Il rischio di caduta dall'alto
23 Ottobre 2017
La dizione «cadute dall'alto», presuppone la presenza - e la definizione - di un'altezza che distingua due luoghi: un gradino è sufficiente a creare un «alto» e un «basso»? O ne servono due, tre, un metro, quanto? Il legislatore, con il d.lgs. n. 81/2008, ha coniato la seguente definizione, presente nell'art. 107: «si intende per lavoro in quota l'attività lavorativa che espone il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m rispetto ad un piano stabile». In presenza di lavori in quota sussistono precisi obblighi legislativi diretti, elencati nel capo II del titolo IV del d.lgs. n. 81/2008. Sono lavori in quota la manutenzione delle coperture prive di parapetti, i lavori su ponteggi, i lavori con tecniche alpinistiche, ecc. In assenza di lavori in quota, cioè lavori con rischio di caduta inferiore a due metri rispetto a un piano stabile, il legislatore fin dal d.lgs. n. 626/1994 ha previsto che nella valutazione dei rischi – obbligo indelegabile del datore di lavoro – si individuino anche le misure di prevenzione e protezione per ridurre o eliminare i rischi di caduta che, ovviamente, possono sussistere anche al di sotto dei due metri di legge necessari per i lavori in quota. Inoltre la normativa (d.lgs. n. 626/1994 prima e d.lgs. n. 81/2008) si occupa delle attrezzature che possono causare caduta dall'alto: rispettarla aiuta a eliminare o ridurre i rischi.
Non è affatto detto che ogni lavoratore sia idoneo a svolgere lavori in quota, mentre tutti i lavoratori possono trovarsi a svolgere lavori con rischio di caduta dall'alto. Il tema è quindi di rilevanza generale e in queste note si cerca di affrontarlo nella maniera più sistematica possibile dal punto di vista dell'amministratore condominiale, trascurando solo i cantieri edili perchè negli stessi sono presenti tecnici professionisti (i coordinatori per la sicurezza ed anche, indirettamente, i direttori dei lavori) che dovrebbero essere in grado per i loro ruoli di prevenire o reprimere le violazioni in tema di prevenzione delle cadute.
Linee giurisprudenziali
Prima della definizione di lavori in quota, quindi prima del 2008, la normativa tecnica in materia di edilizia già prevedeva, in sostanza, che fino a due metri di altezza si potesse, a certe condizioni, lavorare senza parapetti. In particolare – seppur l'art. 16 del d.P.R. n. 164/1956 richiedesse per i lavori eseguiti ad un'altezza superiore a due metri opere provvisionali o precauzioni atte a eliminare i pericoli di caduta – l'uso dei ponti su cavalletti, con tavole bene accostate ma senza parapetti, era esplicitamente previsto fino a due metri di altezza dagli artt. 24 e 51. Ancora oggi, in regime di d.lgs. n. 81/2008, i ponti su cavalletti sono – come erano – perfettamente leciti, senza parapetti, fino a due metri di altezza del piano di calpestio del lavoratore. Esiste però una linea giurisprudenziale che afferma lacontinuità normativa tra l'abrogato art. 16 del d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, che impone di adottare misure di sicurezza per lo svolgimento di lavori ad una «altezza superiore ai metri due», e il vigente articolo 122 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che prescrive l'adozione di precauzioni per l'esecuzione di «lavori in quota». Affermazioni più o meno simili sono presenti in numerose sentenze della Suprema Corte (Cass. pen., sez. IV, 5 luglio 2017, n. 32638; Cass. pen., sez. IV, 20 settembre 2016, n. 39024; Cass. pen., sez. IV, 4 febbraio 2014, n. 15028; Cass. pen., sez. IV, 3 ottobre 2012, n. 21268). In particolare, le pronunce più recenti (n. 32638/2017 relativa a scale portatili e n. 39024/2016 relativa a ponti su cavalletti) affermano concetti che suscitano forti perplessità:
Senza entrare nel merito delle decisioni della Corte di Cassazione, il legislatore non ha mai chiesto di eseguire obbligatoriamente particolari misure di prevenzione per lavori fino a due metri di altezza. La formulazione attuale della legge è chiara: fino a due metri dal suolo (inteso come piano stabile: il terreno piano o una pavimentazione sufficientemente ampia) non si deve parlare di «lavori in quota», cioè con rischio di caduta da oltre due metri. Articoli specifici – ne esistono sia per i ponti su cavalletti, sia per le scale portatili – e il concetto di valutazione del rischio, ormai introdotto nella legislazione italiana da vent'anni, coprono anche i lavori con rischio di caduta da un'altezza inferiore ai due metri. Non c'è quindi alcuna necessità di pretendere continuità di articoli diversi di leggi con campi di applicazione diversi, per affermare che il rischio di caduta sussista tutte le volte che le mani lavorano ad oltre due metri di altezza, perché non è vero: chiunque alzando una mano, o al massimo mettendosi in punta di piedi, raggiunge i due metri di altezza senza rischiare di cadere. Senza contare i risvolti pratici paradossali: montiamo parapetti per pulire una portafinestra, sostituire una lampadina, afferrare un faldone in uno studio legale?
