Modello organizzativo 231 e modelli aziendali Iso per la Cassazione “pari non sono”

12 Ottobre 2017

In un procedimento penale inerenti le condotte di alcuni amministratori della regione Puglia, chiamati a rispondere di una pluralità di reati, fra cui anche quelli di corruzione, veniva imputate anche le società private da cui sarebbero provenute le somme servite per asservire i politici ai desiderata ed alle esigenze degli imprenditori.
Massima

I modelli aziendali Iso Uni En Iso 9001 non possono essere ritenuti equivalenti ai modelli richiesti dal d.lgs. 231 del 2001, qualora non contengano l'individuazione degli illeciti da prevenire unitamente alla specificazione del sistema sanzionatorio delle violazioni del modello.

Il caso

In un procedimento penale inerenti le condotte di alcuni amministratori della regione Puglia, chiamati a rispondere di una pluralità di reati, fra cui anche quelli di corruzione, veniva imputate anche le società private da cui sarebbero provenute le somme servite per asservire i politici ai desiderata ed alle esigenze degli imprenditori.

Nelle fasi di merito, gli enti collettivi imputati erano tutti condannati, superando le molteplici eccezioni e censure formulate dalla difesa. Una di tali censure riguardava la ritenuta intervenuta prescrizione del reato con riferimento agli enti, prescrizione non rilevata in sede di merito in ragione della particolare disciplina che sul punto detta il d.lgs. 231 del 2001; la seconda – più rilevante – atteneva la circostanza che i giudici di merito avessero ritenuto le società coinvolte nel processo non dotate di un adeguato modello organizzativo, nonostante tali società fossero in possesso di modelli aziendali Iso Uni En Iso 9001.

La questione

Come è noto, la disciplina in tema di prescrizione nel processo contro gli enti è contenuta nell'art. 22 d.lgs. 231 del 2001. Secondo Cass. pen., Sez. II, 15 dicembre 2001, Cerasino: «in tema di responsabilità da reato degli enti, la richiesta di rinvio a giudizio della persona giuridica intervenuta entro cinque anni dalla consumazione del reato presupposto, in quanto atto di contestazione dell'illecito, interrompe il corso della prescrizione e lo sospende fino alla pronunzia della sentenza che definisce il giudizio»; nell stesso senso si è espressa Cass. pen., Sez. V, 4 aprile 2013, n. 20060, Citibank, secondo cui, l'intervenuta prescrizione del reato presupposto successivamente alla contestazione all'ente dell'illecito non ne determina l'estinzione per il medesimo motivo, giacché il relativo termine, una volta esercitata l'azione, non corre fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento nei confronti della persona giuridica (si veda anche Cass. pen., Sez. V, 22 settembre 2015, n. 50102, D'Errico).

Le ragioni per cui il Legislatore è pervenuto ad una regolamentazione dell'istituto della prescrizione nell'ambito del procedimento contro le persone giuridiche così divergente rispetto al regime che il medesimo istituto ha in sede di processo penale nei confronti di persone fisiche sono rinvenute nella circostanza che da un lato l'illecito dell'ente è un illecito amministrativo e quindi pare opportuno il richiamo a quanto in tema di prescrizione dispone l'art. 28 l. 689 del 1981 e dall'altro che la disciplina contenuta nel decreto 231 realizza un adeguato bilanciamento fra le esigenze di durata ragionevole del processo – essendo comunque previsto un termine di prescrizione breve, pari a soli cinque anni dalla consumazione dell'illecito – e le esigenze di garantire un'adeguata completezza dell'accertamento giurisdizionale riferito ad una fattispecie complessa come quella relativa all'illecito amministrativo dell'ente. In particolare, l'effetto di un tale bilanciamento risiede nella tendenziale riduzione del rischio di prescrizione una volta che, esercitata l'azione penale, si instauri il giudizio, con il contrappeso rappresentato dalla ridotta durata del termine di prescrizione, fissato per tutti gli illeciti in cinque anni, termine sensibilmente più breve rispetto a quanto previsto dal codice penale.

Quanto al rapporto fra modello organizzativo richiesto dal d.lgs. 231 del 2001 e modelli Iso (su cui BARTOLOMUCCI, Ribadita la diversità e non surrogabilità del modello 231 con i sistemi gestionali aziendali, in rivista231.it), il tema è stato introdotto da alcune recenti decisioni di merito, unitamente a prese di posizione di analogo contenuto delle associazioni di categoria.

