La condanna per lite temeraria alla luce dell'ammissibilità nel nostro ordinamento giuridico dei danni punitiviFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 96
13 Ottobre 2017
Il portato di novità dell'indirizzo inaugurato dalla sentenza delle Sezioni Unite 5 luglio 2017, n. 16601 si realizza su più fronti: su un piano astratto (che allarga il campo delle pretese autorizzate dall'ordinamento), si riconosce la natura polifunzionale della tutela risarcitoria, potendo la stessa rivestire, in potenza, anche un “ruolo” sanzionatorio, oltre che compensativo; sul piano concreto (che, con un'ampia virata, restringe tale campo rispetto alle premesse di fondo), siffatta concorrente prospettiva afflittiva può essere ammessa solo quando la fattispecie risarcitoria sia espressamente enucleata dalla disciplina di settore in termini punitivi, tanto da poterne previamente prevedere le conseguenze, qualora la fattispecie sia integrata, anche in chiave quantitativa dell'ammontare spettante e imputabile a detta voce. E ciò per garantire effettività alla tutela ristoratoria, non già per uno scopo di solidarietà ex art. 2 Cost. (C. Scognamiglio, Principio di effettività, tutela civile dei diritti e danni punitivi, RCP, 2016, 4, 1120). All'esito dell'armonizzazione tra ordine pubblico interno e internazionale, non contrasta con i principi fondanti desumibili dall'ordinamento giuridico italiano il plastico adattamento dello schema risarcitorio al perseguimento di un concomitante scopo sanzionatorio, a nulla rilevando che altri ordinamenti (precipuamente di common law) aderiscano ad un modello riparatorio generale con valenza punitiva, come accade per l'istituto dei punitive damages, mentre il nostro ordinamento ammetta il risarcimento dei danni con portata afflittiva in chiave essenzialmente settoriale, ossia nei casi tassativi in cui tale funzione ultracompensativa sia assegnata espressamente dalla legge (Ponzanelli, Le Sezioni Unite sulla delibazione di sentenze straniere di condanna a danni punitivi, QG, 12 luglio 2017).
Tipicità e prevedibilità costituiscono, pertanto, i presupposti indefettibili affinché la componente afflittiva del risarcimento possa essere contemplata nell'ordinamento giuridico. Il rispetto del principio di tassatività è ricondotto all'esigenza che le prestazioni patrimoniali, specie quando siano ascrivibili ad una ratio punitiva, siano previamente individuate dal legislatore affinché possano imporsi ai consociati. I riferimenti costituzionali che legittimano tale conclusione sono appunto gli artt. 23, 24 e 25, comma 2, Cost.. E, all'uopo, sono richiamati gli specifici casi in cui il legislatore attribuisce tale connotazione sanzionatoria, appunto delimitati alle puntuali (rectius tassative) ipotesi di risarcimento dei danni punitivi previste nel nostro sistema (Alpa, L'intervento - Occorre valutare bene anche le conseguenze economiche, QdD, 7 luglio 2017). Si tratta, dunque, di fattispecie speciali. A fronte di queste fattispecie, la clausola generale sulla responsabilità aquiliana, così come quella sulla responsabilità da inadempimento del contratto, non consente di giungere alla medesima conclusione, appunto perché né l'art. 2043 c.c. né l'art. 1218 c.c. sono impostati in chiave intrinsecamente sanzionatoria della tutela risarcitoria ivi regolata. Il ragionamento del Giudice della nomofilachia postula, dunque, il seguente corollario: di norma, ossia fatti salvi i casi espressamente regolati dalla legge (che non lascino adito a dubbi), sebbene tale destinazione non sia incompatibile con la ratio della tutela risarcitoria, l'istituto del risarcimento come categoria generale dell'ordinamento non è funzionalizzato, in termini intrinseci e ontologici, al perseguimento di un compito punitivo. Al contempo, non costituisce un'ipotesi di risarcimento dei danni con valenza punitiva la norma generale che riconosce il ristoro del danno non patrimoniale. Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183), che resta ferma anche all'esito della pronuncia delle Sezioni Unite, l'art. 2059 c.c. non costituisce il fondamento giuridico del perseguimento di una concorrente funzione afflittiva del risarcimento. La risarcibilità dei danni non patrimoniali è sempre condizionata all'accertamento della sofferenza e della lesione determinata dall'illecito e non può considerarsi provata in re ipsa. È inoltre esclusa la possibilità di pervenire alla liquidazione di tale tipologia di danni in base alla considerazione dello stato di bisogno del danneggiato o della capacità patrimoniale dell'obbligato. Alla stessa conclusione deve pervenirsi ove le formule utilizzate dalle disposizioni di riferimento, anche in settori specifici, siano equivoche e non consentano, con un grado di sufficiente certezza, di individuare la chiara volontà del legislatore di assegnare al risarcimento un profilo sanzionatorio. La discriminazione tra risarcimento del danno con funzione punitiva e sanzioni civili
