Competenza per rapporti di lavoro con soggetti falliti: cognizione del giudice del lavoro e “vis attractiva” dopo le recenti riforme sui licenziamenti

Nicola Morgese
11 Ottobre 2017

La questione dei rapporti fra cause di lavoro e fallimento è da sempre al centro di un dibattito ermeneutico fondato sulla corretta interpretazione ed armonizzazione degli artt. 24 e 52 del R.D. n. 267 dell'8 marzo 1942 e 409 e 413 c.p.c. Gli esiti di tale dibattito, incentrato sulla portata della vis attractiva del foro fallimentare e condensatosi in uno schema di riparto fra tipologie di azioni (costitutive e di mero accertamento da un lato, di condanna e di accertamento funzionale dall'altro), sembrano oggi rimessi in discussione alla luce delle recenti riforme legislative in materia di licenziamento. In attesa del consolidarsi in materia di orientamenti univoci, l'Autore, dopo aver ripercorso il tradizionale discrimen, prova ad individuare una possibile strada da seguire, nel rispetto dei principi di effettività della tutela giurisdizionale e di ragionevole durata del processo di cui agli articoli 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e 111 della Costituzione.
Il tradizionale schema di riparto

Come noto, la questione dei rapporti tra cause di lavoro e fallimento è governata, sul piano legislativo, dall'art. 24 del R.D. n. 267 dell'8 marzo 1942 che, nella versione successiva alle modifiche apportate con D.Lgs n. 5 del 9 gennaio 2006 e con D.Lgs. n. 196 del 12 settembre 2007, stabilisce quanto segue: “Il tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore”.

Trattasi di disposizione che enuncia la regola della c.d. vis attractiva fra il foro fallimentare e tutte le domande incidenti sul patrimonio del fallito, compresi gli accertamenti prodromici alla pretesa creditoria, e tanto anche in deroga, con riferimento alle cause già pendenti, al principio della perpetuatio iurisdictionis di cui all'art. 5 c.p.c. secondo cui, una volta instaurato validamente un rapporto processuale, nessun mutamento sopravvenuto può influire su di esso e far venir meno la competenza del giudice adito.

In particolare, l'art. 24 deve essere letto, ai fini sistematici, in combinato disposto con l'art. 43, regolante i rapporti processuali nel corso del fallimento, e con l'art. 52, 2 comma della Legge fallimentare, in virtù del quale “Ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o trattato ai sensi dell'art. 111, primo comma, n. 1), nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge”.

Tale ultima disposizione, a sua volta, rinviando agli artt. 92 e ss. della Legge fallimentare (“Capo V”), detta il principio di esclusività del procedimento di accertamento del passivo: rito speciale al quale resta assoggettata la verifica dei crediti della massa fallimentare nonché ogni azione proposta da terzi contro il fallimento.

Ed invero, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. sez. lav.,14 settembre 2007, n. 19248), una volta intervenuto il fallimento del datore di lavoro, le domande avanzate dal lavoratore per veder riconoscere il proprio credito e il relativo grado di prelazione, devono essere proposte come insinuazione nello stato passivo dinanzi al Tribunale fallimentare, il cui accertamento è l'unico titolo idoneo per l'ammissione allo stato passivo e per il riconoscimento di eventuali diritti di prelazione.

L'applicazione della normativa citata non pone dunque, come precisato (Cass. civ, sez. VI, 20 settembre 2013, n. 21669, che richiama Cass. civ., sez. I, 12 maggio 2011, n. 10485), una questione di competenza fra diversi giudici ma più propriamente, di rito: ragion per cui l'eventuale declinatoria di competenza resa dal giudice del lavoro in favore di quello fallimentare, a fronte di una domanda volta a far valere nelle forme ordinarie una pretesa creditoria nei confronti del fallimento, non sarà assoggettabile a regolamento di competenza ma impugnabile solo con l'appello, trattandosi, anche a dispetto della qualificazione attribuita, di statuizione sul rito che la parte è obbligata a seguire.