Tutto origina da una previsione contenuta nel comma 5 dell'art. 30 d.lgs. 81 del 2008 ed in base alla quale i modelli di organizzazione e di gestione delle imprese che siano certificati come conformi alle Linee guida Uni-Inail per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (S.G.S.L.) del 28 settembre 2001 o al British Standard OHSAS 18001:2007 si presumono per ciò solo rispondenti ai dettami di cui al d.lgs. 231 del 2001 e quindi risultano idonei ad avere efficacia esimente della responsabilità da reato delle persone giuridiche.

Quali siano le conseguenze, in astratto, di tale disposizione normativa è evidente. Si ricorda che, in presenza di un reato commesso nell'interesse o vantaggio di un ente collettivo, quando l'illecito sia stato posto in essere da dirigenti della società, questa può andare esente da responsabilità se dimostra di aver adottato un adeguato modello organizzativo idoneo ad impedire la commissione di reati appartenenti alla medesima tipologia di quello commesso mentre nel caso in cui il crimine sia stato commesso da un sottoposto è la pubblica accusa a dover dimostrare che la realizzazione dello stesso è stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza gravanti sulla persona giuridica: in base alla disposizione contenuta nel predetto comma 5 dell'art. 30, dunque, parrebbe di poter concludere che quando il modello organizzativo dell'ente risulta certificato, anche se il reato è stato commesso da un soggetto apicale, la società sarebbe comunque esentata dall'obbligo di dimostrare alcunché circa l'idoneità del suo assetto organizzativo, idoneità che per l'appunto sarebbe incontestabile in ragione dell'avvenuta certificazione di cui si è detto (in questo senso espressamente trib. Catania, 14 aprile 2016, n. 2133).

Le soluzioni giuridiche

Con riferimento al tema dell'intervenuta prescrizione, la Cassazione ha ribadito la conclusione dei giudici di merito, negando che tale causa di estinzione del reato fosse venuta in essere.

In proposito, la difesa aveva contestato la legittimità costituzionale della particolare disciplina contenuta nel d.lgs. 231, sostenendo che essa violava il principio della ragionevole durata del processo oltre ad essere lesiva del principio di uguaglianza.

Non è la prima volta che tale questione veniva sollevata in Cassazione, la quale tuttavia già in precedenza (Cass. pen., Sez. VI, 10 novembre 2015, n. 28229, Bonomelli; Cass. pen., Sez. II, 27 settembre 2016, n. 52316, Riva, sul punto non massimata) aveva ritenuto manifestatamente infondata la questione, atteso che la diversa natura dell'illecito che determina la responsabilità dell'ente e l'impossibilità di ricondurre integralmente il sistema di responsabilità ex delicto di cui al d.lgs. 231 del 2001 nell'ambito e nella categoria dell'illecito penale, giustificano il regime derogatorio della disciplina della prescrizione.

Come detto, la decisione in commento riprende le predette riflessioni sostenendo che non vi sia alcuna violazione del principio della ragionevole durata del processo e del diritto di difesa anche perché il Legislatore ha tenuto conto di tali esigenze, da un lato fissando, all'art. 22 d.lgs. 231 del 2001, il termine massimo di cinque anni dalla data di consumazione del reato perché la prescrizione possa essere impedita mediante un atto interruttivo e, dall'altro, escludendo in ogni caso, mediante l'art. 60 d.lgs. 231 del 2001, la possibilità di procedere alla contestazione dell'illecito all'ente se prima del compimento di tale atto si sia estinto per prescrizione il reato presupposto.

Quanto al possibile contrasto, denunciato nel caso di specie, con gli artt. 41 e 117 Cost. in riferimento all'art. 6 della Convenzione Edu, si ritiene che la previsione nel d.lgs. 231 del 2001 di limiti temporali raccordati alla generale disciplina civilistica in materia di prescrizione esclude l'incompatibilità del regime dettato per la prescrizione dell'illecito amministrativo dipendente da reato con il principio di libertà dell'iniziativa economica, mentre la dedotta violazione dell'art. 117 Cost. in riferimento all'art. 6 della Convenzione Edu sarebbe insussistente non potendosi qualificare la responsabilità degli enti collettivi come avente natura penale. Inoltre, la pronuncia di sentenza di prescrizione nei confronti degli imputati persone fisiche non produce alcun pregiudizio per l'ente, sia perché non implica per questo alcun vincolo formale in ordine alla ricostruzione del fatto, sia perché non esonera l'accusa dal dimostrare puntualmente l'esistenza del reato presupposto, sia perché non impedisce all'ente di chiedere l'ammissione e produrre prove utili ad escludere o a far ragionevolmente dubitare della sussistenza del fatto di reato quale imprescindibile componente della «fattispecie complessa» da cui discende la responsabilità amministrativa.

