Danni e mobbing nel rapporto di lavoro

Marco Sartori
01 Febbraio 2024

Le riflessioni di giurisprudenza e dottrina in materia di danno nel rapporto di lavoro hanno ad oggetto, principalmente, l'analisi del perimetro e del contenuto degli oneri probatori in capo al prestatore di lavoro asserito danneggiato. In tale variegato e complesso panorama vengono in rilievo, innanzitutto, le fattispecie illecite nelle quali tipicamente si sostanzia la condotta datoriale foriera del danno. Sono identificabili, in questo primo contesto, ipotesi di comportamenti commissivi ovvero omissivi che si pongono in violazione di fondamentali precetti civilistici a presidio della corretta esecuzione del rapporto di lavoro.

Inquadramento

Le riflessioni di giurisprudenza e dottrina in materia di danno nel rapporto di lavoro hanno ad oggetto, principalmente, l'analisi del perimetro e del contenuto degli oneri probatori in capo al prestatore di lavoro asserito danneggiato. In tale variegato e complesso panorama vengono in rilievo, innanzitutto, le fattispecie illecite nelle quali tipicamente si sostanzia la condotta datoriale foriera del danno. Sono identificabili, in questo primo contesto, ipotesi di comportamenti commissivi ovvero omissivi che si pongono in violazione di fondamentali precetti civilistici a presidio della corretta esecuzione del rapporto di lavoro.

A questa

-

prima

-

fase di analisi ne segue una seconda, finalizzata a stabilire se (ed in quale misura) le predette condotte abbiano cagionato il danno (o i danni) oggetto di rivendicazione.

Gli approdi interpretativi, a volte molto sofisticati, relativi agli oneri di allegazione e prova in capo al lavoratore in ipotesi di contenzioso giudiziale, possono essere riassunti, in via di estrema sintesi, ai seguenti capisaldi:

  • i risultati, rispettivamente, della prima e della seconda fase devono essere tenuti separati e distinti, posto che, secondo orientamento giurisprudenziale granitico, “nessun danno è in re ipsa”. A tale stregua, il lavoratore non può omettere di specificamente allegare e provare sia gli estremi integrativi della condotta sia quelli del danno (il quale ultimo, in quanto non in re ipsa, giammai può automaticamente dedursi dalla sola allegazione della condotta, pur se gravemente illecita);
  • le attività di allegazione e la prova del danno non devono condurre a duplicazioni risarcitorie della medesima lesione (sia essa una aggressione ad un interesse patrimoniale ovvero non patrimoniale). A tale stregua, il lavoratore non può invocare in giudizio una pluralità di voci risarcitorie per il ristoro di un pregiudizio – patrimoniale o non patrimoniale – identico.

Tali basilari principi verranno illustrati in maggiore dettaglio, nelle relative concrete declinazioni nell'ambito del rapporto di lavoro, nei paragrafi che seguono.

Condotte foriere di un danno alla persona nel rapporto di lavoro: il demansionamento

Fra le condotte datoriali maggiormente frequenti che, nel panorama giurisprudenziale, integrano un tipico antecedente di domande del lavoratore volte al risarcimento di un danno alla persona, assumono rilievo centrale i casi di violazione dell'

art. 2103 cod. civ.

, il quale, fra l'altro, stabilisce i limiti entro i quali il datore di lavoro ha diritto, anche su base unilaterale, di variare le mansioni assegnate al lavoratore.

La norma civilistica, a seguito delle modificazioni introdotte dal

D.

Lgs

.

25 giugno 2015, n. 81

(recante Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni) ha profondamente mutato il perimetro per il valido esercizio dello ius variandi.

Per quanto rileva in questa sede, può in estrema sintesi affermarsi che, alla stregua del riformulato testo dell'

art. 2103 cod. civ.

