Bancarotta: concorso formale e ne bis in idem

11 Ottobre 2017

Il presente lavoro è finalizzato a riassumere la posizione fatta propria dalla Giurisprudenza in ordine alle più rilevanti ipotesi di concorso formale tra reati di bancarotta e altri reati; si ripercorre altresì la connessa tematica relativa alla esperibilità di un secondo giudizio per un reato di bancarotta dopo che, nei confronti del medesimo soggetto, sia intervenuta sentenza irrevocabile per altro reato in concorso formale con quello di bancarotta, alla luce dell'importante sentenza recentemente resa sul punto dalla Corte Costituzionale nel caso Eternit.
Premessa

Il presente lavoro è finalizzato a riassumere la posizione fatta propria dalla Giurisprudenza in ordine alle più rilevanti ipotesi di concorso formale tra reati di bancarotta e altri reati; si ripercorre altresì la connessa tematica relativa alla esperibilità di un secondo giudizio per un reato di bancarotta dopo che, nei confronti del medesimo soggetto, sia intervenuta sentenza irrevocabile per altro reato in concorso formale con quello di bancarotta, alla luce dell'importante sentenza recentemente resa sul punto dalla Corte Costituzionale nel caso Eternit (Corte Cost. n. 200/2016).

Il concorso formale in generale

L'azione è definita in diritto penale come “il movimento corporeo dell'uomo, oggettivamente rilevabile, destinato a modificare il mondo esteriore, idoneo a offendere o mettere in pericolo un interesse tutelato dalla legge penale” (R. Garofoli, Manuale di diritto penale, parte generale, XI, Milano, 2015, 536). Essa, quindi, è intesa in senso naturalistico e può consistere in un unico movimento muscolare, oppure in una serie di atti fisici finalisticamente orientati a determinare un evento percepibile.

L'idea di condotta ha la funzione, nel diritto penale, di omogeneizzare e concettualizzare in chiave giuridica i singoli movimenti che costituiscono l'azione; la condotta (rectius, la condotta tipica), che può essere anche omissiva, è quindi definita come il comportamento umano complessivo, “cosciente e volontario, corrispondente di volta in volta ai singoli modelli descritti dalle fattispecie penali vigenti” (Garofoli, ibid., 535-536).

Il primo problema da affrontare riguarda proprio il concetto di unitarietà della condotta; si tratta cioè di capire quando la condotta posta in essere dall'agente possa considerarsi unica e quando, al contrario, debba concludersi che l'agente abbia posto in essere più condotte.

E' evidente che si sia in presenza di un'unica condotta, ad esempio, quando l'agente provochi il ferimento di un soggetto esplodendo, simultaneamente o in un brevissimo lasso di tempo, o comunque in un'unica cornice contestuale, più colpi di arma da fuoco, attingendo così in più punti il soggetto passivo.

Al contrario, le condotte sono molteplici nel caso in cui, ad esempio, il soggetto attivo colpisca la vittima con un pugno e, in altra occasione, magari in un giorno e in un luogo diverso, aggredisca nuovamente il soggetto passivo.

Il discrimen tra unità e pluralità di condotte risiede quindi nella contestualità e immediatezza con cui il soggetto agente ponga in essere le varie azioni recanti offesa all'interesse tutelato dalla norma incriminatrice.

La differenza tra unitarietà e pluralità di condotte ha naturalmente grande rilievo pratico; infatti, ove il soggetto abbia commesso più reati con più condotte, dovrà essere soggetto a punizione per entrambi i reati e le relative pene si sommeranno aritmeticamente, secondo quanto disposto dall'art. 73, comma 1, c.p. In tali casi, il concorso tra reati è detto materiale e il cumulo delle pene è anch'esso detto materiale.

Tuttavia, può succedere, e anzi accade con grande frequenza, che taluno possa commettere più reati con un'unica condotta.

In questa ipotesi, il concorso tra i reati commessi prende nome di concorso formale e il cumulo delle pene è detto giuridico, in quanto non consiste nella somma algebrica tra le singole pene previste per i diversi reati commessi, ma nella pena che dovrebbe infliggersi per il reato più grave, aumentata fino al triplo, ai sensi dell'art. 81, comma 1, c.p.

Il principio generale che regge il concorso formale è che nessun interesse rilevante per la legge penale può essere privato di tutela, e quindi si dovrà far luogo a punizione per ogni interesse leso, anche a fronte di un'unica condotta; tuttavia, il reo è ritenuto meritevole di un trattamento più mite rispetto ai casi di concorso materiale, essendo unica la deliberazione che ha portato alla commissione dei reati.