L'ordinanza interlocutoria di rimessione Cass. civ., sez. I, 16 maggio 2016, n. 9978 individua, quali ipotesi tipizzate di rimedi risarcitori con funzione non riparatoria (o almeno non esclusivamente riparatoria), ma sostanzialmente (o congiuntamente) sanzionatoria (i cd. danni punitivi), a titolo esemplificativo, le seguenti fattispecie:
a) l'art. 12 l. n. 47/1948, che - con riferimento alla diffamazione a mezzo stampa - prevede il pagamento di una somma di denaro in favore del diffamato in relazione alla gravità dell'offesa e alla diffusione dello stampato;
b) l'art. 96, comma 3, c.p.c., all'esito della riforma di cui all'art. 45 l. n. 69/2009, che dispone la condanna della parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata, in chiave punitiva dell'abuso del processo, cui si omologa l'art. 26, comma 2,d.lgs. n. 104/2010, che stabilisce la medesima condanna all'esito della definizione del processo amministrativo;
c) l'art. 709-ter, comma 2, nn. 2 e 3, c.p.c., disposizione inserita dall'art. 2,l. n. 54/2006, che - con riferimento alle ipotesi di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell'affidamento - dispone che il giudice possa condannare al risarcimento dei danni uno dei genitori nei confronti del minore ovvero uno dei genitori nei confronti dell'altro, a fronte della previsione di cui al n. 4, che consente la condanna del genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, variabile da un minimo di euro 75 ad un massimo di euro 5.000, a favore della cassa delle ammende;
d) gli artt. 158 l. n. 633/1941 e 125 d.lgs. n. 30/2005, che - in tema di proprietà industriale - riconoscono al danneggiato un risarcimento corrispondente ai profitti realizzati dall'autore del fatto, esaltando la natura preventivo-deterrente di tale risarcimento, ove l'agente abbia lucrato un profitto di maggiore entità rispetto alla perdita subita dal danneggiato, sebbene il Considerando n. 26 della direttiva CE (c.d. Enforcement) 29 aprile 2004, n. 48, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, attuato dal d.lgs. n. 140/2006, all'art. 158, abbia precisato che il fine non è quello di introdurre un obbligo di prevedere un risarcimento punitivo, ma di permettere un risarcimento fondato su una base obiettiva, tenuto conto delle spese sostenute dal titolare, ad esempio, per l'individuazione della violazione e relative ricerche (e ciò nonostante Cass. civ., sez. III, 15 aprile 2011, n. 8730 ne abbia ammesso la funzione parzialmente sanzionatoria, in quanto diretta anche ad impedire che l'autore dell'illecito possa farne propri i vantaggi);
e) l'art. 187-undecies, comma 2, d.lgs. n. 58/1998 (tuf), in tema di intermediazione finanziaria, il quale stabilisce che, nei procedimenti penali per i reati di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato, la Consob possa costituirsi parte civile e richiedere, a titolo di riparazione dei danni cagionati dal reato all'integrità del mercato, una somma determinata dal giudice, anche in via equitativa, tenendo comunque conto dell'offensività del fatto, delle qualità del colpevole e dell'entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato;
f) gli artt. 3-5 d.lgs. n. 7/2016, i quali hanno abrogato plurime fattispecie di reato previste a tutela della fede pubblica, dell'onore e del patrimonio e, ove i fatti siano dolosi, hanno affiancato al risarcimento del danno, che può essere riconosciuto in favore della parte lesa, lo strumento afflittivo delle sanzioni pecuniarie con finalità sia preventiva sia repressiva, il cui importo è determinato dal giudice sulla base dei seguenti criteri: la gravità della violazione, la reiterazione dell'illecito, l'arricchimento del soggetto responsabile, l'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o l'attenuazione delle conseguenze dell'illecito, la personalità dell'agente, le condizioni economiche dell'agente.