:

  • sul piano delle variazioni “in senso orizzontale”, la vecchia nozione di equivalenza è stata sostituita dalla nuova previsione, di natura formale, secondo cui il lavoratore può essere unilateralmente assegnato a mansioni appartenenti «allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte»;

  • sul piano delle variazioni “in senso verticale”, al datore di lavoro viene oggi attribuita la facoltà di unilateralmente assegnare il lavoratore a mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale. Tale facoltà può essere esercitata esclusivamente (i) nelle ipotesi di modifica degli assetti organizzativi aziendali incidenti sulla posizione del lavoratore, nonché (ii) nelle ulteriori ipotesi eventualmente previste dalla contrattazione collettiva, anche aziendale. In ambedue le fattispecie, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento (ad eccezione degli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa).

In questo rinnovato scenario, è verosimile attendersi nuovi filoni giurisprudenziali relativi ad asseriti danni (di natura patrimoniale o non patrimoniale) che il lavoratore lamenti di avere subito in ragione del mancato rispetto dei limiti, da parte del datore di lavoro, dell'

art. 2103 cod. civ.

In questo panorama, è già sorta la questione se il riformulato

art. 2103

cod. civ.

sia applicabile unicamente in relazione agli atti di assegnazione a nuove mansioni intervenute dopo l'entrata in vigore del

D.Lgs. n. 81/2015

(25 giugno 2015) oppure, se, viceversa, il relativo ambito di applicazione possa estendersi a situazioni di asserito demansionamento già prodottesi in data anteriore al 25 giugno 2015, ma ancora in essere successivamente a tale data.

Meritano di essere segnalate, con riferimento a tale quesito, due sentenze della giurisprudenza di merito che si sono pronunciate in senso diametralmente opposto l'una dall'altra.

In evidenza

: Giurisprudenza di merito

La valutazione della liceità della unilaterale assegnazione datoriale a mansioni differenti rispetto a quelle precedentemente svolte deve essere effettuata alla luce del nuovo

art. 2103 cod. civ.

, come riformulato dal

D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81

, anche laddove il contestato demansionamento abbia cominciato a manifestarsi anteriormente rispetto alla data di entrata in vigore del medesimo

D.lgs. n. 81/2015

(25 giugno 2015). Conseguentemente, la situazione sostanziale manifestatasi in data successiva alla data di entrata in vigore del

D.Lgs. n.

81/2015

deve valutarsi alla luce del nuovo dato normativo, mentre il “vecchio”

art. 2103 cod. civ.

costituisce il referente normativo per l'accertamento delle situazioni di asserito demansionamento prodottesi sino al 25 giugno 2015.

(

Tribunale di Roma, Se

zione Lavoro, 30 settembre 2015

)

In evidenza

: Giurisprudenza di merito

Il discrimen per l'applicazione del nuovo “testo” dell'

art. 2103 cod. civ.

, nella formulazione risultante dalle modifiche operate dal

D.Lgs. n. 81/2015

, in luogo del “vecchio” testo della norma civilistica nella sua versione anteriore alla predetta riformulazione, risiede nella data di verificazione del fatto storico generatore del contestato demansionamento, dimodoché trova esclusiva applicazione la previgente disciplina laddove esso sia iniziato in data anteriore al 25 giugno 2015, a nulla rilevando che la situazione illecita continui a prodursi oltre tale data.

(

Tribunale di Ravenna, Sezione Lavoro, 30 settembre 2015

)

Il mobbing

Secondo un arresto giurisprudenziale ormai consolidato, il mobbing consiste in una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico del lavoratore, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.

In questo contesto, deve ritenersi sussistente la fattispecie del mobbing laddove il lavoratore fornisca specifica prova di condotte illeciti (ad esempio, eventuali frasi denigratorie proferite dal datore di lavoro e/o dai superiori gerarchici del lavoratore; ripetuti comportamenti diretti ad ottenere le dimissioni del lavoratore; ipotesi di demansionamento) e/o di comportamenti intrinsecamente leciti (ad esempio, procedimenti disciplinari ravvicinati nel tempo per addebiti di modesta gravità), i quali, tuttavia, valutati ex post nella loro progressione storica, trovino la loro unica giustificazione nell'illegittimo intento del datore di lavoro di estromettere il lavoratore bersaglio di tale condotte dalla vita aziendale.