Ora, può accadere che una singola condotta sembri sussumibile in più norme incriminatrici; ciò tuttavia non basta affinchè possa considerarsi realizzata un'ipotesi di concorso formale, con conseguente applicazione del cumulo giuridico delle pene.

Si tratta quindi di capire quando il concorso di reati sia effettivo, dando luogo a concorso formale, e quando, viceversa, sia solo apparente; in tale ultimo caso, dovrà applicarsi solo una delle norme incriminatrici che sembrerebbero, a un primo esame, doversi applicare nel caso concreto.

Il codice penale offre tre diversi strumenti per distinguere un concorso formale effettivo di reati da uno apparente.

Il primo strumento è quello di cui all'art. 15 c.p., che introduce il principio di specialità: quando più norme penali regolano la medesima materia, si applica (solo) la norma speciale, che deroga quella generale. Il concetto di “stessa materia” di cui all'art. 15 c.p., secondo la Giurisprudenza tradizionale, riguarda l'interesse tutelato dalle norme incriminatrici coinvolte. Affinché possa applicarsi il principio di specialità, quindi, le norme incriminatrici devono essere preposte a tutela del medesimo interesse giuridico, o comunque di interessi omogenei, valendo il principio secondo cui è intollerabile che alcuni interessi rimangano privi di tutela.

Accertato che le norme in questione regolano, nei termini appena specificati, la stessa materia, occorre effettuare un raffronto strutturale tra le stesse al fine di accertarne l'eventuale rapporto di genere a specie. Una norma è speciale rispetto a un'altra quando contiene tutti gli elementi della norma generale, più un elemento, che specifica uno degli elementi descritti nella norma generale (specialità per specificazione) o che si aggiunge agli altri previsti nella norma generale (specialità per aggiunta). Il rapporto di specialità rilevante ai sensi dell'art. 15 c.p. è, per diritto vivente, solo quello unilaterale; si esclude quindi l'applicazione dell'art. 15 c.p., in particolare, nei casi di specialità bilaterale (o reciproca), in cui ciascuna fattispecie presenta reciproci elementi specializzanti rispetto all'altra.

Il secondo criterio è quello di sussidiarietà, che si verifica quando il Legislatore stesso stabilisce che una certa norma incriminatrice trovi applicazione solo ove il fatto non costituisca più grave reato.

L'ultimo criterio è quello di assorbimento, o consunzione, che si realizza (ai fini che qui ci occupano) nei casi di reati necessariamente complessi, e cioè quando, ai sensi dell'art. 84 c.p., “la legge considera come elementi costitutivi o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reato”.

Il divieto di bis in idem alla luce di Corte Cost., n. 200 del 2016

Ai sensi dell'art. 649 c.p.p., “l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto”.

Ora, si è visto sopra che, al fine di distinguere tra concorso formale effettivo e apparente di reati si fa riferimento a criteri che involgono il fatto nella sua dimensione giuridica anziché naturalistica, prendendo ad esame parametri quali il raffronto strutturale tra le fattispecie astratte e gli interessi tutelati dalle rispettive norme incriminatrici. Inoltre, occorre osservare che l'istituto del concorso formale governa le ipotesi di simultaneus processus per più reati realizzati a mezzo di un'unica condotta.

Diversa è la funzione del disposto di cui all'art. 649 c.p.p., che ha rilievo processuale e si applica nel caso in cui sul fatto oggetto di nuova contestazione si sia in precedenza formato un giudicato.

E profondamente diversi sono anche i criteri da adoperarsi nel giudizio di identità del fatto, rilevante per l'applicazione del divieto di bis in idem, rispetto a quelli, sopra descritti, utilizzati per l'individuazione del concorso apparente di norme.

Infatti, come ribadito nella recente sentenza (rif. Eternit) della Corte Costituzionale n. 200/2016 (in ilPenalista, con nota di Campoli, L'applicabilità della regola di giudizio del ne bis in idem: un tormentato percorso giurisprudenziale per nulla concluso), il giudizio di identità del fatto deve avere ad oggetto “la corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona” (Cass. Pen., n. 32352/2014), con esclusione, quindi, di ogni apprezzamento riguardante la dimensione giuridica del fatto (raffronto strutturale, interessi lesi etc.).

