violazione dell'art. 2725 c.c.: Cass. 30 marzo 2010, n. 7765; Cass. 8 gennaio 2002, n. 144; Cass. 12 maggio 1999, n. 4690; Cass. 10 aprile 1990, n. 2988.

Sui limiti dei poteri istruttori ex art. 421 c.p.c..: Cass. 29 luglio 2009, n. 17614; Cass. 25 agosto 2005, n. 17333.

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