In evidenza: Giurisprudenza di legittimità

Ai fini della configurabilità del mobbing devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i componenti lesivi (nel caso di specie, la S.C. ha ritenuto integrata la fattispecie del mobbing a fronte dell'accertato abuso e della strumentalità dell'esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro in quanto unicamente volto ad estromettere il dipendente dall'azienda, Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 20 dicembre 2017, n. 30606)

In evidenza: Giurisprudenza di legittimità

Poiché il mobbing rappresenta una specificazione del divieto di agire intenzionalmente a danno altrui, devono necessariamente essere escluse dall'orbita della fattispecie tutte quelle vicende in cui fra datore di lavoro e lavoratore si registrano semplicemente posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro. (Nella fattispecie, è stata accertata un'irreversibile situazione di conflittualità tra il neurochirurgo ricorrente, il primario, i medici del reparto e gli specializzandi, attribuibile, secondo i testimoni, ad aspetti caratteriali, comportamenti ed esternazioni dello stesso, che aveva determinato l'intervento della direzione sanitaria al fine di tutelare la regolare funzionalità della struttura e che ben giustificava, ad avviso dei giudici, sia il provvedimento di trasferimento che l'assegnazione ad un'altra unità, Tribunale Udine, Sezione Lavoro, 17 marzo 2017, n. 51).


Il licenziamento ingiurioso

La giurisprudenza ha identificato la fattispecie del licenziamento ingiurioso laddove il recesso datoriale cagioni un danno alla persona del lavoratore per effetto delle modalità o della forma di comunicazione dell'atto di recesso.

Nelle sentenze che si sono occupate del tema, è stata rimarcata l'esigenza di tenere rigorosamente separate e distinte (i) da un lato, la questione relativa alla sussistenza della giustificazione del licenziamento, il cui onere probatorio grava sul datore di lavoro che ha intimato il recesso e (ii) dall'altro lato, la diversa questione relativa ai danni (ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge nelle ipotesi di licenziamento ingiustificato) eventualmente cagionati dalle illegittime modalità di comunicazione del licenziamento, il cui onere grava sul lavoratore asserito danneggiato.

In applicazione di tali principi:

  • non sono state ritenute riconducibili ad ipotesi di licenziamento

    ingiurioso

    i casi di recesso meramente ingiustificato, strumentale o pretestuoso. A tale stregua, ad esempio, la Suprema Corte ha cassato

    la decisione dei giudici del merito che, al fine di ritenere la natura ingiuriosa

    e vessatoria del licenziamento, avevano valorizzato circostanze che attenevano piuttosto alla sua illegittimità, quali le modalità ed effettività della realizzata cessione di ramo d'azienda e la realtà organizzativa nella quale il licenziamento si era inserto, caratterizzata da nebulosità della situazione di fatto e della politica societaria (

    Corte di Cassazione, Sezione Lavoro,

    19 novembre 2015, n. 23686

    ):

  • invece, sono stati ravvisati gli estremi di ingiuriosità del licenziamento nella condotta del datore di lavoro il quale aveva dato pubblicità dall'atto di licenziamento, notiziandone tutti i dipendenti e comunicando di avere posto termine al rapporto di lavoro in quanto il lavoratore non aveva rispettato l'orario di lavoro aziendale (

    Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 16 maggio 2006, n. 11432

    ).

In evidenza: Giurisprudenza di legittimità

In tema di risarcimento dei danni da licenziamento

illegittimo, l'indennità spettante

ex art. 18 l. n. 300 del 1970

al dipendente illegittimamente licenziato è destinata a risarcire il danno intrinsecamente connesso alla impossibilità materiale per il lavoratore non reintegrato di eseguire la propria prestazione lavorativa. La previsione e la corresponsione dell'indennità

ex art. 18 l. n. 300/1970

non escludono che il lavoratore licenziato e non reintegrato possa avere subito danni ulteriori alla propria professionalità o alla propria immagine a causa del licenziamento

