L’INPS non può disattendere un proprio precedente parere in materia di computo dei contributi
12 Ottobre 2017
Nell'ipotesi in cui l'INPS abbia fornito all'assicurato una erronea indicazione (in eccesso) del numero dei contributi versati, solo apparentemente sufficienti per fruire della pensione di anzianità, il danno sofferto dall'assicurato per la successiva interruzione del rapporto di lavoro è riconducibile a responsabilità contrattuale dell'Istituto. Così ha stabilito la Corte di Cassazione, con sentenza n. 23050/2017.
La pronuncia in questione nasce dal ricorso presentato da un lavoratore che aveva accettato, con atto transattivo, il licenziamento intimatogli ed il conseguente trattamento di mobilità, sul presupposto di aver ormai maturato i 35 anni di contribuzione per accedere alla pensione di anzianità, convinzione che gli derivava da una precisa informazione, lui pervenuta dall'INPS, opportunamente interpellato sul punto, prima di sottoscrivere l'accordo sul licenziamento. Terminato il periodo di mobilità, presentava, quindi, domanda di pensione che veniva rigettata dall'Istituto per insussistenza del requisito di anzianità. Il lavoratore si vedeva, quindi, costretto a versare la contribuzione volontaria per il periodo residuo e si rivolgeva al Giudice del lavoro per ottenere un prolungamento del periodo di mobilità (così da raggiungere appieno l'anzianità richiesta) e la condanna dell'INPS al risarcimento del danno.
Il Giudice di merito rigettava le doglianze del lavoratore poiché, in ogni caso, a questi non spettava un trattamento di mobilità più lungo e, comunque, andava esclusa qualsiasi responsabilità dell'INPS che, nel caso di specie, aveva dato notizie in maniera informale, essendo stata la richiesta avanzata senza l'utilizzo dell'apposita modulistica.
La Corte di Cassazione, investita della questione su ricorso del lavoratore, ha riconosciuto, invece, la responsabilità dell'INPS, osservando in primo luogo come l'Istituto debba rispondere del pregiudizio derivato da un proprio errore di comunicazione, a titolo di responsabilità contrattuale, salvo che provi che la causa dell'errore sia esterna alla sua sfera di controllo o comunque che l'errore sarebbe stato inevitabile anche con la dovuta diligenza. I giudici della Suprema Corte, proseguendo nell'analisi, hanno posto l'accento sull'affidamento del cittadino verso l'Ente pubblico, sostenendo che la richiesta dell'assicurato di ricevere informazioni sulla propria posizione contributiva od assistenziale non deve avere forme particolari, né requisiti formali sono previsti per il riscontro a tale richiesta, essendo sufficiente che la risposta dell'ente sia comprensibile dal cittadino munito del livello di istruzione obbligatoria. Nessun requisito di forma è, infatti, previsto dall'art. 54 L. n. 88/1989 sul valore certificativo delle comunicazioni INPS. A sostegno della propria tesi, i magistrati hanno portato in rilievo anche il principio di buon andamento, garantito dall'art. 97 Cost., che impone la veridicità degli atti e dei provvedimenti delle Pubbliche Amministrazioni, che mai possono essere considerati come asserzioni “su cui la prudenza richieda di non fare assegnamento”. Il cittadino, quindi, non può che fare affidamento su ciò che viene comunicato dalla PA.
La Cassazione, accogliendo, per quanto appena esposto, il ricorso del lavoratore, ha condannato l'Ente previdenziale a risarcire il danno derivato dall'erronea comunicazione, ai sensi del principio di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione: l'Ente pubblico non deve frustrare la fiducia dei cittadini fornendo informazioni errate o dichiaratamente approssimative, pur se contenute in documenti privi di valore certificativo. |