Contratto a termine stipulato oralmente, al lavoratore spetta il risarcimento del danno di cui all'art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001
10 Ottobre 2017
Massima
In materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile ex art. 36 D.Lgs. n. 165 del 2001 non deriva dalla mancata conversione del rapporto, bensì dalla prestazione in violazione delle norme imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte della Pubblica Amministrazione. Il caso
L'ordine degli Avvocati di Bergamo stipulava un contratto a termine in forma del tutto orale con una lavoratrice, per la sostituzione di altra con diritto di conservazione del posto, per il periodo dal 1/04/2008 al 30/09/2009.
A seguito di ricorso presentato dalla lavoratrice sia il Tribunale di Bergamo che la Corte di Appello di Brescia riconoscevano il diritto della prima a versi corrisposta l'indennità di cui all'art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001, per un ammontare pari a sei mensilità, quale forma di risarcimento a fronte della nullità della clausola appositiva del termine, essendo vietata nel pubblico impiego contrattualizzato la misura reale della conversione del contratto da tempo determinato in tempo indeterminato. Aggiungeva il Tribunale di prime cure, inoltre, che tale indennizzo a buon diritto poteva concorrere con la tutela minima prevista dall'art. 2126 c.c. concernente il diritto alla retribuzione in caso di prestazioni di lavoro di puro fatto.
Avverso le predette sentenze, l'Ordine degli Avvocati di Bergamo proponeva ricorso in Cassazione affidandosi a tre censure strettamente connesse tra loro.
Affermava l'Ente ricorrente, infatti, che in caso di assenza scritta della clausola appositiva del termine, e pertanto di sua nullità, non avrebbe dovuto trovare applicazione la tutela sancita dall'art. 36 del T.U. sul lavoro pubblico, quale autonoma fonte di responsabilità per il datore di lavoro pubblico, bensì esclusivamente quella prevista dall'art. 2126 del c.c.
A sostegno di ciò, l'Ordine sosteneva da un lato, l'inapplicabilità dell'art. 36 a un rapporto inesistente per assenza di forma scritta essendo tale una norma la cui ratio è finalizzata alla sanzione dell'utilizzo abusivo di contratti a termine da parte della P.A, e dall'altro la contraddittorietà della sentenza di secondo grado nel far conseguire, la tutela risarcitoria ex art. 36, “automaticamente”, da un rapporto, appunto, di lavoro di mero fatto.
La Corte di Cassazione rigettava tuttavia il ricorso ritenendo provato il danno a causa di plurime violazioni di legge commesse dal datore di lavoro. La questione
Ebbene, fulcro dell'intera vicenda è il riconoscimento o meno al lavoratore della tutela indennitaria prevista dall'art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 sul lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione in caso di contratto a termine stipulato in forma orale quale forma di tutela ulteriore rispetto a quella prevista dall'art. 2126 c.c.
Infatti, parte ricorrente sostiene la non cumulabilità delle due forme di tutela ritenendo che la disciplina prescritta dall'art. 2126 c.c. esaurisca ogni forma di obbligo a suo carico.
Appare evidente che a complicare la questione è la natura pubblica del datore di lavoro. Se si fosse trattato di lavoro privato avrebbe, infatti e certamente, trovato applicazione l'art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001 come più volte modificato, a cui sarebbe conseguita la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dal suo inizio.
Nel caso di specie invece ci troviamo di fronte ad un datore di lavoro avente natura pubblica e quindi con prevalente applicazione delle norme di cui al Testo Unico sul pubblico impiego relativamente alla parte concernente la nullità dei contratti. Le soluzioni giuridiche
Nel caso di specie, invece, ci troviamo di fronte ad un datore di lavoro avente natura pubblica e quindi con prevalente applicazione delle norme di cui al Testo Unico sul pubblico impiego relativamente alla parte concernente la nullità dei contratti.
Come noto, l'art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001, anche pur se più volte soggetto a modifiche normative, ha mantenuto di fondo sempre la medesima ratio: sanzionare l'uso illegittimo di forme di lavoro flessibile da parte della P.A. attraverso il riconoscimento al lavoratore di una tutela indennitaria ed esclusione, pertanto, di ogni forma di tutela reale quale la stabilizzazione del rapporto di lavoro attraverso la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. Funzione della norma è, infatti, quella di sovrastare l'autonomia contrattuale delle parti in materia di lavoro flessibile al fine di garantire l'integrità dei superiori principi dell'accesso al lavoro pubblico tramite concorso e della trasparenza.