Tanto premesso sul piano generale, può dunque affermarsi che, secondo la richiamata regola, le domande volte alla condanna del datore di lavoro-fallito al pagamento di somme di denaro, nonché quelle di accertamento comunque prodromiche e funzionali alle prime sono improponibili dinanzi al giudice del lavoro e, qualora pendenti dinanzi allo stesso, andranno dichiarate improcedibili, con pronunzia di rito relativa ad una questione "litis ingressum impediens" (Cass. civ., sez. I, 18 maggio 2005, n. 10414; Cass. sez. lav., 2 agosto 2011, n. 16867)

Viceversa, per le domande di accertamento mero (ad es. domanda di riconoscimento dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, declaratoria di illegittimità del licenziamento) nonché per quelle costitutive (tese ad es. all'annullamento del licenziamento e di reintegra nel posto di lavoro) permane l'ordinaria competenza del giudice lavoro ex art.. 409 c.p.c., non venendo in tali casi in rilievo crediti nei confronti del fallito il cui accertamento sarebbe subordinato al rito speciale di cui all'art. 92 e ss. Legge fallimentare.

Si tratta di una quota consistente di contenzioso, giustificata dal perdurante interesse del dipendente ad ottenere, anche a seguito del fallimento, una pronuncia che, oltre a mirare al concreto ripristino della prestazione lavorativa all'esito dell'eventuale ripresa dell'attività aziendale (conseguente all'esercizio provvisorio ovvero al ritorno in bonis), è suscettibile di assicurare le altre utilità connesse al ripristino del rapporto in quiescenza, fra cui, come specificato dalla Suprema Corte (Cass. sez. lav., 3 febbraio 2017, n. 2975 che testualmente richiama Cass. sez. lav., 28 marzo 2003, n. 6612 e Cass. sez. lav., 3 novembre 1998, n. 11010) l'eventuale ammissione ad una serie di benefici quali le indennità di cassa integrazione, di disoccupazione, di mobilità.

Aggiungasi sul piano processuale che, nei casi de quibus, la cognizione del giudice del lavoro non riguarda soltanto le domande di impugnazione del licenziamento e di condanna del datore alla reintegrazione nel posto di lavoro, dirette ad ottenere una pronuncia costitutiva, ma anche quella di condanna generica al risarcimento dei danni mediante il pagamento di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegra: trattandosi di istanza meramente riproduttiva del contenuto dell'art. 18 St. Lav., e conseguenziale alle richieste principali di dichiarazione di inefficacia del licenziamento, che non comporta alcun accertamento aggiuntivo sul "quantum" del risarcimento né, quindi, impone lo scorporo della domanda per la preventiva verifica in sede di accertamento dello stato passivo avanti ai competenti organi della procedura fallimentare a tutela degli altri creditori, dovendosi ritenere, sul piano della "ratio legis", l'inutilità di una simile verifica, idonea ad appesantire ingiustificatamente la durata del processo (Cass. sez. lav, 29 settembre 2016, n. 19308)

Per completezza di esposizione, è opportuno puntualizzare che la questione in esame non si pone, almeno nei descritti termini, nei casi di imprese assoggettate a liquidazione coatta amministrativa, ai sensi e per gli effetti degli artt. 194 e ss. del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 ed all'amministrazione straordinaria delle grandi imprese di cui al D.Lgs. n. 270 dell'8 luglio 1999.

In tali fattispecie, infatti, pur dovendo specularmente distinguersi fra domande di mero accertamento e costitutive da un lato e domande di condanna al pagamento di somme di denaro e di accertamento funzionale dall'altro, non opera, per effetto del mancato richiamo dell'art. 24 Legge fallimentare da parte della rispettiva disciplina, la vis attractiva in favore del Tribunale fallimentare.

L'esclusione del riparto non osta, tuttavia, in analogia allo schema visto, ad una disciplina differenziata per le due categorie di domande, tale per cui mentre per le prime (domande di accertamento e/o costitutive), va riconosciuta la perdurante competenza del giudice del lavoro, per le seconde (domande costitutive e di accertamento funzionale) opera, diversamente dal caso del fallimento, disciplinato dall'art. 24 Legge Fallimentare, la regola della improponibilità o improseguibilità della domanda per difetto temporaneo di giurisdizione, per tutta la durata della fase amministrativa di accertamento dello stato passivo, ferma restando, come rimarcato in giurisprudenza (Cass. sez. lav., 20 agosto 2013, n. 19271, Cass. sez. lav., 23 luglio 2004, n. 13877; Cass. sez. lav., 5 dicembre 2000, n. 15447; Cass. sez. lav., 27 luglio 1999, n. 8136; Cass. sez. lav., 20 luglio 1995, n. 7907), l'assoggettabilità del provvedimento attinente allo stato passivo ad opposizione od impugnazione davanti al Tribunale fallimentare ai sensi dell'art. 209 Legge fallimentare.

