Licenziamento disciplinare: omessa contestazione dell’infrazione in violazione dell’art. 7 St. Lav. e tutela reintegratoria “attenuata”
01 Febbraio 2017
Massima
Il radicale difetto di contestazione dell'infrazione, determinando l'inesistenza della procedura disciplinare e non solo la violazione delle norme che la regolano, comporta l'applicazione della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, St. Lav., prevista in caso di accertata insussistenza del fatto contestato e non semplicemente addebitato. Il caso
Ad un lavoratore viene intimato, in difetto di preventiva contestazione degli addebiti, il licenziamento con la seguente motivazione: “irregolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa a fronte delle esigenze organizzative del datore di lavoro”.
Qualificato il licenziamento come disciplinare, la domanda di impugnativa viene accolta sul rilievo che la mancata contestazione dell'infrazione equivale ad “insussistenza del fatto”, con conseguente applicabilità dell'art. 18, comma 4, St. Lav., che prevede, nell'area di operatività della L. n. 92/2012 (c.d. legge “Fornero”) e nella sussistenza del requisito dimensionale, la tutela reintegratoria “attenuata”. La questione
La questione in esame è la seguente: l'intimazione del licenziamento disciplinare in assenza di previa contestazione degli addebiti comporta direttamente - per come affermato, nel caso, dalla S.C. - una violazione sostanziale cui consegue, ex art. 18, comma 4, St. Lav. (come innovato dalla legge “Fornero”), la tutela reintegratoria “attenuata”, oppure determina una violazione di natura procedurale, ex art. 18, comma 6, sanzionata con la tutela indennitaria debole (limitata al riconoscimento, in favore del lavoratore, di una indennità risarcitoria compresa tra sei e dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto)? Le soluzioni giuridiche
La S.C. perviene alla conclusione che il licenziamento intimato in assenza di previa formulazione degli addebiti ex art. 7 St. Lav. configuri l'ipotesi prevista dal successivo art. 18, comma 4, ravvisabile non solo quando la condotta integrante infrazione non sussista, ma anche ove quest'ultima non sia stata preventivamente contestata, avuto proprio riguardo alla locuzione - contenuta nella norma - “insussistenza del fatto contestato”.
Qui, peraltro, il termine “contestato” sarebbe, secondo la S.C. (se non è dato male intendere), impiegato dal legislatore in senso “tecnico”, riferibile alla fase procedimentale che precede il licenziamento; a partire da quest'ultimo atto, il fatto dovrebbe intendersi semplicemente “addebitato”, con valore pressoché nullo, sicché il fatto stesso diviene insuscettibile, in ogni caso, di esser provato in giudizio, per come si evince dal rilievo, contenuto in sentenza, secondo cui il fatto non contestato prima del licenziamento “non esisterebbe a priori”.
L'ulteriore precisazione che la mancata contestazione determina “l'inesistenza della procedura disciplinare”, e non solo violazione delle norme che la regolano, è espressione di una riconosciuta incidenza assorbente del vizio sull'intera procedura; è come dire che la violazione di quest'ultima (cui è correlata la tutela indennitaria debole), ex art. 7 St. Lav., non comprende la fattispecie di “inesistenza” della procedura stessa, prodotta dalla assenza di previa contestazione degli addebiti.
La ratio di tale ricostruzione è incentrata sul rilievo che la contestazione (da intendersi, deve ritenersi, in senso “tipico” ex art. 7, comma 2, St. Lav.) è elemento essenziale di garanzia del procedimento disciplinare e costituisce espressione di un inderogabile principio di civiltà giuridica, onde gli addebiti non previamente contestati, ancorché teoricamente ipotizzabili, «non potrebbero, anche per l'impossibilità di attivazione delle successive garanzie a difesa del lavoratore, in alcun caso ritenersi idonei a giustificare il licenziamento».
Potrebbe però optarsi per una soluzione diversa, ritenendo che l'omessa contestazione in violazione dell'art. 7 St. Lav. integri vizio procedurale sanzionato, ex art. 18, comma 6, St. Lav., con la tutela indennitaria debole, salvo il caso in cui anche il licenziamento non contenga, nel corpo della motivazione, la formulazione degli addebiti, neppure evidenziati nella memoria difensiva tempestivamente depositata.
