Tardività della contestazione disciplinare: la tutela è solo indennitaria
31 Marzo 2016
Massime
La contestazione disciplinare, tenendo comunque conto della complessità dell'organizzazione aziendale, deve avvenire non appena il datore di lavoro viene in possesso di elementi tali da fargli ragionevolmente ritenere la sussistenza di infrazioni da parte del dipendente, non essendo tale termine procrastinabile fino a quando si abbia l'assoluta certezza di tali fatti.
La tardività della contestazione disciplinare integra una violazione c.d. formale nell'ambito del procedimento disciplinare regolato dall' art. 7 L . n. 300/1970 art. 18, comma 6, L . n. 300/1970 Il caso
Un lavoratore impugnava il licenziamento disciplinare senza preavviso irrogatogli, rilevando, da una parte, la tardività della contestazione disciplinare, con conseguente violazione del diritto di difesa; dall'altra, per la medesima ragione, contestando la sussistenza dell'inadempimento o, comunque, la sua qualificabilità quale giusta causa.
Nel caso di specie il datore di lavoro aveva dapprima avviato un'indagine interna (audit), ed aveva poi contestato l'addebito a distanza di oltre otto mesi dalla sua conclusione, periodo nel quale gli inadempimenti contestati al lavoratore erano stati inequivocabilmente accertati.
La sentenza di primo grado, come già l'ordinanza conclusiva della fase sommaria del rito “Fornero”, dichiarava la illegittimità del licenziamento per tardività della contestazione disciplinare, facendo applicazione del regime sanzionatorio di cui al comma 4 dell' art. 18 st . lav . ovvero, disponendo la reintegrazione nel posto di lavoro ed il pagamento dell'indennità risarcitoria, commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto, nella misura massima di dodici mensilità.
La Società datrice di lavoro impugnava la sentenza, chiedendo, in via principale, l'accertamento della legittimità del licenziamento e, in via subordinata, l'applicazione del regime sanzionatorio, esclusivamente indennitario, di cui al comma 6 dell' art. 18 st . lav . Le questioni
Centrale, nella decisione in commento, è il concetto di “immediatezza” della contestazione disciplinare, principio ricavabile dal disposto dell' art. 7 L . n. 300/1970 (norma regolatrice del procedimento disciplinare) e posto a presidio del diritto di difesa del lavoratore.
Da una parte, infatti, se ne descrivono i confini, per così dire, “temporali”; dall'altra si valuta la natura del vizio derivante dal suo mancato rispetto, con quanto ne consegue in termini di regime sanzionatorio, nell'ambito applicativo dello Statuto dei Lavoratori . Le soluzioni giuridiche
Com'è noto, l' art. 7 st . lav ., nel disciplinare il procedimento di irrogazione delle sanzioni disciplinari, stabilisce che il datore di lavoro debba preventivamente contestare l'addebito al lavoratore (in forma scritta per le sanzioni più gravi del rimprovero verbale), fissando immutabilmente (cfr. Cass. civ., sez. lav., sent. 7 febbraio 1997, n. 1152 in Not. giur. lav., 1997, 656) i termini della sua condotta inadempiente, così da metterlo in grado di poter svolgere utilmente le proprie difese ( Cass. civ., sez. lav., sent. 29 marzo 2006, n. 7221 ).
Sempre a tale ultimo scopo, la preventiva contestazione dell'addebito deve poi soddisfare due condizioni: specificità e immediatezza.
Quanto al carattere della specificità, si richiede che la contestazione disciplinare debba consentire al lavoratore di individuare i fatti addebitatigli nella loro materialità (ex multis, Cass. civ., sez. lav., sent. 14 giugno 2013, n. 15006 ), senza tuttavia il rigore formale proprio della formulazione dell'accusa nel processo penale ( Cass. civ. sez. lav., sent. 18 giugno 2002, n. 8853 , in Riv. it. dir. lav. 2003, II, 91).