Le scale portatili del dipendente
La sostituzione della lampadina ci porta ad esaminare l'attrezzatura indubbiamente più pericolosa per il dipendente condominiale, cioè la scala portatile, quella che espone la lavoratrice o il lavoratore al rischio di caduta dall'alto. Normato fin dagli anni '50 del secolo scorso, l'utilizzo della scala portatile è soggetto a criteri ben precisi, sulle caratteristiche fisiche, meccaniche e tipologiche dell'attrezzatura e sull'uso che se ne può fare. La tecnologia ha fatto molti passi avanti (si pensi alle scale di altezza regolabile differenziata), ma il fattore umano è ancora predominante: non tutte le scale vanno bene per ogni situazione, anzi. Inoltre, l'art. 111, comma 3, del d.lgs. n. 81/2008 prescrive che si possa utilizzare «una scala a pioli quale posto di lavoro in quota solo nei casi in cui l'uso di altre attrezzature di lavoro considerate più sicure non è giustificato a causa del limitato livello di rischio e della breve durata di impiego oppure delle caratteristiche esistenti dei siti che non può modificare», per cui oltre due metri l'uso della scala deve essere preventivamente valutato con attenzione ancora maggiore. Infine, alcune lavorazioni non si possono eseguire su una scala portatile senza un aiuto a terra, anche in questo caso per esplicita previsione normativa, e scale portatili su balconi o scale fisse non si devono appoggiare (altrimenti si rischia di volare nel vuoto). Appare quindi evidente che l'abitudine di far acquistare al dipendente o di inviare «da studio» una scala portatile nuova, se prima non si sono valutate con attenzione le condizioni di utilizzo, sia una pratica pericolosa e poco oculata, in quanto demanda alla competenza, al buon senso ed alla cautela della lavoratrice o del lavoratore una valutazione del rischio che resta, volente o nolente, in capo al datore di lavoro. Non utilizzare nessuna scala sarebbe la scelta più intelligente. Nelle pulizie questa strada è praticabile, perché quasi tutti i vetri alti possono essere puliti con attrezzi dal manico estensibile, senza scala. La sostituzione delle lampadine richiede, oltre alla formazione di base sull'intervento vero e proprio, la valutazione sull'idoneità della scala portatile al punto di appoggio, sulle capacità del dipendente di utilizzo corretto della scala, sulla possibilità di eseguire il lavoro in solitaria. Ove anche una di queste valutazioni non fosse positiva, il ricorso agli elettricisti è l'unica via corretta e tutelante per il datore di lavoro. Un'ultima parola sulla quantità di vecchie scale portatili abbandonate, o forse riposte, nelle parti comuni di cantine, solai, locali tecnici. Se una di queste scale portatili, teoricamente «di nessuno», causasse un infortunio all'incauto condomino o manutentore, il ruolo di amministratore pro tempore di quel condominio potrebbe divenire molto scomodo. E' necessario, urgente, eliminare tutte le scalette desuete o pretendere che vengano ricoverate nelle unità immobiliari private e non lasciate a disposizione di chiunque nelle parti comuni.