Per converso, le Sezioni Unite, evocando gli studi dell'Ufficio del Massimario nonché la motivazione di uno specifico precedente giurisprudenziale, annoverano, tra le ipotesi vigenti nel nostro ordinamento in cui opera la componente punitiva, oltre ad alcune delle ipotesi già menzionate dall'ordinanza interlocutoria, i seguenti ulteriori casi:
1) le misure coercitive indirette, generali (ai sensi dell'art. 614-bisc.p.c., che contempla il potere del giudice di fissare una somma pecuniaria per ogni violazione ulteriore o ritardo nell'esecuzione del provvedimento di condanna all'adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro, tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile, e ai sensi dell'art. 114 d.lgs. n. 104/2010, che attribuisce analogo potere al giudice amministrativo dell'ottemperanza) e speciali (in materia di brevetti e marchi, ai sensi dell'art. 124, comma 2, e dell'art. 131, comma 2, d.lgs. n. 30/2005; in tema di tutela del consumatore, ai sensi dell'art. 140, comma 7, codice del consumo, in cui si prevede che, all'esito dell'esercizio dell'azione delle associazioni di categoria, a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti, il provvedimento che definisce il giudizio ovvero il provvedimento in camera di consiglio, adottato dal Tribunale adito in ragione dell'inadempimento degli obblighi risultanti dal verbale di conciliazione, fissa un termine per l'adempimento di tali obblighi e, anche su domanda della parte che ha agito in giudizio, dispone, in caso di inadempimento, il pagamento di una somma di denaro da 516 euro a 1.032 euro per ogni inadempimento ovvero giorno di ritardo, rapportati alla gravità del fatto, che devono essere versate all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate con decreto del Mef al fondo da istituire nell'ambito di apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero delle attività produttive, allo scopo di finanziare iniziative a vantaggio dei consumatori), comprese quelle previste da altri ordinamenti, in specie dall'ordinamento belga, in quanto compatibili con l'ordine pubblico italiano (così Cass. civ., sez. I, 15 aprile 2015, n. 7613);
2) gli artt. 388 e 650 c.p., che comminano una sanzione penale per l'inosservanza dei provvedimenti giudiziari e amministrativi;
3) l'art. 18, comma 14, statuto dei lavoratori, ove, a fronte dell'accertamento dell'illegittimità di un licenziamento di particolare gravità, la mancata reintegrazione è scoraggiata da una sanzione aggiuntiva;
4) l'art. 31, comma 2, l. n. 392/1978, secondo cui il locatore di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello abitativo che eserciti il recesso per una ragione successivamente non riscontrata, ossia che non destini il bene riconsegnato all'uso in vista del quale ne aveva ottenuto la disponibilità, è tenuto, oltre che al ripristino o al risarcimento dei danni in favore del conduttore, al pagamento di una somma di denaro da devolvere al comune nel cui territorio è sito l'immobile, ad integrazione del fondo sociale previsto dal titolo II della citata legge;
5) l'art. 709-ter, comma 2, n. 4, c.p.c., che attribuisce al giudice il potere di infliggere una sanzione pecuniaria aggiuntiva per le violazioni sull'affidamento della prole, variabile da un minimo di euro 75 ad un massimo di euro 5.000, a favore della cassa delle ammende;
6) l'art. 4 d.l. n. 259/2006, convertito in l. n. 281/2006, che - in tema di pubblicazione di intercettazioni illegali - prevede una specifica riparazione, consistente in una somma di denaro determinata in ragione di ogni copia stampata o con riguardo al bacino di utenza della diffusione avvenuta con mezzo radiofonico, televisivo o telematico, anche se il giudice dovrà tenere conto, in caso di azione risarcitoria, di quanto così corrisposto.
