I controlli difensivi tra disciplina statutaria e riforma del Jobs Act: i percorsi della giurisprudenza
10 Ottobre 2017
Premessa
Il tema dei c.d. controlli difensivi, di “creazione” prevalentemente giurisprudenziale e oggetto di ampie e non sopite discussioni, si inserisce nel crinale che dipana il potere di controllo (del datore di lavoro) dalla tutela della dignità e riservatezza del lavoratore e che trova la sua fonte di legittimazione nello Statuto dei lavoratori.
In linea generale, va sottolineato che la subordinazione del prestatore di lavoro si realizza con la sottoposizione di quest'ultimo “alle dipendenze e sotto la direzione” (ex art. 2094 c.c.) del datore di lavoro, al quale, specularmente, spetteranno i poteri di conformazione della prestazione lavorativa, di controllo della medesima e di esercizio del potere disciplinare, a fronte di possibili inadempienze contrattuali.
Tuttavia l'implicazione dello stesso lavoratore (con le sue energie fisiche o intellettuali) nella stessa prestazione lavorativa comporta che l'esercizio del potere di controllo del datore di lavoro, qui in discussione, deve essere “circondato” da limiti, tali da evitare che quest'ultimo, seppure legittimamente esercitato sulla prestazione, non investa, viceversa, la stessa persona del lavoratore, il quale, peraltro, non rinunzia, come cittadino, ai diritti costituzionalmente garantiti.
Pertanto il “confronto” tra potere direttivo e tutela del lavoratore, se trova il suo momento di emersione normativa già nel testo costituzionale (ex art. 41, secondo comma, della Costituzione), poi viene compiutamente declinato nel titolo I dello Statuto dei lavoratori, laddove, come ci ricordava la relazione illustrativa dell'allora Ministro Brodolini, lo Statuto si proponeva “di contribuire in primo luogo a creare un clima di rispetto della dignità e libertà umana nei luoghi di lavoro, riconducendo l'esercizio dei poteri direttivo e disciplinare dell'imprenditore nel loro giusto alveo e cioè in una stretta finalizzazione allo svolgimento delle attività produttive”.
In tal modo lo Statuto dei lavoratori, se viene a costituire il punto di equilibrio tra poteri del datori del lavoro di lavoro e la tutela della libertà e dignità del lavoratore, sotto il primo versante ne traccia anche i “confini”, per cui l'esercizio dei primi non potrà che incalanarsi all'interno del dettato normativo. Tale puntualizzazione preliminare assume un significativo valore sistematico che consente di ritenere le manifestazioni del potere di controllo del datore di lavoro necessariamente inserite all'interno della disciplina statutaria, nonostante i tentativi, fatti propri da un diffuso orientamento giurisprudenziale, di inserire margini ulteriori di elasticità (appunto i c.d. controlli difensivi) all'esercizio del poteri del datore di lavoro. All'impianto statutario si affianca ora un ulteriore blocco normativo - quello costituito dalla disciplina del D.Lgs. n. 196 del 2003 sul trattamento dei dati personali – il quale, in relazione all'introduzione dei processi tecnologici e alle circolazione (informatica) delle informazioni, viene ad arricchire di nuovi “limiti” le manifestazioni del potere di controllo del datore di lavoro. I controlli difensivi ex artt. 2 e 3 dello Statuto
Un primo riscontro dell'elaborazione giurisprudenziale in materia di controlli c.d. difensivi si colloca all'interno degli artt. 2 e 3 dello Statuto, i quali regolano, rispettivamente, l'impiego, da parte del datore di lavoro, delle guardie giurate per la tutela del patrimonio aziendale e la sorveglianza sui dipendenti da parte del personale, riconoscibile dai lavoratori.
Nella giurisprudenza si è consolidato l'orientamento che l'art. 2 dello Statuto non preclude al datore di lavoro di ricorrere ad agenzie investigative, purchè non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria riservata dall'art. 3 a quest'ultimo e ai suoi collaboratori, restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta commissione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o delle mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. sez. lav., 23 giugno 2011, n. 13789; Cass. 22 novembre 2012, n. 20613). In buona sostanza, rientra nel potere dell'imprenditore (ex artt. 2086 e 2104 c.c.) controllare, direttamente o mediante la propria organizzazione e, quindi, adibendo a mansioni di vigilanza propri dipendenti, anche se privi della licenza prefettizia di guardia giurata, al fine della tutela del proprio patrimonio aziendale (v. Cass. sez. lav., 18 febbraio 1997, n. 1455). Tale orientamento si ricollega a quello stesso orientamento giurisprudenziale che, con riguardo all'art. 3, relativo al personale di vigilanza, consente al datore di lavoro di procedere al controllo occultodei dipendenti (tramite, ad esempio, agenzie investigative) per rilevarne comportamenti illeciti esulanti dalla normale attività lavorativa (Cass. sez. lav., 18 febbraio 1997, n. 1455 cit.; Cass. 3 novembere 1997, n. 1076; Cass. 17 ottobre 1998, n. 7933; Cass. 23 marzo 2002, n. 3059; Cass. sez. lav., 9 febbraio 2008, n. 10221).