Si profila, inoltre, nella fattispecie, un diverso approdo ermeneutico, fondato sulla considerazione che l'addebito di “irregolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa a fronte delle esigenze organizzative del datore di lavoro” sia estremamente generico, onde equiparabile al nulla. Sicché l'addebito in questione, qualora negli stessi termini riprodotto nella memoria difensiva (come sembra nel caso), impedirebbe al datore di provare un fatto disciplinarmente rilevante, con conseguente applicabilità della medesima soluzione adottata dalla S.C. Osservazioni
L'indirizzo seguito dalla S.C., per come sopra visto, muove da una determinata interpretazione dell'espressione “insussistenza del fatto contestato”, giustificata dal centrale rilievo che gli addebiti non previamente formulati «non potrebbero, anche per l'impossibilità di attivazione delle successive garanzie a difesa del lavoratore, in alcun caso ritenersi idonei a giustificare il licenziamento».
Il che dovrebbe significare, in definitiva - e qui é il nocciolo della questione - che l'impossibilità, per il lavoratore, di discolparsi per iscritto od oralmente (a causa della mancata conoscenza dell'addebito) nell'ambito della procedura disciplinare produce una lesione irrimediabile del diritto di difesa (cui si accompagna l'inesistenza della procedura stessa), sì da rendere l'accertamento di detta lesione assorbente, ossia prevalente su quello della sussistenza dell'infrazione.
Tuttavia, potrebbe al riguardo sostenersi che la violazione del diritto di difesa realmente pregiudizievole - e quindi meritevole di esser sanzionata gravemente - è quella che ha luogo nell'ambito del processo, per l'impossibilità del lavoratore - a causa della mancata o tardiva conoscenza dell'addebito - di contrastare, sul versante probatorio, l'impianto accusatorio del datore. Se, in altri termini, quest'ultimo non procede in alcun modo ad evidenziare al lavoratore le motivazioni dell'iniziativa risolutoria o lo fa con estremo ritardo rispetto al momento in cui egli è venuto a conoscenza del fatto, il lavoratore medesimo non sarà plausibilmente in grado di raccogliere i mezzi di prova idonei a scagionarlo (con conseguente valenza fittizia dell'operato accertamento in sede processuale dell'infrazione).
La discolpa del lavoratore, per converso, è, in sede di procedimento disciplinare, meramente funzionale ad una eventuale desistenza del datore, il quale, comunque - e ciò va rimarcato -, potrebbe disinteressarsi del tutto dal valutare le ragioni del prestatore, e procedere comunque al licenziamento. Con la conseguenza che la violazione dell'onere di necessaria previa contestazione assume, nell'ambito dell'intera vicenda, un rilievo marginale, poiché inidonea ad intaccare realmente il diritto di difesa.
Proprio al fine di evitare che una violazione di tal fatta potesse, come in passato, condurre, poco plausibilmente, alla sanzione “forte” della reintegra, il legislatore ha disposto, apportando i noti correttivi alla tradizionale versione dell'art. 18 St. Lav. (e come ben si evince dalla attuale previsione del suo comma sesto), che la violazione predetta integri un vizio di taglio secondario, incapace di determinare il ripristino del rapporto nonché rilevante solo sul piano, appunto, procedurale.
In buona sostanza, la tesi secondo cui il mero difetto di previa contestazione degli addebiti determina in ogni caso la ingiustificatezza qualificata, finisce per trascurare il dato letterale della previsione dell'art. 18, comma 6, St. Lav. e, soprattutto - precludendo al datore di formulare gli addebiti con il licenziamento o con la memoria tempestivamente depositata (ma a tale ultimo riguardo v. quanto si dirà infra) -, per disattenderne la ratio. Suona, infatti, eccessivo, sul piano logico, accordare la tutela reintegratoria al lavoratore cui sia stato, ad esempio, intimato il licenziamento motivato, pur in difetto di previa contestazione, a distanza di una ventina di giorni dall'avvenuta conoscenza dell'infrazione.
