Tempestività della contestazione disciplinare

Daniela Bracci
02 Agosto 2017

Non è tardiva la contestazione disciplinare di presunti comportamenti illeciti del lavoratore risalenti a mesi prima, se avvenuta sulla base di una verifica casuale che l'azienda dimostri di non aver avuto motivo di compiere prima.
Massima

Non è tardiva la contestazione disciplinare di presunti comportamenti illeciti del lavoratore risalenti a mesi prima, se avvenuta sulla base di una verifica casuale che l'azienda dimostri di non aver avuto motivo di compiere prima.

Il caso

Una società di telefonia intima il licenziamento per giusta causa ad un suo dipendente, a seguito di contestazione disciplinare con la quale era stato addebitato al lavoratore di aver attestato timbrature in entrata ed in uscita dal posto di lavoro, dichiarandole come “servizio”, senza che vi fossero tali ragioni, in quanto non autorizzato dai superiori, inoltre di aver attestato la presenza al lavoro in sede diversa da quella abituale, con riferimento ad 89 uscite distribuite in 73 giorni compresi tra gennaio e luglio 2012, con n. 33 timbrature diverse. Il dipendente così estromesso ha quindi impugnato il licenziamento, lamentando la tardività della contestazione, nonché sostenendo che i fatti addebitategli dovessero essere ricondotti ad una ipotesi di illecito disciplinare sanzionato con provvedimento di natura conservativa, riconducibile all'art. 47 ccnl (ritardo o sospensione dell'orario di lavoro senza giustificato motivo). Secondo il ricorrente, la società, che aveva immediata disponibilità dei prospetti orari mensili dei dipendenti, ben avrebbe potuto esercitare un controllo sul rispetto dell'orario di lavoro, contestando con immediatezza eventuali mancanze, al fine di ottenere il recupero di tempi non lavorati; invero l'attesa di mesi prima di effettuare gli addebiti, risalenti al luglio 2012, ben oltre sei mesi dal primo ritardo, sarebbe stata eccessivamente lunga, con evidente tardività della contestazione.

Sia i giudici di merito che la Corte di Cassazione hanno escluso l'illegittimità del licenziamento, ritenendo tempestiva la contestazione disciplinare e considerando che la condotta tenuta dal lavoratore fosse riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 48 ccnl (condotta che provoca all'azienda grave nocumento morale o materiale o condotta consistente nel compiere in connessione con la svolgimento del rapporto, azioni che costituiscono delitto a termine di legge).

Le questioni

La questione affrontata dalla Suprema Corte aggiunge un ulteriore tassello al principio di relatività del concetto di tempestività dell'addebito in presenza di una contestazione disciplinare intimata a distanza di mesi dai fatti.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte ha confermato la sentenza di appello che aveva accertato la legittimità del licenziamento, ritenendo tempestiva la contestazione disciplinare effettuata dopo oltre sei mesi dai fatti, sulla base della considerazione che la condotta truffaldina posta in essere dal lavoratore infedele non aveva permesso al datore di poter rilevare in automatico le uscite anticipate non autorizzate effettuate dal dipendente.

In particolare la Corte ha evidenziato come tale scorrettezza non potesse essere rilevata dal mero esame mensile dei cartellini presenza; infatti ciò che risulta immediatamente dall'indicazione del badge è l'orario effettuato giornalmente e, quindi, eventuali scostamenti dall'orario normale, così che mensilmente è possibile controllare il rispetto dell'orario giornaliero da parte dei lavoratori. Nel caso in esame, invece, l'orario giornaliero di lavoro non risultava inferiore, perché erano state indicate uscite ed entrate che avrebbero dovuto corrispondere a sopralluoghi e servizi esterni. Solo la verifica a campione, effettuata dall'impresa nel luglio 2012, ha potuto consentire di scoprire che le timbrature in entrata e in uscita dal posto di lavoro, dichiarate dal lavoratore come servizio esterno o sopralluogo, non erano state autorizzate dai superiori. In sostanza la truffa del lavoratore è consistita nel “cammuffare” come uscite di servizio, uscite non autorizzate effettuate per motivi personali; in tal modo il dipendente poteva passare “indenne” il controllo mensile dei cartellini presenza, perché da tale verifica non potevano emergere anomalie. Solo la casualità di un controllo a campione effettuato mesi dopo dall'azienda ha consentito di poter scoprire la condotta illecita. Prima di tale controllo a campione, la parte datoriale non aveva modo di rilevare con i normali controlli la condotta illecita del lavoratore; pertanto la Cassazione ha ritenuto che la tempestività della contestazione disciplinare dovesse essere misurata solo dal momento in cui l'impresa era venuta a conoscenza dell'illecito, non configurandosi alcuna violazione del principio di correttezza e buona fede ex art. 1375 c.c. Invero, per come era strutturata la truffa attuata dal dipendente, nessun “campanello di allarme” poteva essere riscontrato dalla società con l'esame dei soli badge.