Da tale quadro giurisprudenziale può, da un lato, evincersi che la sostanziale “promiscuità” nel richiamare insieme gli artt. 2 e 3 dello Statuto (destinati, infatti, a regolare ambito diversi: il primo la tutela del patrimonio aziendale e il secondo la sorveglianza sui lavoratori) trova un punto di incrocio nella necessità di accertare condotte estranee all'esecuzione della prestazione lavorativa ma, al tempo stesso, come è stato segnalato da autorevole dottrina, la rilevazione delle prime, verificabili ex post, implica comunque in controllo su tuttoil comportamento solutorio del dipendente.
Pertanto, solo in una logica di inevitabilità del controllo occulto (intesa come extrema ratio, affidata al vaglio rigoroso dell'interprete, quando non sia praticabile altro mezzo alternativo di accertamento), può essere giustificata una deroga eccezionale al controllo palese dell'art. 3 dello Statuto ed, esclusivamente, per rilevare comportamenti penalmente illeciti nell'espletamento della prestazione lavorativa, non ritenendosi sufficiente, come pure, con orientamento oscillante, ritiene la stessa giurisprudenza, il mero “sospetto” ovvero l'”ipotesi” di commissione di reati (Cass., 23 aprile 2011, n. 13769). Anche in presenza del previgente testo dell'art. 4 dello Statuto la giurisprudenza aveva cercato di “isolare” la categoria dei controlli difensivi anche all'interno dei controlli realizzati attraverso impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo.
In particolare, quest'ultima, partita da un orientamento che voleva i controlli difensivi totalmente avulsi dal campo di applicazione della norma statutaria (Cass. sez. lav., 3 aprile 2002, n. 4746), li ha fatti poi rientrare nell'ambito dei controlli c.d. preterintenzionali (ex art. 4, secondo comma, dello Statuto), cioè quelli eventualmente “tollerati” a seguito dell'installazione di impianti ed apparecchiature di controllo, richiesti da esigenze organizzative, produttive o di sicurezza del lavoro, previo accordo sindacale o autorizzazione amministrativa, a condizione però che i predetti controlli fossero diretti all'accertamento di comportamenti illeciti dei lavoratori, qualificabili come violazione di obblighi contrattuali (Cass. sez. lav., 17 luglio 2007, n. 15892).
Peraltro può individuarsi una linea interpretativa unificante nella stessa giurisprudenza, laddove includeva i controlli difensivi nella disciplina statutaria, quando questi ultimi avessero ad oggetto l'esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro (v. Cass. 23 marzo 2010, n. 4775; Cass. sez. lav., 1° ottobre 2012, n. 16622) ma, viceversa, li escludeva quando i medesimi erano volti alla tutela del patrimonio aziendale (da azioni delittuose penalmente rilevanti da chiunque provenienti e con possibilità di utilizzo delle probe nel processo penale) (Cass. pen., sez. III, 1° giugno 2010, n. 20772) e di beni estranei al rapporto di lavoro (Cass. sez. lav., 17 luglio 2007, n. 15892; Cass. sez. lav., 23 marzo 2012, n. 2722; Cass. sez. lav., 27 maggio 2015, n. 10955; App. Roma, 23 maggio 2015).
Tale conclusione, tuttavia, si espone al dirimente rilievo che, nel contesto normativo statutario non era possibile “isolare” un tertium genus di controlli, del tutto sottratti a quest'ultimo, tra i controlli ”a distanza”, assolutamente vietati dal primo comma dell'art. 4 St. lav. e quelli consentiti (preterintenzionali) dal secondo comma, previo esperimento della procedura sindacale o amministrativa.