Peraltro la pronuncia in commento non sembra essere in linea con Cass. sez. lav., 10 agosto 2016, n. 16896, ove è affermato che “nell'ipotesi in cui la contestazione disciplinare, finalizzata al licenziamento, non contenga una sufficiente e specifica descrizione della condotta tenuta dal lavoratore, è applicabile l'art. 18, comma 6, St. Lav. (…), con riferimento alle ipotesi di vizi di forma attinenti alla motivazione del recesso, come ora disciplinata dall'art. 2, comma 2, della L. n. 604/1966”; ed è poi precisato che “si ha violazione del requisito della motivazione non solo quando la stessa sia assente ma anche nelle ipotesi in cui sia generica, imprecisa, insufficiente sì da non consentire al lavoratore di poter apprezzare l'infrazione disciplinare che viene contestata”.
Pur se nella fattispecie esaminata nella sentenza da ultimo citata - in cui il fatto era stato specificato nella memoria difensiva e, a seguito dell'istruttoria, provato - sembra esservi una sovrapposizione tra genericità della contestazione (che dà luogo a vizio di procedura) e genericità della motivazione del licenziamento (che invece integra violazione del requisito di motivazione), ciò che in questa sede rileva è la affermata coincidenza tra “assenza” e “genericità” della contestazione (e/o motivazione del licenziamento), che si riverbera inevitabilmente sulla identificazione di una medesima tutela applicabile, lì ricondotta alla previsione di cui all'art. 18, comma 6, St. Lav.
Aderendo ad una impostazione - diversa da quella seguita nella sentenza qui in commento - incentrata sulla accordata rilevanza alla lesione del diritto di difesa nell'ambito del processo, potrebbe invece affermarsi che:
Ciò posto, la tutela reintegratoria attenuata dovrebbe applicarsi in presenza di un fatto che sia stato (con attrazione, per disposto normativo, nell'area del vizio sostanziale) non assolutamente, oppure non tempestivamente contestato (anche in senso “atecnico”), poiché è solo in questi casi che, per come già visto, viene pregiudicato realmente il diritto di difesa del prestatore in giudizio.
Pertanto, nell'ipotesi esemplificativa, già considerata, di licenziamento completo di motivazione intimato, senza previa contestazione, dopo una ventina di giorni dall'avvenuta cognizione dell'infrazione, il datore dovrebbe incorrere in una violazione procedurale. Al medesimo datore non dovrebbe poi essere preclusa la possibilità, al fine di scongiurare la violazione sostanziale, di provare in giudizio la sussistenza della condotta; solo se tale prova non sia raggiunta si applicherà la tutela reintegratoria attenuata (che assorbirà quella indennitaria debole).
La prova in questione non dovrebbe invece essere ammissibile in presenza di “contestazione non tempestiva”, poiché, in tal caso, per quanto sopra detto, il licenziamento dovrebbe essere già di per sé ingiustificato; e, al riguardo, potrebbe assumere (ma il tema meriterebbe maggiore approfondimento) il valore di una contestazione di tal fatta anche l'illustrazione degli addebiti contenuti nella memoria tempestivamente depositata; infatti, qui, saranno di norma non contenuti i tempi tra avvenuta conoscenza dell'infrazione da parte del datore e deposito della memoria in giudizio.
Va tuttavia evidenziato che l'idea che il fatto “non tempestivamente contestato” possa dar luogo alla tutela reintegratoria attenuata non è condivisa dalla S.C., che si è pronunciata - v., ad esempio, Cass. sez. lav., 9 luglio 2015, n. 14324 - per la natura procedurale del vizio.
Dalla combinazione degli indirizzi espressi dalla sentenza testé citata e dalla pronuncia qui in commento sembra, quindi, emergere una alterazione di sistema: finisce per risultare, infatti, di grado maggiore l'illegittimità derivante, in ipotesi, da un licenziamento, non preceduto da contestazione ma assistito da esaustiva motivazione (in cui si risolve la formulazione degli addebiti), intimato a brevissima distanza dall'avvenuta cognizione dell'infrazione da parte del datore, di quella determinata da una previa contestazione formulata, ad esempio, a distanza di cinque anni dalla cognizione in questione. Qui, in concreto, il forte pregiudizio per il lavoratore c'è nel secondo caso e non nel primo.
Per maggiori riferimenti sulle problematiche sopra esposte sia consentito il rinvio a L. Di Paola, L'illegittimità del licenziamento individuale per vizi formali e procedurali, ne “Il licenziamento - Dalla Legge Fornero al Jobs Act”, a cura di L. Di Paola, Giuffré, 2016, 252 ss.; in particolare 266 ss. |