Nodi problematici

Lo schema del riparto appena tracciato risultava di agevole applicazione nel previgente sistema di cui all'art. 18 della L. 300 del 20 maggio 1970 allorquando, a fronte della regola, valevole per le aziende con più di quindici dipendenti, della reintegra del lavoratore illegittimamente licenziato, le uniche ipotesi di domande di accertamento funzionale (id est strumentali a pretese di natura economica) erano confinate, salvo casi di espressa rinuncia del lavoratore alla reintegrazione, alle ipotesi di tutela obbligatoria, di cui alla L. n. 604 del 15 luglio 1966 e di tutela meramente economica, come quella offerta dai CCNL per i dirigenti.

Per converso, a seguito delle L. n. 92 del 28 giugno 2012 di riforma dell'art. 18 dello Statuto del lavoratori e del D.Lgs. n. 23 del 4 marzo 2015, la chiarezza del richiamato discrimen risulta offuscata per effetto della riduzione della tutela reale a casi del tutto residuali (licenziamenti intimati in forma orale, nulli o discriminatori ex art. 2 del D.Lgs. n. 23 del 4 marzo 2015.), a fronte di un nuovo regime di tutele di tipo indennitario/risarcitorio divenuto, nell'ambito dell'ordinamento giuslavoristico, la regola generale.

A complicare il quadro si aggiungono poi, nel richiamato contesto normativo, le ipotesi in cui, per espressa volontà del legislatore tecnico (si ricordi sul generale tema L. Cavallaro, “Il processo del lavoro al tempo dei 'tecnici'" in Riv. Trim. di diritto e procedura civile, 2013, 67, 1), gli effetti sanzionatori conseguenti ad una statuizione di invalidità del licenziamento risultano differenziati in ragione della diversa gradazione del vizio accertato.

È il caso, ad esempio, del licenziamento intimato, nella vigenza della L. n. 92/2012, in difetto del giustificato motivo oggettivo: ipotesi in cui, a seconda che l'insussistenza del motivo addotto appaia “manifesta” o meno, il giudice potrebbe accordare al lavoratore la tutela reintegratoria ovvero quella indennitaria, dichiarando l'intervenuta risoluzione del rapporto.

Ebbene, in tali ipotesi, fra le quali vanno ricomprese quelle del licenziamento disciplinare per insussistenza del fatto materiale contestato, l'esito del giudizio non sarà dunque prevedibile ex ante, potendosi pertanto verificare che, anche a fronte di una domanda volta alla reintegra del lavoratore e astrattamente proseguibile nelle forme di cui al rito del lavoro (ordinario o speciale ex L. n. 92/2012), si pervenga ad una statuizione di condanna del datore di lavoro ad una somma di denaro, come tale assoggettabile al rito di cui al capo V della Legge fallimentare.

Ed invero, negli esempi citati, applicando pedissequamente lo schema di riparto tradizionale, il giudice del lavoro, una volta riconosciuto nella fattispecie un vizio del licenziamento suscettibile di tutela indennitaria, dovrebbe pervenire alla declaratoria di improcedibilità della domanda, in ossequio alla vis attractiva del foro fallimentare, ovvero (nei casi di liquidazione coatta amministrativa o di amministrazione straordinaria) di improseguibilità della stessa per difetto temporaneo di giurisdizione.

Tale lettura, nondimeno, oltre ad introdurre nello schema processuale delineato un grave elemento di incertezza, esporrebbe il lavoratore al rischio di incorrere anche nelle decadenza di cui all'art. 6 della L. n. 604/1966, essendo noto che la proposizione della domanda dinanzi al giudice del lavoro non produce, ai sensi dell'art. 2964 c.c., effetti interruttivi estendibili al successivo procedimento fallimentare, non operando peraltro il principio della traslatio iudicii.