La Corte Costituzionale, nel citato intervento, espressamente manifesta “l'adesione ad una concezione rigorosamente naturalistica di condotta, nesso causale ed evento”, che compongono il fatto naturalisticamente inteso, già fatta propria dalla Corte Edu con le sentenze Zolotoukhine contro Russia del e Grande Stevens contro Italia del 2014.

In definitiva, “l'esistenza o no di un concorso formale tra i reati oggetto della res iudicata e della res iudicanda è un fattore ininfluente ai fini dell'applicazione dell'art. 649 c.p.p., una volta che questa disposizione sia stata ricondotta a conformità costituzionale […], perché è permesso, ma non è prescritto al giudice di escludere la medesimezza del fatto, ove i reati siano stati eseguiti in concorso formale” (ibid.).

Ora, una regola di diritto vivente “ha saldato il profilo sostanziale implicato dal concorso formale dei reati con quello processuale recato dal divieto di bis in idem, esonerando il giudice dall'indagare sulla identità empirica del fatto, ai fini dell'applicazione dell'art. 649 c.p.p.”. Infatti, “allo stato attuale del diritto vivente il rinnovato esercizio dell'azione penale è consentito, in presenza di un concorso formale di reati, anche quando il fatto, nel senso indicato, è il medesimo sul piano empirico, ma forma oggetto di una convergenza reale tra distinte norme incriminatrici, tale da generare una pluralità di illeciti penali” (ibid.).

Tale “regola di diritto vivente”, segnando “l'abbandono dell'idem factum”, non è conforme al principio di ne bis in idem contenuto all'art. 4, par. 7, CEDU, che, come noto, costituisce norma interposta ex art. 117, Cost.

Quindi, conclude la Corte Costituzionale, per la declaratoria di incostituzionalità dell'art. 649 c.p.p., nella parte in cui, secondo il diritto vivente, esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussista un concorso formale.

Bancarotta fraudolenta per distrazione e appropriazione indebita

Così ricostruiti in sintesi i tratti essenziali del concorso formale tra reati e riassunte le novità in tema di ne bis in idem portate dalla pronuncia del Giudice delle Leggi, si passerà ora a esaminare brevemente come tali principi vengano declinati dalla Giurisprudenza nel campo dei reati fallimentari.

Si è posto in primo luogo il problema del concorso tra bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e appropriazione indebita.

Commette il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, ai sensi dell'art. 216, comma 1, n. 1, l. fall., “se dichiarato fallito”, l'imprenditore che, “prima dell'intervento della sentenza di fallimento, abbia distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni”.

Commette il reato di appropriazione indebita, ai sensi dell'art. 646 c.p., il soggetto che, “per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso”.

Il caso è quello dell'imprenditore che si appropri di un bene aziendale e, successivamente, venga dichiarato il fallimento dell'impresa.

Egli, quindi, ha commesso un fatto di appropriazione indebita, che si è “trasformato” in condotta distrattiva con la dichiarazione di fallimento dell'impresa.

Si tratta di capire se il concorso formale sia effettivo, e quindi l'imprenditore debba essere punito per entrambi i reati (bancarotta e appropriazione indebita), o se tale concorso sia solo apparente, con conseguente applicazione di una sola delle norme incriminatrici suddette.

La Giurisprudenza risolve il problema facendo uso dell'ultimo dei criteri sopra riassunti che la legge penale offre per distinguere tra concorso effettivo e apparente, e segnatamente del principio di assorbimento caratteristico del reato complesso.

Si osserva infatti che “la bancarotta fraudolenta per distrazione è figura di reato complesso, che comprende tra i propri elementi costitutivi una condotta di appropriazione indebita del bene distratto, per se stessa punibile ai sensi dell'art. 646 c.p.” (Cass. Pen., n. 13399/2016; si veda la news, in questo portale). In altre parole, la bancarotta fraudolenta per distrazione non può essere commessa se non commettendo un'appropriazione indebita, alla quale segua poi il fallimento.

Il concorso è pertanto solo apparente quando, “oltre ad esservi perfetta identità della cosa su cui si sono concentrate le rispettive attività criminose e simultaneità delle attività stesse, unica risulti la destinazione data dal soggetto attivo ai beni da lui appresi indebitamente” (Cass. Pen., n. 37298/2010). Si è già visto infatti che, in caso contrario (ad esempio in assenza del requisito della simultaneità), non si configurerebbe un'unica condotta (con conseguente esame circa la natura effettiva o apparente del concorso formale), ma diverse e autonome condotte, che dovrebbero essere punite partitamente secondo i criteri del concorso materiale di reati (come nel caso di Cass. Pen., n. 47561/2016).