Riguardo al canone della “immediatezza”, dalla copiosa produzione giurisprudenziale (ex multis, Cass. civ., sez. lav., sent. 1 3 dicembre 2010, n. 25136 in Riv. it. dir. lav. 2012, I, 79, con nota di L. Lazzeroni; Cass. civ. sez. lav., sent. 23 aprile 2004, n. 7724 ; Cass. civ., sez. lav., sent. 9 settembre 2003, n. 13190 ) se ne evince una definizione “elastica”, nel senso che la contestazione dell'addebito deve sì intervenire in stretta prossimità con la condotta del lavoratore, ma tenendo conto della particolarità delle infrazioni e dell'eventuale margine temporale necessario al datore di lavoro per il loro accertamento, in considerazione anche della complessità dell'organizzazione aziendale (cfr., da ultimo, Cass. civ., sez. lav., sent. 25 gennaio 2016, n. 1248 ).
Proprio la relatività di tale concetto, che dunque non può non comportare una discrezionalità nella valutazione giudiziale, costituisce il perno attorno al quale ruota la vicenda oggetto della sentenza in commento, ove il datore di lavoro aveva formalmente contestato gli addebiti al lavoratore a considerevole distanza di tempo dalla conclusione dell'indagine interna che li aveva compiutamente disvelati.
Ebbene, tale lasso temporale, durante il quale le responsabilità del lavoratore avevano comunque trovato ulteriore e più solida conferma, viene ritenuto però ingiustificato – in relazione al principio di tempestività – sulla base di solidi precedenti di legittimità, i quali consentono di individuare abbastanza chiaramente i limiti temporali posti all'avvio del procedimento disciplinare.
Secondo gli enunciati della Suprema Corte (da ultimo, Cass. civ., sez. lav., sent. 5 ottobre 2015, n. 1 9830 ) , il dies a quo a partire dal quale il datore di lavoro deve – con la relativa “immediatezza” consentita dalle circostanze del caso concreto – procedere alla formale contestazione degli addebiti, può individuarsi nel momento in cui egli « abbia elementi tali da fargli ritenere ragionevolmente sussistenti le infrazioni»senza possibilità di «procrastinarla fino a quando non abbia acquisito l'assoluta certezza dei fatti (cfr. Cass. n. 21633/13; Cass. n. 3532/13; Cass. n. 1101/07)».
Dunque, il fondato sospetto dell'inadempimento contrattuale e della sua attribuibilità al dipendente costituisce la condizione necessaria e sufficiente per la promozione dell'azione disciplinare.
Un secondo tema con il quale si confronta la sentenza in esame è quello relativo alle conseguenze della violazione del canone della tempestività della contestazione disciplinare, alla luce delle modifiche apportate dalla L. n. 92/2012 all'apparato sanzionatorio tradizionale per i licenziamenti illegittimi.
Sul punto non v'è identità di vedute nella giurisprudenza di merito, circostanza resa ben evidente dalla sentenza in commento che, proprio su detta questione, ha riformato la decisione del Tribunale, la quale, a sua volta, aveva corretto l'ordinanza conclusiva della prima fase del procedimento di primo grado.
Si riscontrano così posizioni interpretative di segno profondamente diverso.
Da una parte, infatti, si riconduce la mancanza di tempestività della contestazione ad un vizio del procedimento disciplinare, che, al pari di qualsiasi violazione formale (fatta eccezione per quella relativa alla forma scritta del licenziamento), «dovrebbe trovare la propria regolamentazione all'interno del 6° comma dell'art. 18 secondo cui, in caso di accertata violazione della procedura de quo, si prevede la risoluzione del rapporto di lavoro con riconoscimento al dipendente di una mera indennità risarcitoria determinata, in relazione alla gravità della violazione procedurale, tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità» (Trib. S. Maria C.V. 2 aprile 2013; Trib. Ancona 31 gennaio 2013 ; Trib. Ancona 26 novembre 2012 . Nel medesimo senso si esprime la sentenza in commento).