Ancora, le Sezioni Unite richiamano:
1) l'art. 28, commi 5 e 6, d.lgs. n. 150/2011, che - in ordine alle controversie in materia di discriminazione - dà facoltà al giudice di condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale, tenendo conto del fatto che l'atto o il comportamento discriminatorio costituiscano ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso, volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento;
2) l'art. 18, comma 2, statuto dei lavoratori, il quale prevede che, in ogni caso, la misura del risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto;
3) l'art. 28, comma 2, d.lgs. n. 81/2015, in materia di tutela del lavoratore assunto a tempo determinato, e la norma anteriore di cui all'art. 32, commi 5, 6 e 7, l. n. 183/2010, che prevede, nei casi di conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato per illegittimità dell'apposizione del termine, una forfettizzazione del risarcimento; le prestazioni sanzionatorie, con riferimento alla materia condominiale (segnatamente l'art. 70 disp. att. c.c. prevede che per le infrazioni al regolamento di condominio può essere stabilito, a titolo di sanzione, il pagamento di una somma fino ad euro 200 e, in caso di recidiva, fino ad euro 800, con deliberazione dell'assemblea, importo che deve essere devoluto al fondo di cui l'amministratore dispone per le spese ordinarie), alla disciplina della subfornitura (l'art. 3, comma 3, l. n. 192/1998, dispone che, in caso di mancato rispetto del termine di pagamento, il committente deve al subfornitore, senza bisogno di costituzione in mora, interessi corrispondenti al tasso ufficiale di sconto maggiorato di cinque punti percentuali, salva la pattuizione tra le parti di interessi moratori in misura superiore e salva la prova del danno ulteriore; ove il ritardo nel pagamento ecceda i trenta giorni dal termine convenuto, il committente incorre, inoltre, in una penale pari al 5 per cento dell'importo in relazione al quale non ha rispettato i termini), al ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali (gli artt. 2 e 5,d.lgs. n. 231/2002 prevedono che nel caso di ritardo sia dovuto il saggio degli interessi determinato in misura pari al saggio d'interesse del principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea applicato alla sua più recente operazione di rifinanziamento principale effettuata il primo giorno di calendario del semestre in questione, maggiorato di sette punti percentuali; il saggio di riferimento in vigore il primo giorno lavorativo della Banca centrale europea del semestre in questione si applica per i successivi sei mesi).
Nondimeno, si tratta di fattispecie eterogenee, appunto perché, accanto ad ipotesi propriamente risarcitorie, ossia volte a rifondere il danneggiato del nocumento patito, sebbene in chiave ultracompensativa, si riscontrano ipotesi che non hanno affatto una funzione riparatoria, ma importano tout court una sanzione civile pecuniaria o una pena privata, con valenza puramente afflittiva, indipendentemente dall'individuazione di un danneggiato, il cui pregiudizio subito debba essere riparato. Tale discriminazione porta con sé i riflessi che seguono: a) il risarcimento è riconosciuto inevitabilmente in favore del danneggiato, la sanzione fisiologicamente è disposta a vantaggio dell'Erario; b) la sanzione civile non ha alcuno scopo reintegratorio del patrimonio della vittima, sicché la sua irrogazione lascia impregiudicato il risarcimento del danno in favore del danneggiato, la cui quantificazione non può tenere conto della somma dovuta o versata a titolo di sanzione; c) la sanzione civile postula l'esatta demarcazione della specifica condotta sanzionata e non ammette il richiamo a comportamenti evanescenti o individuati in termini generici, diversamente dal risarcimento che può essere previsto in ragione di qualunque fatto che cagioni danno ad altri in determinati settori; d) la pena pecuniaria privata esige una previa delimitazione quantitativa del dovuto, diversamente dal risarcimento, la cui liquidazione è rimessa alla discrezionalità del giudice, sebbene entro parametri se non prefissati quantomeno prevedibili qualora il ristoro abbia anche natura afflittiva; e) la pena pecuniaria privata è irrogata anche d'ufficio, mentre il risarcimento dei danni esige, di norma, la domanda di parte. Sicché deve essere puntualizzata la distinzione, a fronte della commistione che emerge dalle ipotesi elencate dalla sentenza citata, tra il momento