Per tale motivo, sul punto statuisce la Suprema Corte che la tutela indennitaria opera non già come conseguenza della mancata conversione del contratto di lavoro, ma piuttosto come conseguenza della violazione di norme imperative trovando, dunque, piena applicazione nel caso sottoposto al suo giudizio dato e provato “il totale dispregio delle regole fissate dal diritto speciale del lavoro pubblico contrattualizzato” da parte dell'Ordine degli Avvocati di Bergamo.
Pertanto, concludono i giudici della Cassazione, come l'applicazione della norma in questione costituisca un profilo di responsabilità autonomo ed ulteriore rispetto a quello coperto dalla tutela prevista dall'art. 2126 c.c., discendendo dalla violazione di norme imperative quali quelle che prevedono l'uso della forma scritta per i contratti a termine.
Del resto, l'art. 2126 c.c. rappresenta una tutela minima per il lavoratore, al quale viene riconosciuto il diritto alla retribuzione in caso di contratto di lavoro nullo o annullabile, mentre l'art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 si pone un obbiettivo ulteriore, ovvero quello di sanzionare l'utilizzo illegittimo di prestazioni temporanee garantendo la prevalenza della legge sull'autonomia dei contraenti nell'uso tassativo delle formalità prescritte per il reclutamento del personale pubblico.
Una diversa soluzione avrebbe infatti contrastato con la ratio dell'art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001, norma specifica per il settore pubblico. Se il legislatore avesse ritenuto sufficiente, infatti, la tutela prescritta dall'art. 2126 c.c., non avrebbe coniato una norma giuridica ad hoc.
La soluzione giuridica sposata dalla Cassazione è pertanto coerente con le prime due sentenze di merito, che erano giunte alle medesime conclusioni. Osservazioni
La sentenza in commento risulta essere particolarmente interessante in quanto, se da un lato ribadisce alcuni principi fondamentali in materia di uso illegittimo del contrato a termine nel pubblico impiego, dall'altro affronta una questione giuridica particolare, ovvero la concorrenza della tutela giuridica posta dall'art. 2126 c.c. con quella prevista dall'art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001.
In relazione al secondo aspetto, in dottrina si è spesso argomentato sulla concorrenza tra l'art. 2126 c.c. e l'art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001. Se anche uguali sembrano i presupposti di applicazione, la prima noma tutela il lavoratore in caso di contratto nullo, prevedendo il suo diritto alle retribuzioni maturate ed alla copertura previdenziale. Diversamente, invece, l'art. 36 ha natura di indennità, e quindi una funzione sanzionatoria nei confronti della Pubblica Amministrazione che ha agito illegittimamente in violazione di norme imperative. Differenti sono dunque i beni giuridici tutelati e la ratio posta alla base delle due previsioni.
Pertanto, la soluzione a cui approda la Cassazione, per cui la tutela minima garantita dall'art. 2126 c.c. non osta all'ulteriore riconoscimento dell'indennità prescritta dall'art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001, appare priva di ogni vizio logico. Del resto, la giurisprudenza comunitaria ha da tempo messo in evidenza e chiarito come il danno derivante dall'uso illegittimo e fraudolento di forme contrattuali di lavoro flessibile debba qualificarsi come danno in re ipsa con esonero probatorio per il lavoratore, qualificabile come danno da perdita di chance.
Nel caso di specie, il fatto di aver corrisposto la retribuzione alla lavoratrice assunta in sfregio di norme imperative di legge non esonera il datore di lavoro pubblico al pagamento dell'indennità risarcitoria di cui all'art. 36 del T.U. sul pubblico impiego.
Infine, la sentenza in commento appare interessante anche sotto un diverso profilo. I magistrati, infatti, se ribadiscono un principio ormai noto, ovvero che l'indennità risarcitoria non discenda dalla mancata conversione del contratto ma dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte della P.A. si allontanano tuttavia delle conclusioni raggiunte dalla Cassazione nella sentenza resa a Sezioni Unite n. 5072 del 2016, laddove, statuendo in merito all'ammontare del danno, ritengono non provato il danno da perdita di chance, il quale dovrebbe essere invece ritenuto implicito.
Nella sentenza in commento priorità logica nell'applicazione dell'art. 36 viene, pertanto, dato alla ratio che ha ispirato la norma, quale l'esigenza di ripristinare il potere della legge sull'autonomia delle parti nella conclusione di contratti a termine.
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