La manutenzione delle coperture e i sistemi anticaduta
Le opere sui tetti sono una delle principali preoccupazioni degli amministratori di condominio, soprattutto nei casi – ancora molto frequenti – di coperture prive di parapetti e di qualsivoglia possibilità di aggancio con cinture o funi di sicurezza. Come sempre dobbiamo partire dalle richieste del legislatore che oggi, in regime di d.lgs. 81/2008, prevede che nei lavori in quota qualora non siano state attuate misure di protezione collettiva è necessario che i lavoratori utilizzino idonei sistemi di protezione (assicurati a parti stabili delle opere fisse o provvisionali) composti da diversi elementi, non necessariamente presenti contemporaneamente e conformi alle norme tecniche, quali: a) assorbitori di energia; b) connettori; c) dispositivo di ancoraggio; d) cordini; e) dispositivi retrattili; f) guide o linee vita flessibili; g) guide o linee vita rigide; h) imbracature. Quanto sopra si può sintetizzare in: non si possono fare lavori senza parapetti se non ci si può vincolare correttamente da qualche parte. Se manca la concreta possibilità di vincolarsi a una struttura portante, direttamente con i dispositivi di protezione individuale o indirettamente con sistema anticaduta provvisorio, allora entra in vigore un obbligo, indiretto ma concreto, di installare una sistema anticaduta permanente, cioè un insieme di pali, ganci, funi, cavi, anelli o altro che permetta di percorrere – vincolati al sistema permanente – in sicurezza ogni parte della copertura in esame. Per installare il sistema permanente si deve fare riferimento alle norme tecniche, la più famosa delle quali è la norma UNI EN 795, nella sua ultima e criticatissima versione. Sul punto, va detto che molte realtà locali hanno legiferato in merito, di regola prescrivendo l'installazione di sistemi anticaduta permanenti per nuove costruzioni o comunque interventi pesanti sulle coperture. Tra i primi la provincia di Bergamo, la regione Toscana, a seguire le regioni Lombardia, Liguria, Umbria, Marche, Veneto, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, recentemente anche la Sicilia ed il Piemonte. I tecnici sul territorio sono certamente in grado di assistere gli amministratori di condominio sulle caratteristiche di obbligatorietà o di semplice opportunità che ogni caso particolare può richiedere, senza dimenticare che la legge nazionale vige ovunque e ad essa si deve comunque rispondere, anche in assenza di sistema permanente. Eventualmente, non eseguendo il lavoro. Il lavoro in fune
Il lavoro con tecniche alpinistiche è da qualche anno considerato con grande favore nei condomini, per alcuni vantaggi oggettivi rispetto all'utilizzo di tecniche più tradizionali come i lavori sui ponteggi: ridottissima invasività del cantiere, minore numero di operatori, possibilità di evitare impianti di allarme, maggiore velocità di esecuzione, spesso anche significativi risparmi di denaro. Dal punto di vista della sicurezza sul lavoro, però, il committente è bene che sia cauto nella scelta della tipologia di lavorazione perché non è possibile, a priori e senza valutazioni preliminari, considerare equivalenti e alternative le tecnologie di lavoro in fune e con ponteggi. È il d.lgs. 81/2008 a pretendere cautela, imponendo al datore di lavoro di un'impresa di disporre «affinché siano impiegati sistemi di accesso e di posizionamento mediante funi alle quali il lavoratore è direttamente sostenuto, soltanto in circostanze in cui, a seguito della valutazione dei rischi, risulta che il lavoro può essere effettuato in condizioni di sicurezza e l'impiego di un'altra attrezzatura di lavoro considerata più sicura non è giustificato a causa della breve durata di impiego e delle caratteristiche esistenti dei siti che non può modificare». Questo è il testo del comma 4 dell'art. 111, sanzionato penalmente, la cui rigida applicazione renderebbe pressoché inutilizzabile il lavoro in fune quando sia tecnicamente possibile installare ponteggi o piattaforme mobili, fatti salvi i casi di «breve durata» uniti alle caratteristiche dei siti. Il concetto di breve durata lascia pericolosamente spazio alle interpretazioni personali – e questo è il primo motivo di cautela. In assenza di lavori di breve durata, qualunque cosa si intenda, o in assenza di caratteristiche dei siti che impediscano l'impiego di una «attrezzatura di lavoro considerata più sicura», il comma 4 dell'art. 111 permette ad un organo di vigilanza di sanzionare il datore di lavoro di un'impresa esecutrice per violazione delle leggi sulla sicurezza del lavoro. Paradossalmente, un'impresa specializzata in lavori in fune dovrebbe abbandonare le funi e montare un ponteggio tutte le volte in cui questo è tecnicamente fattibile. Indipendentemente dall'aspetto economico. Questo apparente paradosso è il principale motivo di cautela per il committente, perché un'impresa sanzionata è di fatto un'impresa che non può continuare a lavorare.