Infatti, il ragionamento seguito dalla Corte di legittimità viene ad avvitarsi su se stesso, nella misura in cui per “accertare” condotte illecite del dipendente (anche penalmente rilevanti) è necessario procedere al controllo dell'attività dei lavoratori vietato dal primo comma del previgente art. 4 dello Statuto e solo “tollerato” con le prescrizioni stabilite dal comma successivo. I controlli difensivi alla prova delle modifiche del Jobs Act
Il problema si ripropone oggi con la “riscrittura” dell'art. 4 dello Statuto ad opera dell'art. 23 D.Lgs. n. 151 del 2015 in attuazione del c.d. Jobs Act. Sotto un primo profilo le rilevate contraddizioni dell'orientamento giurisprudenziale hanno consigliato al legislatore di ricondurre i controlli difensivi all'interno dei controlli preterintenzionali, presidiati dall'accordo sindacale o dall'autorizzazione amministrativa. Ciò emerge chiaramente dalla riformulazione del primo comma dell'art. 4 che consente l'impiego di impianti audiovisivi o altri strumenti di controllo anche “per la tutela del patrimonio aziendale”.
Su questa soluzione, assolutamente pacifica alla luce del chiaro dettato normativo per i tradizionali strumenti di controllo “esterni” (ad esempio le telecamere) si annida un vulnus rappresentato dal nuovo testo del secondo comma, che esplicitamente sottrae al campo di applicazione della normativa statutaria gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa (si pensi al computer, al tablet, allo smartphone).
Questo costituisce il “grimaldello” utilizzato ora dalla giurisprudenza per gettare un ponte alla "costruzione" dei controlli difensivi anche nel nuovo quadro normativo (v. Trib. Roma, 24 marzo 2017), operazione interpretativa che, se appare alquanto discutibile, in presenza di un chiaro precetto normativo, poggia poi le sue basi sul patente travisamento nell'interpretazione del secondo comma dell'art. 4.
Quest'ultimo, infatti, sottrae all'operatività del primo comma (accordo sindacale o autorizzazione amministrativa) gli strumenti di lavoro, utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa, fermo rimanendo l'obbligo, in capo al datore di lavoro, di dotarsi di un regolamento interno di policy aziendale, nel quale richiamare il primo al corretto utilizzo dei medesimi, ovviamente per finalità esclusivamente lavorative.
Diverso discorso attiene all'eventualità che nello strumento di lavoro venga “incorporato” un sistema di controllo ovvero, attraverso il primo, possa essere monitorata (e controllata) l'attività del lavorativa; i casi nei quali ciò è possibile, con i conseguenti limiti, sono ora declinati da primo comma dell'art. 4.
Una diversa interpretazione, che legittimi il controllo in re ipsa, in considerazione dello stretto intreccio di funzioni di produzione e di controllo, che ci presentano i più recenti e sofisticati strumenti di lavoro, conduce, per uno verso, ad una disapplicazione della procedura sindacale o amministrativa e, per altro verso, alla conseguenza di aprire, sul punto, un paradossale distinzione tra impianti ”esterni” di controllo e strumenti di lavoro, facendo quasi derivare legittimità del controllo dalla tipologia dello strumento utilizzato. Rilievi conclusivi
Nel trarre le linee conclusive del discorso affiora,a volte, in giurisprudenza la tentazione di creare una “categoria”, quella dei controlli c.d. difensivi, che si impone trasversalmente nella disciplina statutaria e tenta di porsi al di sopra della medesima.
Un'impostazione metodologica in termini generali sembra ricordare il breve dibattito che accompagnò il varo dello Statuto, nel tentativo, anche li, di individuare nel normale svolgimento dell'attività aziendale, limite positivamente posto dall'art. 26 al proselitismo sindacale, un criterio generale sul quale confrontare anche tutti i diritti sindacali contenuti nel titolo III dello Statuto. Anche in quel caso, l'opinione assolutamente maggioritaria segnalò come i “limiti” all'esercizio dei diritto sindacali devono essere ricercati nei singoli precetti normativi.
Allo stesso modo ora il legislatore dello Statuto prende in considerazione la tutela del patrimonio aziendale, nell'art. 2 con riferimento alle funzioni svolte dalle guardie giurate e, con un perfetto “parallelismo” (testualmente introdotto adesso con il nuovo testo dell'art. 4) tra la disciplina dei controlli a distanza e il regime delle perquisizioni personali (art. 6). In questi due ambiti ci si affida al controllo sindacale o amministrativo per individuare il punto di equilibrio tra un potere di controllo, che può investire il comportamento del lavoratore e la sfera del suo riserbo (si pensi, in particolare, alle perquisizioni personali), e la tutela della riservatezza di quest'ultimo.
Proprio la necessità di garantire il patrimonio aziendale dinanzi a comportamenti penalmente rilevanti dei lavoratori giustifica, viceversa, l'orientamento della giurisprudenza che, in “deroga” all'art. 3 dello Statuto, autorizza il controllo “occulto”, come extrema ratio, quando, in sede di sorveglianza umana, non è altrimenti possibile “accertare” le condotte illecite dei lavoratori.
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