risarcitorio, sebbene in una dimensione anche afflittiva, e il momento sanzionatorio puro, per effetto dell'irrogazione di una pena pecuniaria: nel primo caso, non solo non si può prescindere dall'individuazione di un danneggiato e di un danno che la condotta lesiva ha cagionato, ma inoltre il risarcimento riconosciuto mira a rimediare al nocumento patito, in favore di colui che lo ha patito, sebbene sia aggravato da una prospettiva punitiva; viceversa, la comminazione di una sanzione civile pecuniaria pura non postula tutto ciò, richiedendo piuttosto l'emarginazione di un contegno illecito o illegale meritevole di punizione, rispetto al quale l'irrogazione della sanzione persegue una precipua finalità general e special-preventiva, oltre che retributiva, indipendentemente dall'integrazione di un danno subito dalla vittima del comportamento incriminato e dall'intento di porvi riparo. Da ciò discende, sotto il profilo prettamente tecnico-giuridico, che il risarcimento del danno atto a perseguire una concorrente finalità sanzionatoria (i cd. danni punitivi) non è stricto sensu una pena privata, che invece è teleologicamente avvinta da uno scopo esclusivamente afflittivo. La natura delle ipotesi richiamate: danni punitivi e pene private
Così costituiscono fattispecie di risarcimento con funzione integrativa punitiva:
- il risarcimento dei danni a carico di uno dei genitori nei confronti del minore ovvero di uno dei genitori nei confronti dell'altro, in quanto diretto a riparare alle gravi inadempienze o agli atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell'affidamento, a fronte della sanzione di cui al n. 4;
- il risarcimento dei danni in tema di proprietà industriale, che deve essere commisurato ai profitti realizzati dall'autore del fatto, essendo così esaltata la natura preventivo-deterrente di tale risarcimento, ove l'agente abbia lucrato un profitto di maggiore entità rispetto alla perdita subita dal danneggiato; la riparazione del danno che la Consob può richiedere, in tema di intermediazione finanziaria, quale parte civile, nei procedimenti penali per i reati di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato, per il pregiudizio che il reato ha determinato all'integrità del mercato, dovendo la somma determinata dal giudice, anche in via equitativa, tenere comunque conto dell'offensività del fatto, delle qualità del colpevole e dell'entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato; la somma dovuta a titolo di riparazione dall'autore della pubblicazione degli atti o dei documenti, dal direttore responsabile e dall'editore, in solido fra loro, nel caso di pubblicazioni di intercettazioni illegali, del cui importo occorre tenere conto in sede di determinazione e liquidazione del risarcimento dei danni residui;
- il risarcimento spettante nelle controversie in materia di discriminazione, in cui si fa richiamo espressamente al danno, anche non patrimoniale, subito;
- il risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità; il risarcimento del danno a carico del datore di lavoro e a favore del lavoratore nei casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, mediante un'indennità onnicomprensiva nella misura che varia tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto;
- gli interessi per il ritardo nella subfornitura e nelle transazioni commerciali.
Non sono qualificabili, invece, come fattispecie risarcitorie, ma sono vere e proprie sanzioni civili:
- la riparazione dovuta a seguito di diffamazione a mezzo stampa, in favore del diffamato, in relazione alla gravità dell'offesa e alla diffusione dello stampato, quale ipotesi eccezionale di pena pecuniaria privata, non suscettibile di applicazione analogica a casi diversi da quelli espressamente contemplati, in aggiunta al risarcimento del danno comprensivo sia del danno patrimoniale che del danno non patrimoniale, ai sensi dell'art. 185 c.p., da cui non dovrà essere detratto l'importo riconosciuto a titolo di riparazione, non rientrando tale importo nell'ambito del risarcimento del danno, né costituendo una duplicazione delle voci di danno risarcibile (cfr. Cass. civ., sez. III, 14 marzo 2013, n. 6579; Cass. civ., sez. III, 17 marzo 2010, n. 6490; Cass. civ., sez. III, 26 giugno 2007, n. 14761);
- la fattispecie descritta dall'art. 3 d.lgs. n. 7/2016, secondo cui, in ordine ai fatti depenalizzati, il suo autore è tenuto anche al pagamento della sanzione pecuniaria civile ivi stabilita, qualora tali fatti siano dolosi.