I principi appena espressi sono fatti propri dalla Giurisprudenza dominante. Si segnalano, a titolo esemplificativo, le seguenti ulteriori pronunce conformi: Cass. Pen., n. 33725/2016; n. 572/2016; n. 2295/2015; n. 48743/2014; n. 25478/2011; n. 4404/2009).

Da quanto sopra esposto deriva, in tema di bis in idem, che, “qualora il delitto di appropriazione indebita sia stato oggetto di sentenzadi condanna prima della dichiarazione di fallimento, non è preclusa nel successivo procedimento per bancarotta la contestazione del reato fallimentare, ma in tal caso il giudice deve in sede di eventuale condanna per tale ultimo reato, considerare assorbito quello sanzionato ai sensi dell'art. 646 c.p.” (Cass. Pen., n. 48743/2014, cit.; Cass. Pen., n. 25478/2010, cit.; in senso conforme: Cass., n. 2295/2015, cit.).

Bancarotta fraudolenta patrimoniale e truffa

A conclusioni opposte è giunta la Giurisprudenza nell'analisi dei rapporti tra la bancarotta fraudolenta e il reato di truffa, ex art. 640 c.p.

Può accadere, ad esempio, che “i debitori di una società di capitali, successivamente dichiarata fallita, siano indotti in errore dall'amministratore della stessa, il quale ne incassi i crediti nella sua qualità di legittimo destinatario dei pagamenti, appropriandosi delle relative somme”. E' il caso trattato dalla sentenza della S.C., n. 36865/2001.

In tali ipotesi, la Giurisprudenza è ferma nel ritenere sussistente e effettivo il concorso formale tra i due reati in esame.

L'affermazione ricorrente nelle sentenze di legittimità è quella secondo la quale “il delitto di bancarotta fraudolenta può concorrere con quello di truffa, sia perché l'obiettività giuridica delle distinte ipotesi criminose è diversa, sia perché l'iter criminis della seconda si esaurisce con l'acquisizione dei beni mediante mezzi fraudolenti, mentre il fatto dell'imprenditore truffaldino, che sottragga successivamente alla garanzia patrimoniale le entità economiche illecitamente acquisite al suo patrimonio, costituisce un'azione distinta e autonoma, punita a titolo di bancarotta fraudolenta, se viene dichiarato il fallimento” (Cass. Pen., n. 13399/ 2016, cit.; Cass. Pen., n. 39610/2010; Cass. Pen., 6791/2000).

Secondo l'unanime Giurisprudenza appena riportata, la sussistenza del concorso formale portava inevitabilmente all'inoperatività del divieto di bis in idem e apriva quindi le porte, avvenuto il fallimento, a un secondo processo per bancarotta dopo quello per truffa, già definito con sentenza irrevocabile (ad eccezione dei casi di assoluzione per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste).

Come visto, tale “regola di diritto vivente” è stata fatta oggetto di censura dalla Corte Cost. nella pronuncia sopra riportata.

La S.C., in applicazione di quanto disposto dal Giudice delle Leggi, ha riformato il proprio orientamento e, con sentenza n. 47683/2016, ha annullato senza rinvio per violazione del divieto di un secondo giudizio ex art. 649 c.p.p. la sentenza di condanna per bancarotta fraudolenta patrimoniale intervenuta successivamente a una precedente pronuncia irrevocabile per il reato di truffa aggravata in relazione ai medesimi fatti; si trattava nel caso specifico di illeciti in materia di quote-latte. La Corte d'Appello, nella sentenza oggetto di scrutinio, aveva riscontrato l'ammissibilità del concorso formale tra l'illecito portato dalla norma speciale e la fattispecie bancarottiera e conseguentemente, sulla base della “regola di diritto vivente” ricordata sopra, aveva escluso la violazione dell'art. 649 c.p.p.

Nella sentenza ora in commento, la S.C., fondandosi sulle coordinate ermeneutiche fissate dalla Corte Cost., ha osservato come, nel caso concreto, i due addebiti avessero alla base un medesimo fatto, con conseguente applicazione dell'art. 649 c.p.p. in relazione alla pronuncia intervenuta successivamente (e cioè a quella afferente il reato di bancarotta), indipendentemente dalla sussistenza o meno di un concorso formale.