Che cosa succede se un committente sceglie una lavorazione in fune quando è tecnicamente possibile montare un ponteggio? Alcuni organi di vigilanza hanno ritenuto di interrompere lavori in fune ipotizzando, principalmente nei confronti del committente, un difetto di scelta. E qui l'argomento si complica, non solo per il committente. Sempre il d.lgs. n. 81/2008, al comma 1 dell'art.90 (obblighi del committente o del responsabile dei lavori), prevede che «Il committente o il responsabile dei lavori, nelle fasi di progettazione dell'opera, si attiene ai principi e alle misure generali di tutela di cui all'articolo 15, in particolare: a) al momento delle scelte architettoniche, tecniche ed organizzative, onde pianificare i vari lavori o fasi di lavoro che si svolgeranno simultaneamente o successivamente». Nelle misure generali di tutela di cui all'art. 15, alla lettera i), troviamo «la priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale». La fune sarebbe misura di protezione individuale rispetto a ponteggi o piattaforme mobili, che vengono considerati misura di protezione collettiva: ecco quindi la violazione di un dovere (dare priorità alle misure collettive) e la ipotesi di sanzionabilità del committente. Che resta, però, un'ipotesi, perché né l'art. 90, comma 1, né l'art. 15 sono sanzionati. Sono note sanzioni elevate al committente ai sensi dell'art. 90, comma 9, che però si riferisce non tanto alla scelta della tipologia di lavoro, quanto alla verifica di idoneità tecnico professionale relativa alla tipologia scelta. Il comma 9 fornisce ampio dettaglio di come si debba svolgere la verifica di idoneità, per cui se i destinatari di quelle sanzioni – sempre che avessero svolto correttamente la verifica di idoneità – avessero resistito, molto probabilmente avrebbero vinto il ricorso. Nel condominio l'assenza di una sanzione per il committente che abbia «sbagliato» la scelta si somma, per l'organo di vigilanza, alla necessità di individuare chi sia il committente che effettivamente sceglie; la responsabilità penale è personale e l'analogia non è ammessa nel diritto penale. Certamente non si può imputare ad un amministratore la scelta eseguita da un'assemblea condominiale, perché il mandato assembleare comporta che l'amministratore rispetti la legge dando esecuzione alla delibera: la scelta avviene prima che l'amministratore sia configurabile come committente per la sicurezza del lavoro da eseguire e chi sceglie sono i condomini, non l'amministratore. Se la delibera riguardasse lavori illeciti, naturalmente, sarebbe nulla e l'amministratore non dovrebbe dare corso ai lavori. Ma per individuare un illecito bisogna che sia chiaro ed evidente a quale reato si incorre deliberando lavori in fune piuttosto che lavori con ponteggi. E il reato deve prevedere una sanzione che, nel caso specifico, è difficile individuare. Conviene ribadire quanto detto in precedenza: in assenza di motivazioni valide ad escludere la possibilità di montare ponteggi (debolezze strutturali del piano di appoggio, contemporanea impossibilità di puntellazione, ecc.) o di utilizzare piattaforme mobili, la scelta di lavorare in fune deve essere meditata attentamente, per le implicazioni concrete che una scelta non oculata potrebbe comportare.
Applicazioni pratiche: parti comuni pericolose
Scale, balconi o terrazzi comuni con parapetti troppo bassi (l'altezza considerata accettabile «di legge» è 100 cm) e coperture grandi o piccole senza parapetti: queste sono le principali tipologie di parti comuni pericolose presenti nei condomini italiani, spesso presenti in quantità ridotte ma non per questo meno insidiose. Per conoscere quali siano questi luoghi, per individuare se sia possibile accedervi o meno in sicurezza tramite sistema anticaduta provvisori, ecco che il concetto di «valutazione del rischio» – mai obbligo di legge – ritorna attuale. Analizzare le parti comuni per riconoscere le criticità è uno dei primi compiti che dovrebbe assolvere il nuovo amministratore, se necessario tramite un tecnico esperto. Non si sta parlando di DVR, ma di una presa di coscienza delle famose «condizioni di sicurezza» (di cui al registro di anagrafe condominiale ex art.1130 c.c.) che si può estrinsecare in una relazione cartacea a firma di professionista o anche in un foglio di carta semplice, purché elenchi i problemi e metta in condizione il condominio di risolverli. Lucio Fattori, Francesco Marcandelli, Guida ai lavori in quota. DPI, PLE, scale, ponteggi e lavori in copertura. Valutazione dei rischi, normativa e casi operativi, EPC editore, 2014. Cristoforo Moretti, Millescale 1999-2014 – Archivio storico sulla sicurezza dei lavoratori nel condominio – ANACI Milano, 2014 Danilo De Filippo, Lavori in quota e cadute dall'alto, Maggioli ed., 2013 Cristoforo Moretti, Sicurezza sul lavoro nel condominio – Boopen, 2011
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