Tale ultima sanzione civile pecuniaria è, infatti, del tutto indipendente dalle restituzioni e dal risarcimento del danno dovuti secondo le leggi civili. E così non hanno funzione risarcitoria le misure coercitive indirette, generali e speciali, che, in quanto irrogate in via preventiva, hanno uno scopo dissuasivo dell'inadempimento mentre ex post perseguono uno scopo esclusivamente afflittivo, rimanendo del tutto impregiudicata la riparazione del danno che tale persistente inadempimento abbia eventualmente provocato. A fortiori, gli artt. 388 e 650 c.p. comminano una sanzione penale. La comminatoria aggiuntiva prevista per la mancata reintegrazione del lavoratore, a fronte dell'accertamento dell'illegittimità di un licenziamento di particolare gravità, ha una palese natura sanzionatoria, mentre è esclusa qualsiasi connotazione risarcitoria. Allo stesso modo, ha un obiettivo spiccatamente ed esclusivamente punitivo il pagamento di una somma di denaro in favore del comune, cui il locatore è tenuto, qualora eserciti il recesso per una ragione successivamente rivelatasi non reale, essendo anche in questo caso del tutto impregiudicato il risarcimento che il conduttore danneggiato può rivendicare per tale condotta, ai sensi del primo comma, quest'ultimo avente una duplice natura, risarcitoria e sanzionatoria, che si riverbera sulla quantificazione del danno (così Cass. civ., sez. III, 23 gennaio 2009, n. 1700 e Cass. civ., sez. III, 28 ottobre 2004, n. 20926, secondo cui il contemperamento tra il fine sanzionatorio - evocato dalla rubrica della disposizione in esame, intitolata “Sanzioni” - e quello propriamente risarcitorio può ritenersi realizzato mediante la presunzione di sussistenza del danno comunque connesso all'anticipata restituzione dell'immobile, che il giudice è chiamato a liquidare equitativamente sulla base delle caratteristiche del caso concreto in difetto di prova della sua precisa entità da parte del conduttore e salva la possibilità per il locatore di superare la presunzione suddetta provando l'assenza di conseguenze pregiudizievoli per il conduttore). Risalta, al contempo, la differenza tra il risarcimento del danno che può essere disposto in favore del minore o dell'altro genitore, ai sensi dell'art. 709-ter, comma 2, nn. 2 e 3, c.p.c., e la sanzione pecuniaria aggiuntiva che può essere inflitta per le violazioni sull'affidamento della prole, variabile da un minimo di euro 75 ad un massimo di euro 5.000, a favore della cassa delle ammende, ai sensi del n. 4 di tale articolo; in quest'ultima evenienza è intrinseco alla previsione il chiaro intento afflittivo. In ultimo, è radicata una funzione esclusivamente sanzionatoria nella disposizione che disciplina le misure previste per le infrazioni al regolamento di condominio, che puniscono la violazione in sé, indipendentemente dal pregiudizio che da essa può discendere al condominio.
Gli istituti eterogenei del risarcimento, con funzione anche afflittiva, e della sanzione civile o pena privata, con funzione esclusivamente afflittiva, nella prospettiva accolta dalla pronuncia di nomofilachia, sono accomunati da un fattore: in entrambi i casi rispettivamente il quomodo del risarcimento, che realizza anche uno scopo punitivo, e l'an della sanzione, che realizza uno scopo puramente punitivo, presuppongono un puntuale intervento normativo, che riconduca la componente sanzionatoria ad una ratio di tipicità e prevedibilità. Sicché non può essere riconosciuta al risarcimento una componente anche afflittiva e non può esservi sanzione civile ove non vi sia una norma che contempli espressamente, nel primo caso, la natura composita del risarcimento e che disponga, nel secondo, l'irrogazione della sanzione. Questo fattore comune lascia, comunque, ferma la netta distinzione tra le due figure. Anche la già citata Cass. n. 7613/2015 sottolinea tale differenza, con specifico riguardo alle misure coercitive indirette, pur evidenziandone i punti di relativa similitudine. Così, secondo tale arresto, «risarcimento del danno ed astreinte costituiscono misure fra loro diverse, con funzione l'uno reintegrativa e l'altra coercitiva al di fuori del processo esecutivo, volta a propiziare l'induzione all'adempimento. Parimenti, il danno punitivo ha struttura e funzione non coincidenti con l'astreinte. A voler individuare, tra questi ultimi, dei tratti comuni, si può pur considerare che entrambi mirano (a coartare) all'adempimento: l'astreinte di un obbligo ormai posto all'interno della relazione diretta tra le parti, in quanto derivante dal provvedimento giudiziale (anche qualora in origine si trattasse di illecito extracontrattuale) e da adempiersi in futuro; il danno punitivo - ma solo se riguardato come previsione normativa astratta fra gli strumenti a disposizione del giudice adito - all'adempimento futuro dell'obbligo generale del neminem laedere o dell'obbligazione contrattuale principale, restando però il contenuto suo proprio quello di sanzione per il responsabile, così che il profilo della coazione ad adempiere si configura con riguardo ad altri potenziali danneggianti o danneggiati. Insomma, a voler ravvisare in entrambi gli istituti il fine di coartazione della volontà, si dovrà parlare, da una parte, di funzione deterrente propria e, dall'altra parte, di una funzione