Bancarotta fraudolenta per distrazione e sottrazione di cose pignorate o sequestrate

Si è posto altresì il problema dei rapporti tra la bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e il reato di cui all'art. 388, comma 3, c.p., che punisce “chiunque sottrae, sopprime, distrugge, disperde o deteriora una cosa di sua proprietà sottoposta a pignoramento ovvero a sequestro”.

La Giurisprudenza di Legittimità è orientata nel negare la configurabilità del concorso formale tra i due reati, ritenendo il concorso solo apparente, con conseguente applicazione solo del reato più grave, e cioè di quello bancarottiero.

Si osserva in proposito, ponendo a confronto le due fattispecie incriminatrici ora in esame, che “vi è identità tra la condotta e l'evento, che consiste in ambedue le ipotesi, nel sottrarre i beni al loro vincolo di indisponibilità che nel primo caso si riferisce ad una procedura esecutiva individuale e nell'altro in una procedura esecutiva collettiva” (Cass. Pen., n. 32604/2001).

In altre parole, “l'elemento specializzante tra le due fattispecie di reato è costituito dal tipo di procedura esecutiva, individuale o concorsuale, cui il bene è sottoposto. Per il resto [i due reati, n.d.a.] coincidono nella condotta (appropriazione ovvero distrazione del medesimo bene) e producono il medesimo evento, che consiste nel sottrarre i beni al loro vincolo di indisponibilità, discendente nell'un caso da una procedura esecutiva individuale e nell'altro da procedura esecutiva collettiva” (Cass. Pen., n. 14405/2009). Ne deriva che “tra le due ipotesi di reato non è configurabile il concorso formale” (ibid.).

Quindi, il concorso è apparente poiché le norme in esame si pongono in rapporto di specialità unilaterale, rilevante ex art. 15 c.p.

Si riportano qui di seguito, a titolo esemplificativo, ulteriori pronunce conformi: Cass. Pen., n. 32604/2001; Cass. Pen., n. 459/1997; Cass. Pen., 2344/1995.

Le conseguenze in tema di bis in idem sono le medesime di quelle, già viste sopra, relative alla fattispecie di appropriazione indebita.

Bancarotta fraudolenta societaria, operazioni dolose e aggiotaggio informativo

L'art. 223 l. fall. estende l'applicabilità dell'art. 216 l. fall. ai vertici della società dichiarata fallita.

Viene qui in particolare rilievo il reato di bancarotta fraudolenta societaria da false comunicazioni sociali, che punisce, ai sensi dell'art. 223, comma 2, n. 1, l. fall., i vertici della società che hanno cagionato o concorso a cagionare il dissesto commettendo (per quel che qui rileva) il fatto tipico di cui all'art. 2621 c.c. (false comunicazioni sociali).

Ancora, l'art. 223, comma 2, n. 2, l. fall. dispone che i vertici dell'ente societario siano puniti per avere cagionato con dolo o per l'effetto di operazioni dolose il dissesto dell'ente.

Commette il reato di aggiotaggio, previsto e punito dall'art. 2637 c.c., “chiunque diffonde notizie false, ovvero pone in essere operazioni simulate o altri artifici concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari”.

La Giurisprudenza di Legittimità è pacifica nel ritenere che “il reato di bancarotta fraudolenta societaria da false comunicazioni sociali e quello di aggiotaggio informativo possono concorrere tra loro attesa la disomogeneità strutturale delle relative fattispecie. Non vi è assorbimento […], in quanto le due fattispecie sono strutturalmente difformi e manca dunque l'elemento di specialità” (Cass. Pen., n. 45347/2015; Cass. Pen., n. 3971/2015; Cass. Pen., n. 25450/2014; Cass. Pen., n. 9369/2013; Cass. Pen., n. 28932/2011).

Il concorso tra i reati in questione è quindi effettivo, non sussistendo tra le stesse un rapporto di genere a specie, non essendo prevista una clausola di sussidiarietà e non essendo un fatto assorbito dall'altro secondo la struttura del reato complesso.

Ai fini della preclusione connessa al principio del ne bis in idem, la S.C., nella pronuncia sopra richiamata (cfr., Cass. Pen., n. 32352/2014), ha escluso che la sussistenza di un rapporto di identità del fatto rilevante ex art. 649 c.p.p. tra condotte di bancarotta ora in esame e il delitto di aggiotaggio.