Osservazioni

La sentenza in commento pare configurare il principio di relatività della tempestività della contestazione disciplinare in modo meno rigoroso di quanto affermato dalla Cassazione con la recente sentenza n. 10069 del 17 maggio 2016. In quel caso infatti i giudici di legittimità hanno ritenuto che il datore di lavoro ha il potere, ma non l'obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti, contestando loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione, ove avesse controllato assiduamente l'operato del dipendente, ma con riguardo all'epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza (in senso conforme Cass. sez. lav., 15 ottobre 2007, n. 21546 che ha affermato che in materia di licenziamento per giusta causa il lasso temporale tra i fatti e la contestazione, ai fini della valutazione dell'immediatezza del provvedimento espulsivo, deve decorrere dall'avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non dall'astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi; in particolare, il datore di lavoro deve fornire la prova del momento in cui ha avuto piena conoscenza dei fatti da addebitare al lavoratore e non anche delle circostanze per cui non abbia potuto effettuare la contestazione a ridosso dei fatti).

Con la sentenza n. 15864/2017 in commento, la Cassazione ha incentrato il fatto non tanto sulle verifiche periodiche del badge, ma sulla condotta truffaldina del lavoratore, perciò la decorrenza è stata correttamente individuata non dal momento del controllo mensile delle presenze, ma da quando è stata scoperta (peraltro casualmente) la falsità delle attestazioni del lavoratore.

Diverso sarebbe stato il caso di uscite anticipate non autorizzate, effettivamente registrate come tali; infatti, in questo caso, la società sarebbe stata potenzialmente in grado di riscontrare fin da subito (con il controllo mensile dei tabulati di presenza) la condotta illecita del dipendente. Pertanto in tal caso, l'eventuale scoperta del fatto avvenuta a mesi di distanza avrebbe comportato una contestazione tardiva, perché, in violazione del principio di correttezza di cui all'art. 1375 c.c., la parte datoriale avrebbe ingiustificatamente ritardato un controllo potenzialmente eseguibile in tempi più ristretti.

Che succede però nel caso in cui il datore di lavoro scopra la condotta illecita tenuta dal suo dipendente solo anni dopo la commissione dei fatti? In questa ipotesi il lavoratore sarebbe ancora in grado di difendersi, ricordando con sufficiente precisione quanto fatto anni prima?

Ebbene, la ratio del principio dell'immediatezza della contestazione disciplinare riflette l'esigenza dell'osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto di lavoro e non consente all'imprenditore – datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l'incertezza sulla sorte del rapporto, in quanto nel licenziamento per giusta causa l'immediatezza della contestazione si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro. Ovviamente il principio di tempestività della contestazione e del licenziamento disciplinare non può che essere relativo, dovendosi tenere conto della specificità della natura dell'illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l'espletamento delle indagini, tanto maggiore quanto più è complessa l'organizzazione aziendale (v. Cass. sez. lav., 20 giugno 2006, n. 14115); ma la relatività del principio di tempestività deve comunque essere valutata entro i binari imposti dal principio di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., con cui il datore di lavoro viene a scoprire l'illecito, ed il diritto di difesa del lavoratore ex art. 7 St. Lav. laddove i fatti contestati sono così risalenti nel tempo da non consentire l'esercizio di un diritto di difesa del lavoratore, deve escludersi la tempestività della contestazione disciplinare.