deterrente solo indiretta. Il parallelismo si estende in senso inverso, perché l'astreinte, se mira a convincere all'adempimento, ex post funziona anche come sanzione per il suo contrario. E, dunque, può pur dirsi che le astreintes e i danni punitivi, già negli ordinamenti di derivazione, operano sia come strumenti sanzionatori e sia come forme di coazione indiretta all'adempimento. Eppure, le differenze restano fondamentali: permane il fatto che l'astreinte non ripara il danno in favore di chi l'ha subito, ma minaccia un danno nei confronti di chi si comporterà nel modo indesiderato. Allorché la misura pecuniaria sia comminata in aggiunta non alla condanna risarcitoria, ma a quella a consegnare un bene determinato, l'astreinte si allontana dalla liquidazione del danno punitivo, presentando i caratteri di una tecnica di tutela di altro tipo, ossia d'induzione all'adempimento mediante una pressione (indiretta nel senso che non ricorre agli organi dello Stato, ma diretta per il fine perseguito) a tenere il comportamento dovuto». D'altronde, la stessa locuzione “danni punitivi” lascia intendere che la relativa integrazione postula la causazione di un danno, sebbene la sua quantificazione sia incrementata alla stregua della natura composita del ristoro riconosciuto, che deve tenere conto anche della finalità afflittiva perseguita dalla liquidazione. La disposizione, anche d'ufficio, della condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata, al momento della pronuncia sulle spese di lite, per l'integrazione di condotte processuali abusive o temerarie, rappresenta invece un'ipotesi controversa. La ricostruzione della figura ibrida della condanna, anche d'ufficio, per lite temeraria alla luce di tale discriminazione
Sull'inquadramento sistematico della condanna regolata dall'art. 96, comma 3, c.p.c. ricorrono elementi che indirizzano verso una qualificazione giuridica in termini di pena pecuniaria privata ed altri che militano per una collocazione più articolata, in chiave anfibologica, in cui all'accentuata (ma non esclusiva) componente sanzionatoria si associa una componente indennitario-riparatoria, sia pure sub specie di danno presunto.
La tesi secondo cui la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata persegue una funzione afflittiva pura trova fondamento nei seguenti indici:
a) non vi è alcun richiamo al “risarcimento” dei danni processuali, diversamente dalla struttura dei primi due commi;
b) vi è la previsione del potere del giudice di disporre tale condanna anche d'ufficio;
c) la previsione circa il potere del giudice, all'esito della pronuncia sulle spese di lite, in ogni caso e anche d'ufficio, di condannare la parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata non è subordinata (oltre che all'integrazione di una condotta attuata da tale parte) alla provocazione di un pregiudizio particolare nei confronti della parte vittoriosa.
Di contro, l'indirizzo che ascrive tale misura nell'alveo delle condanne con funzione punitivo-riparatoria trova fondamento nei seguenti rilievi:
1) la norma è pur sempre inserita nella disciplina della responsabilità aggravata, mentre l'art. 96 c.p.c. è ricompreso nel capo quarto, la cui rubrica è significativamente riferita alla “responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali”;
2) non solo non è tipizzato, almeno in via diretta, il comportamento lesivo che giustifica la disposizione di tale condanna, ma inoltre non è comunque rinvenibile una specifica condotta sanzionata, benché dalla lettura sistematica della disposizione si possa desumere il riferimento, alquanto generico, ai contegni abusivi o temerari o scorretti o sleali compiuti nel corso del processo;
3) non ricorre una cornice edittale entro cui la condanna deve essere contenuta, né sono indicati dei parametri elastici con valenza orientativa, ma vi è una mera rimessione della liquidazione alla ponderazione equitativa pura del giudice;
4) il beneficiario della condanna non è l'Erario, bensì la parte vittoriosa, al quale non sono conferiti meri compiti di cura della riscossione in vista della garanzia di effettività nella soddisfazione della pretesa per conto di terzi, ma cui spetta la prestazione dovuta quale destinatario finale;
5) è comunque richiesto, secondo l'indirizzo consolidato della giurisprudenza, che il comportamento del soccombente sia qualificato sul piano soggettivo dalla mala fede o dalla colpa grave;
6) è ad ogni modo escluso, anche con riferimento al terzo comma della disposizione, che la parte possa richiedere il risarcimento dei danni derivanti dal processo attraverso l'instaurazione di un autonomo giudizio, ponendosi l'art. 96 c.p.c. in rapporto di specialità rispetto all'art. 2043 c.c., sicché la responsabilità processuale aggravata, pur rientrando nella generale responsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sotto la disciplina del citato art. 96 c.p.c., senza che sia configurabile un concorso, anche alternativo, tra le due fattispecie, con l'effetto che risulta inammissibile la proposizione di un autonomo giudizio di risarcimento per i danni asseritamente derivati da una condotta di carattere processuale, i quali devono essere chiesti esclusivamente nel relativo giudizio di merito (v. Cass. civ., sez. VI-III, 16 maggio 2017, n. 12029).