e della mancata reintegrazione. Tuttavia, a differenza del risarcimento dei pregiudizi economici che si configurano come ineliminabili e immancabili conseguenze dell'inattività lavorativa da

licenziamento

illegittimo, ai quali si riferisce l'indennità di cui all'

art. 18 l. n. 300/1970

, grava sul lavoratore l'onere di provare di avere subito danni alla propria professionalità, alla propria immagine, alla propria dignità e alla propria salute ulteriori e diversi da quelli già indennizzati attraverso l'attribuzione della indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto per il periodo intercorrente tra il licenziamento

e la reintegrazione, nonché pure che tali danni siano derivati da un comportamento

ingiurioso

e/o persecutorio del datore di lavoro.

(

Tribunale di Roma, Sezione Lavoro,

22

aprile

2015

)

I danni alla persona cagionati dalla violazione di norme giuslavoristiche

Prima di scendere all'esame dei danni che vengono in rilievo nelle fattispecie sopra ricordate a titolo esemplificativo – demansionamento, mobbing e licenziamento ingiurioso – occorre rimarcare che, proprio a causa delle molteplici forme che possono assumere gli effetti dannosi della condotta datoriale, la giurisprudenza ha sottolineato l'indefettibile esigenza che il lavoratore identifichi con precisione il danno o i danni che ritenga di avere subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in atto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno.

A tale stregua è stato precisato che non è sufficiente prospettare l'esistenza della condotta illecita e, sul tale presupposto, formulare una generica domanda di risarcimento del danno, dovendosi, al contrario, dare specifica allegazione e prova dell'an e del quantum del danno, anche mediante l'ausilio della prova presuntiva.

In evidenza: Giurisprudenza di legittimità

In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 4 gennaio 2018, n. 82)

In evidenza: Giurisprudenza di merito

Deve rigettarsi la domanda risarcitoria allorché la parte attrice nulla abbia dedotto per dimostrare l'esistenza di un danno risarcibile quale conseguenza dell'asserita negazione di un proprio diritto. In particolare, il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non può mai ritenersi "in re ipsa", dovendo invero essere debitamente allegato e provato da chi lo invoca (Corte d'Appello Genova, Sezione Lavoro, 21 settembre 2016, n. 337).

Le tipologie di danno alla persona che, nella vastissima casistica di pronunce della giurisprudenza del lavoro, sono conseguenza tipica delle illecite condotte datoriali esemplificativamente illustrate nei precedenti paragrafi sono riconducibili alle bipartizione civilistica del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale.

Ha natura patrimoniale il danno alla professionalità, il quale, può consistere sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno.

Per quanto attiene al primo profilo, la giurisprudenza ha rimarcato che il danno alla professionalità non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l'esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo (Tribunale di Milano, 10 ottobre 2011, est. Greco).

Per quanto attiene al secondo profilo, anche per il danno derivante dalle perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, occorre che il lavoratore ne dia prova

in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state, frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 16 settembre 2015).

In evidenza: Giurisprudenza di legittimità

Il danno professionale conseguente al demansionamento può consistere nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Tale danno non è “in re ipsa”, essendo necessario che il lavoratore precisi fatti e circostanze da cui si possa almeno presumere che in concreto vi sia stata la perdita di cognizioni acquisite nel precedente incarico, ovvero dimostri la perdita di occasioni favorevoli, siano esse consistenti in ulteriori potenzialità occupazionali o in maggiori possibilità di guadagno, indicando quali aspettative di progressione professionale siano state frustrate dal demansionamento (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 17 febbraio 2017, n. 4264).

In relazione alle ipotesi di danno non patrimoniale, vengono tipicamente in rilievo le ipotesi di danno biologico e di danno esistenziale.

Il danno biologico si configura laddove sia riscontrabile una lesione dell'integrità psico-fisica e, sul piano probatorio, presuppone uno specifico accertamento medico legale.