Per altro verso, si ritiene che l'immediatezza della reazione datoriale integri un elemento costitutivo della giusta causa di recesso, tale, se mancante, da rivelarne l'insussistenza, con applicazione della sanzione di cui al «comma 5 dell' art. 18 L. 300/1970, con la conseguenza che deve dichiararsi risolto il rapporto di lavoro [...] e la convenuta deve essere condannata a corrispondere al ricorrente un'indennità risarcitoria onnicomprensiva»( Trib. Milano 27 marzo 2013 ).
Non mancano poi posizioni ancora più rigide (sul piano sanzionatorio) – quale quella espressa da Trib. Parma 18 settembre 2015, n. 297, nel giudizio a monte della decisione qui commentata, ma anche da Trib. Milano Ord. 15 novembre 2014 – le quali, facendo leva sulla duplice funzione del principio di immediatezza, così come delineata dalla giurisprudenza di legittimità (tra le altre, Cass. civ., sez. lav., sent. 13 febbraio 2012, n. 1995 ; Cass. civ., sez. lav., sent. 6 settembre 2006, n. 19159 ), mirante, da un lato, ad assicurare al lavoratore il diritto di difesa nella sua effettività, e, dall'altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile, ne fanno conseguire, ove appunto la contestazione sia tardiva, la preclusione all'esercizio del potere disciplinare e l'invalidità della sanzione irrogata.
In questo caso, «se la tardività della contestazione disciplinare ingenera il legittimo affidamento circa l'intenzione del datore di lavoro di non attribuire valenza disciplinare alla condotta del dipendente, nonostante il possibile rilievo penale, l'assenza di una condotta disciplinarmente rilevante, per scelta del datore dì lavoro manifestata in concreto mediante comportamento concludente integra la fattispecie della manifesta insussistenza del fatto, ai sensi dell'art. 18, 4° comma, S.L., con applicazione delle conseguenze ivi previste» ( Trib. Milano Ord. 15 novembre 2014 ), ovvero il diritto alla reintegrazione ed alla corresponsione delle retribuzioni globali dì fatto dal giorno del licenziamento alla effettiva reintegrazione, dedotto l'aliunde perceptum e l'aliunde percipiendum e nella misura massima di dodici mensilità.
In buona sostanza, secondo l'opinione sopra espressa, il difetto di immediatezza dellacontestazione denoterebbe una acquiescenza del datore di lavoro da ricondurre nell'ambito dell'insussistenza del fatto materiale contestato per assenza di antigiuridicità nel comportamento.
Rispetto a tali ultimi arresti si registra tuttavia una contraria posizione della Suprema Corte, espressamente richiamata nella sentenza in esame, che, pur restando piuttosto sibillina nella opzione finale, ha chiaramente affermato che la violazione del principio di immediatezza della contestazione, pur determinando la illegittimità del licenziamento disciplinare, «non rientra tuttavia nell'ambito previsionale del novellato art. 18, comma 4, legge n. 300/70, né in nessun'altra delle ipotesi contemplate in tale articolo che prevedano, oltre al pagamento di un'indennità risarcitoria, anche la condanna della parte datoriale alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali fino al giorno dell'effettiva reintegra».
Osservazioni
Il giudice di legittimità non ha però ben chiarito, lasciando così ancora aperta la partita, quale dei due regimi di tutela indennitaria (c.d “forte” e “debole”) debba applicarsi nel caso di contestazione intempestiva, avendo così concluso la propria motivazione: «… nel caso all'esame, pertanto, la tutela prestata è limitata al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva da determinarsi fra un minimo ed un massimo di mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. La determinazione di tale indennità risarcitoria, implicando una valutazione di merito con onere di specifica motivazione, dovrà essere effettuata dal Giudice del rinvio». ( Cass. civ., sez. lav., sent. 9 luglio 2015, n. 14324 ).
Più esplicitamente, sul punto, si è espressa Cass. civ., sez. lav., sent. 6 novembre 2014, n. 23669 (in Riv. it. dir. lav. 2015, I, 39, con nota di F. Martelloni), che, seppure con un obiter dictum ha inserito il requisito della immediatezza della contestazione disciplinare tra le regole procedurali la cui violazione da luogo alle tutele di cui al comma 6 dell' art. 18 st. lav . |