Con riferimento invece al profilo, di particolare importanza, del rapporto fra modello organizzativo richiesto dal d.lgs. 231 del 2001 e modelli Iso, la pronuncia in esame non ha precedenti.

In proposito, la Cassazione esclude una equivalenza dei due documenti, segnalando che nel modello organizzativo non può mancare il codice di comportamento e le relative procedure, il codice etico, le procedure per la conoscenza dei modelli ed il sistema sanzionatorio. Inoltre, la pronuncia evidenzia una significativa differenza fra i due modelli giacché i modelli Iso si riferiscono di regola al controllo della qualità del lavoro nell'ottica del rispetto delle normative sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro o degli interessi tutelati dai reati in materia ambientale.

Osservazioni

Il vero profilo di interesse della decisione in esame della Cassazione è rappresentato dall'esame del rapporto fra modelli Iso e modello organizzativo.

Sul punto la decisione della Suprema Corte merita deciso apprezzamento, non fosse altro per il fatto che nel caso di specie i modelli Iso risultavano carenti di alcuni elementi che nel modello 231 non possono mancare, come il codice sanzionatorio e una previsione in ordine alla formazione dei dipendenti all'osservanza delle speciali procedure introdotte.

A prescindere da tale considerazione, tuttavia, è bene dissipare un possibile equivoco in ordine al ruolo che nell'ambito della responsabilità da reato degli enti collettivi assume il modello organizzativo.

Nonostante alcuni ritengano in base alla disposizione contenuta nel predetto comma 5 dell'art. 30 d.lgs. 81 del 2008 si debba concludere nel senso che il modello organizzativo dell'ente, una volta certificato, è senz'altro idoneo e quindi sicuramente in grado di escludere la responsabilità da reato dell'ente collettivo, questa conclusione però sembra superficiale giacché, pur ammesso che un modello certificato è, in quanto tale, sicuramente da considerare idoneo alla luce dei dettami contenuti nel d.lgs. 231 del 2001, occorre prestare significativa attenzione a quelli che sono gli ulteriori obblighi organizzativi gravanti sull'impresa e che non si esauriscono certo nel dar vita ad un modello che ottiene le certificazioni di cui fa menzione il comma quinto già citato.

Gli ormai numerosi processi nei confronti delle società, infatti, dimostrano che la responsabilità da reato degli enti collettivi ed in particolare la colpa di organizzazione di questi soggetti non deriva dall'aver adottato un modello organizzativo inadeguato ed inidoneo a prevenire reati, quanto dalla circostanza che i dettami e le misure preventive previsti in quei modelli non sono di fatto rispettati. Si vuol dire, in sostanza, che è assai raro che i pubblici ministeri prima e poi i giudici ritengano i modelli organizzativi inadeguati, inutili, inefficaci, mentre le censure che sono formulate in sede giudiziale riguardano la circostanza che proprio gli strumenti che quei modelli prevedevano – e che li rendevano idonei a prevenire il reato – nella concreta operatività dell'azienda non sono poi stati posti in essere: detto altrimenti, è facile mettere su carta un assetto logistico dell'impresa funzionale all'obiettivo di eliminare il rischio-reato, mentre quello che è difficile è rispettare i precetti che tale assetto impone.

Ecco dunque che sottolineare con eccessiva enfasi la circostanza che un modello organizzativo certificato sia per ciò solo idoneo ai sensi del d.lgs. 231 del 2001 può indurre in equivoco l'imprenditore e portarlo a ritenere che per il solo fatto di aver previsto adeguate procedure lavorative che in sede di certificazione sono state ritenute atte ad evitare gli infortuni sul lavoro l'ente in caso di sinistri sarà comunque esonerato da ogni forma di responsabilità. Di contro, ciò che gli organi inquirenti vogliono accertare, in presenza del verificarsi di un reato, è se il modello trovava effettiva attuazione in azienda e soprattutto – ulteriore profilo rispetto al quale è irrilevante la circostanza che il modello organizzativo sia stato o meno in origine certificato – che il contenuto dello stesso sia stato nel tempo aggiornato in relazione al progredire la scienza e della tecnica, in relazione all'entrata in vigore di nuove normative ed in considerazione dell'eventuale verificarsi di infortuni o cosiddetti quasi infortuni – ovvero in presenza di indici che hanno attestato che l'originaria conformazione dell'organizzazione aziendale era, quale che ne fosse la certificazione, non adeguata.

La predisposizione di un buon modello organizzativo, insomma, è una condizione necessaria, ma sicuramente non sufficiente perché l'azienda si presenti rispondente ai principi di buona organizzazione e prevenzione degli illeciti delineati nel d.lgs. 231 del 2001.

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