In evidenza: Giurisprudenza di legittimità

In relazione al lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, va tenuto distinto il danno da usura psico-fisica che deriva dalla mancata fruizione del riposo dopo sei giorni di lavoro dall'ulteriore danno alla salute o danno biologico che si concretizza, invece, in un'infermità del lavoratore determinata dall'attività lavorativa non seguita dai riposi settimanali. Nella prima ipotesi, il danno sull'an deve ritenersi presunto e il risarcimento può essere determinato spontaneamente, in via transattiva, dal datore di lavoro con il consenso del lavoratore, tramite ricorso a maggiorazioni o compensi previsti dal contratto collettivo o individuale per altre voci retributive; nella seconda ipotesi, invece, il danno alla salute o biologico, concretizzandosi in un'infermità del lavoratore, non può essere ritenuto presuntivamente sussistente ma deve essere dimostrato sia quanto alla sussistenza, sia quanto al nesso eziologico, a prescindere dalla presunzione di colpa insita nella responsabilità nascente dall'illecito contrattuale.

(

Corte di Cassazione, Sez. Lav., 20 ottobre 2015, n. 21225

)

Il danno esistenziale, a sua volta, consiste nel pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diversa quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno (Corte di Cassazione, Sez.Lav., 4 gennaio 2018, n. 82;

Corte di Cassazione 26 ottobre 2011, 22298

).

In evidenza: Giurisprudenza di legittimità

In tema di risarcimento del danno esistenziale, va confermata la decisione dei giudici di appello che ha ritenuto non risarcibile il pregiudizio conseguente al mero ritardo nell'adempimento d'una prestazione previdenziale (nella specie, trattamento economico di maternità), atteso che le difficoltà economiche allegate dalla ricorrente quale effetto del ritardo nel percepire il trattamento previdenziale potevano astrattamente determinare negative ricadute di ordine patrimoniale e/o incidere sulla qualità della vita, ma non assurgere ad intollerabile lesione della dignità umana, in assenza di prova specifica in ordine all'impossibilità di soddisfare interessi primari (quali, ad esempio, quelli alla casa, al nutrimento, allo studio, alla salute).

(

Corte di Cassazione, Sez. Lav., 4 febbraio 2016, n. 2217

)

Riferimenti

Normativi

  • Art. 2103 cod. civ.

  • Art. 2087 cod. civ.

  • Art. 2043 cod. civ.

  • Art. 2059 cod. civ.

Giurisprudenza

Per i recenti orientamenti sul tema, v.  C. Appello Milano sez. lav., 27 dicembre 2023, n. 969  ,  Trib. Vibo Valentia sez. lav., 26 ottobre 2023, n. 736 , con commento di D. Tambasco,  Stress lavoro correlato: responsabilità datoriale per condotte vessatorie episodiche o mancanza di serenità dell'ambiente di lavoro Cassazione, Sez. Lav., 14 dicembre 2023, n. 35066, con commento di D. Tambasco, Licenziamento per giusta causa, condotte extralavorative e molestie nella recente giurisprudenza di legittimità

  • Corte di Cassazione, Sez.Lav., 4 gennaio 2018, n. 82;
  • Corte di Cassazione, Sez.Lav., 17 febbraio 2017, n. 4264
  • Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 20 dicembre 2017, n. 30606
  • Corte d'Appello Genova, Sezione Lavoro, 21 settembre 2016, n. 337
  • Trib. Roma, Sez. Lavoro, sentenza del 30 settembre 2015

  • Trib. Ravenna, Sez. Lavoro, sentenza 30 settembre 2015

  • T.A.R. Torino, Sez. I, 10 luglio 2015, n. 1168

  • Corte di Cassazione, Sez.  Lavoro, 8 gennaio 2016, n. 158

  • Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, 19 novembre 2015, n. 23686

  • Corte di Cassazione, Sez.  Lavoro, 16 maggio 2006, n. 11432

  • Tribunale di Roma, Sez. Lavoro, 22 aprile 2015

  • Tribunale Cassino,  Sez.  Lavoro, 10 gennaio 2014 n. 8

    Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, 26 ottobre 2011, 22298

  • Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, 4 febbraio 2016, n. 2217