Bancarotta fraudolenta per distrazione e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte

Numerose sono le ipotesi di reciproche interferenze tra i reati di bancarotta e quelli tributari.

Commette il reato di cui all'art. 11 D.Lgs. n. 74/2000, chi, “al fine di sottrarsi al pagamento di imposte […], aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”.

Occorre segnalare che la norma in questione è stata oggetto di riforma con L. n. 122/2010, a mezzo della quale il Legislatore ha eliminato la previgente clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”.

Sulla configurabilità del concorso formale tra i due delitti in esame è in essere un contrasto giurisprudenziale.

Secondo una prima impostazione, il concorso tra le due norme in esame sarebbe solo apparente, con conseguente applicabilità esclusivamente della fattispecie bancarottiera, e ciò indipendentemente dalla sussistenza o meno della suddetta clausola di riserva, esistendo tra le due fattispecie un rapporto di genere a specie rilevante ex art. 15 c.p. Si osserva al riguardo che “la sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte costituisce una condotta idonea ad inserirsi in una complessiva strategia distrattiva finalizzata al fallimento ed è dunque riconducibile al paradigma punitivo di cui all'art. 216 l. fall., norma che prevede condotte di distrazione, occultamento, distruzione e dissipazione, comprensive di quelle rilevanti ex art. 11, d.lg. n. 74/2000” (Cass. Pen., n. 834/2015; Cass. Pen., n. 42156/2011).

L'orientamento contrario contesta tali conclusioni ritenendo, quanto alla clausola di salvaguardia presente nel testo ante riforma, che essa operi solo in caso di omogeneità degli interessi lesi, omogeneità che non sarebbe ravvisabile tra reati di bancarotta e reati tributari, poiché, si osserva, il D.Lgs. cit. “tutela l'interesse fiscale dello Stato, mentre la L. Fall., art. 216 solo l'interesse privato dei creditori del fallito, con la conseguenza che, applicando la clausola di riserva […], l'interesse erariale dello Stato resterebbe privo della tutela penale prevista dalla norma” (Cass. Pen., n. 38752/2012); quanto al principio di specialità, che la legislazione fiscale e quella fallimentare siano “entrambe speciali e non si pongano quindi in rapporto di specialità l'una con l'altra”, nè vadano “a disciplinare la stessa materia, essendo la seconda diretta a tutelare interessi differenti”; quanto, infine, all'eventualità che il reato bancarottiero possa configurare reato complesso ai sensi dell'art. 84 c.p., con conseguente assorbimento di quello tributario, che “per configurare il reato complesso è necessario che sia una norma di legge ad operare la fusione in una unica figura criminosa dei fatti costituenti reati autonomi. Non basta quindi che i più fatti, i quali, isolatamente considerati, costituirebbero altrettanti reati, abbiano qualche elemento comune perchè sia ravvisabile il reato complesso, essendo questo costituito dalla unificazione a livello normativo di tutti gli elementi che integrano ipotesi tipiche di reati tra loro differenti” (Cass. Pen., n. 1843/2011; si veda anche, in senso conforme, Cass. Pen., n. 3539/2015).

Stante l'attualità e la rilevanza del contrasto, sarebbe auspicabile un intervento risolutore sul punto delle SS.UU.

(Segue) Bancarotta fraudolenta documentale e sottrazione, occultamento o distruzione di documenti contabili al fine di evadere le imposte

Commette il reato di bancarotta fraudolenta documentale, ai sensi dell'art. 216, comma 1, n. 2, l. fall., se dichiarato fallito, l'imprenditore che “ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari”.

L'art. 10, D.Lgs. n. 74/2000, dispone: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito […] chiunque, al fine di evadere le imposte […], occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari”.

Come si vede, tale ultima fattispecie presenta la clausola di riserva che esprime il carattere di sussidiarietà del reato tributario in questione, il quale è quindi applicabile, per espressa previsione legislativa, solo ove il fatto non costituisca più grave reato.

Occorre premettere che la fattispecie di cui all'art. 10 D.Lgs. cit. ha sostituito quella prevista dall'art. 4, comma 1, lett. b), L. n. 516/1982, la quale non prevedeva la clausola di riserva poi introdotta dalla novella del 2000.