Conclusioni

Al fine di superare l'impasse, sembra utile ricercare una interpretazione idonea a modulare il tradizionale criterio di riparto alla luce della sopravvenuta frammentazione delle tutele previste dal legislatore in tema di licenziamenti illegittimi e tale da impedire nella prassi soluzioni processualmente illogiche nonché confliggenti con i principi di effettività della tutela giurisdizionale e di ragionevole durata del processo di cui agli artt. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e 111 della Costituzione.

Non va peraltro sottaciuto, a sostegno della necessità di un rapido cambio di rotta che, a fronte della pienezza della cognizione riservata ex art. 409 e ss. c.p.c. al giudice del lavoro, quale giudice del rapporto nella sua complessità, il rito fallimentare, in quanto incentrato sul credito, appare spesso inadeguato a risolvere le questioni patologiche del rapporto lavorativo che si pongano a monte dell'accertamento della pretesa, come nel caso in cui sia richiesta una preliminare indagine in ordine alla legittimità/illegittimità del licenziamento.

La strada da percorrere, quindi, al fine di evitare che l'applicazione letterale della regola determini soluzioni irragionevoli rispetto ai suesposti principi, passa attraverso la semplificazione del tracciato discrimen, dovendosi prescindere, una volta proposta dinanzi al giudice del lavoro una domanda di invalidità del recesso, dalla natura della tutela in concreto apprestabile: trattandosi, pur sempre, sia nelle ipotesi di tutela risarcitoria sia di tutela indennitaria, di rimedi conseguenziali alla primaria declaratoria di illegittimità del licenziamento.

È in tal senso che, di recente, sembra muoversi la Suprema Corte che, seppur in una fattispecie disciplinata dalla normativa previgente e relativa ad impresa sottoposta a liquidazione coatta amministrativa, ha avuto modo di riformulare la tradizionale regola di riparto di competenze in termini utili a risolvere la segnalata aporia.

Ed invero, la Cassazione, con sentenza n. 15066 del 19 giugno 2017, pronunciandosi in un caso di licenziamento del dirigente insuscettibile di tutela reale, ha cassato la statuizione di improcedibilità del ricorso resa dal giudice del gravame, ritenendo erroneo, ai fini processuali, l'assunto secondo cui l'unica tutela applicabile al caso di specie sarebbe stata di tipo risarcitorio e quindi formalmente estranea al novero delle azioni costitutive.

In particolare, la Corte ha ricordato che il criterio discretivo per stabilire quali azioni del lavoratore possano rimanere al giudice del lavoro “è uno solo e molto chiaro”: restano al giudice del lavoro tutte le azioni non aventi ad oggetto la condanna della società datoriale al pagamento di una somma di denaro, tra le quali devono intendersi ricomprese quelle dirette ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, all'uopo non rilevando la circostanza che la tutela apprestabile risulti essere di tipo risarcitorio e non reintegratorio.

Nello specifico, in termini chiari e definitori, la Corte ha incluso nell'alveo delle azioni che devono essere proposte e proseguite davanti al giudice del lavoro e quindi delle azioni nonaventi ad oggetto la condanna al pagamento di una somma di denaro, tutte quelle dirette ad impugnare il licenziamento, per le quali la possibilità dell'insinuazione nello stato passivo dei relativi crediti risarcitori del lavoratore postula, in guida di presupposto necessario, che ne siano stati determinati l'an ed il quantum, da parte del giudice del lavoro.

Sulla scorta di tali rilievi, sembrerebbe quindi tracciato dalla giurisprudenza un percorso valido a fugare i dubbi prospettati in materia, ritenendosi confermato il tradizionale criterio di riparto secondo una distinzione fra domande che, prescindendo dagli effetti concreti della tutela apprestata dall'ordinamento, consenta, in ossequio agli artt. 6 e 13 CEDU e dell'art. 47 della Carta di Nizza, una tendenziale prevedibilità ex ante degli esiti del giudizio.

Guida all'approfondimento
  • F. Aprile e R. Bellè, "Diritto concorsuale del lavoro. Istituti giuridici del lavoro subordinato e profili aziendalistici delle procedure concorsuali", 2013
  • A. Caifa, "I rapporti di lavoro nelle crisi di impresa", Padova, 2004

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