Subito dopo l'entrata in vigore della riforma, la Giurisprudenza dominante, facendo uso del principio di sussidiarietà, riteneva che, “la condotta prevista nella fattispecie tributaria [dovesse, n.d.a.] ritenersi assorbita in quella di bancarotta fraudolenta documentale” (Cass. Pen., n. 13116/2001); di conseguenza, sarebbe “escluso il concorso formale eterogeneo fra i due reati” (Cass. Pen., n. 18191/2005).

Successivamente, la Giurisprudenza ha mutato orientamento, osservando, come già si è visto sopra, la disomogeneità dei beni giuridici tutelati dalle due norme, la quale, in caso di applicazione della clausola di riserva, “renderebbe priva di tutela la persona offesa cui si riferisce la norma contenente detta clausola” (Cass. Pen., n. 38752/2012).

Quindi, continua la S.C., non operando nel caso di specie, per i motivi appena visti, la clausola di riserva suddetta e non essendo ipotizzabile un assorbimento tra le due fattispecie nelle forme del reato complesso, non resta che indagare se tra le stesse possa ravvisarsi quel rapporto di specialità unidirezionale richiesto dall'art. 15 c.p., in assenza del quale potrà concludersi per la sussistenza di un effettivo concorso formale tra i due reati.

Ebbene, la S.C., analizzando la struttura dei reati in questione, ha concluso come gli stessi debbano ritenersi “in rapporto di specificità bilaterale” (Cass. Pen., n. 38725/2012; Cass. Pen., n. 10332/2010).

Pertanto, la Giurisprudenza attualmente dominante ritiene ammissibile il concorso formale tra i reati in questione.

Da tali considerazioni consegue, secondo le pronunce che seguono, tutte anteriori all'intervento riformatore di Corte Cost. n. 200 del 2016, che “non sussiste la violazione del principio del ‘ne bis in idem' (art. 649 c.p.p.), qualora alla condanna per illecito tributario (nella specie per occultamento e distruzione di documenti contabili, previsto dall'art. 10 D.Lgs. n. 74/2000) faccia seguito la condanna per bancarotta fraudolenta documentale, stante la diversità delle suddette fattispecie incriminatrici” (Cass. Pen., n. 16360/2011; Cass. Pen., n. 4404/2009).

(Segue) Operazioni dolose e emissione di fatture per operazioni inesistenti: le frodi carosello

Si è già visto sopra il reato di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, l. fall.

L'art. 8, D.Lgs. cit. punisce “chiunque, al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”.

E' noto che, con lo schema di frode fiscale denominato “frode carosello”, la società cartiera, che emette fatture per operazioni inesistenti al fine di creare fittizie passività da usare in detrazione in favore di imprese compiacenti, sia preordinatamente votata al fallimento, essendo creata proprio al fine di accumulare su di sé debiti erariali a cui poi non farà fronte.

Costituisce dato pacifico che le operazioni dolose di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, l. fall. possano consistere anche nella commissione di illeciti tributari, i quali, venuti alla luce, abbiano portato al dissesto dell'ente.

Rilevata la diversità strutturale e la disomogeneità degli interessi tutelati dalle norme incriminatrici in esame, Cass. Pen., n. 40009/2014 ha ritenuto effettivo il concorso tra i suddetti reati.

Conclusioni

Come si è visto, la sentenza resa dalla Corte Costituzionale sul caso Eternit ha un impatto particolarmente rilevante in tema di reati fallimentari, ove sovente accade che, a seguito del fallimento, l'imprenditore venga chiamato a rispondere di fatti per cui è già intervenuta una sentenza definitiva per altro reato.

L'intervento della Corte Costituzionale costituisce un importante momento di garanzia per il singolo, che precedentemente vedeva inquinato il suo diritto a non essere più volte sottoposto a giudizio per gli stessi fatti da un'interpretazione uniforme della Giurisprudenza che aprioristicamente ammetteva il secondo processo in presenza di concorso formale tra il reato giudicato e quello oggetto di giudizio, così scavalcando la garanzia espressa dall'art. 649 c.p.p.

Esula dal presente breve lavoro l'esame dei delicati profili di diritto intertemporale che la recente pronuncia di Corte Cost. potrebbe sollevare. E' tuttavia evidente che la S.C. sia impegnata in un'opera di riforma complessiva delle proprie posizioni in materia di bis in idem e concorso formale, i cui effetti, come si è potuto constatare, si sono già manifestati nell'alveo dei reati fallimentari.

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