In base alla prima impostazione, si è sostenuto che, in tema di responsabilità aggravata, l'art. 96, comma 3, c.p.c. prevede una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del danno causalmente derivato dalla condotta processuale dell'avversario (in questo senso cfr. Cass. civ., sez. I, 8 febbraio 2017, n. 3311; Cass. civ., sez. I, 30 luglio 2010, n. 17902). Anche altri arresti identificano la misura con una vera e propria pena pecuniaria: Cass. civ., sez. III, 14 ottobre 2016, n. 20732, secondo cui è fonte di responsabilità processuale la proposizione del ricorso in Cassazione malgrado la conoscenza o l'ignoranza gravemente colposa della sua insostenibilità; Cass. civ., sez. III, 29 settembre 2016, n. 19285, secondo cui deve essere sanzionato il contegno consistente nella proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, giacché ripetitivi di quanto già confutato dal giudice d'appello, ovvero perché assolutamente irrilevanti o generici o, comunque, non rapportati all'effettivo contenuto della sentenza impugnata; Cass. civ., sez. V, 14 settembre 2016, n. 18057, secondo cui va condannata la parte che non abbia adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'infondatezza della propria posizione e comunque abbia agito senza aver compiuto alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione con criteri e metodo di scientificità la giurisprudenza consolidata ed avvedersi della totale carenza di fondamento del ricorso; Cass. civ., sez. III, 21 luglio 2016, n. 15017, secondo cui la condanna può essere irrogata nell'ipotesi di impiego pretestuoso e strumentale, e quindi di abuso, del diritto di impugnazione, per aver prospettato, quale unico motivo di ricorso in Cassazione, la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato con riferimento al mero accoglimento parziale di una domanda; Cass. civ., sez. lav., 19 aprile 2016, n. 7726, che si riferisce alla sanzione per l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta; Cass. civ., sez. VI-II, 11 febbraio 2014, n. 3003, che ha sostenuto che la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata ha natura sanzionatoria e officiosa, sicché essa presuppone la mala fede o colpa grave della parte soccombente, ma non corrisponde a un diritto di azione della parte vittoriosa.
Aderendo alla seconda ricostruzione, la condanna in tema di responsabilità processuale aggravata, in ogni caso e anche d'ufficio, della parte soccombente, in favore della controparte vittoriosa, oltre che alla refusione delle spese, anche al pagamento di una somma equitativamente determinata, deve essere letta in chiave punitivo-indennitaria dell'abuso del processo civile o amministrativo, con finalità non esclusivamente afflittiva e, più propriamente, in una dimensione sanzionatoria e deterrente nei confronti delle liti temerarie e, quindi, quale strumento efficace di deflazione del contenzioso, concorrendo però uno scopo indennitario nei confronti della parte vittoriosa (secondo lo schema del danno presunto) nelle non infrequenti ipotesi in cui sia per essa difficile provare l'an o il quantum del danno subito, suscettibile di formare oggetto del risarcimento di cui ai primi due commi dell'art. 96 (così Corte cost. 23 giugno 2016, n. 152). Non a caso la citata pronuncia della Consulta allude in più passi a questa funzione composita, riferendosi: 1) alla funzione (esclusivamente o prevalentemente) sanzionatoria; 2) alla natura non risarcitoria (o, comunque, non esclusivamente tale) e, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive, della disposizione; 3) alla tutela di un interesse che trascende (o non è, comunque, esclusivamente) quello della parte stessa; 4) all'analoga funzione sanzionatoria (e, concorrentemente, indennitaria) attribuibile alla condanna del ricorrente (o resistente) in Cassazione, con colpa grave, prevista dall'abrogato art. 385. Sostenere che la fattispecie descritta dall'art. 96, comma 3, c.p.c. non esige la prova di un danno nei confronti della parte vittoriosa, danno che il comportamento processuale abusivo, ascritto alla parte soccombente, ha cagionato, non equivale a sostenere che la disposizione delinea, per ciò solo, una pena privata, essendo l'agevolazione probatoria sull'integrazione del nocumento, in ragione dell'argomentare per abduzione o della presunzione o della realizzazione in re ipsa che deriva dal contegno temerario, comunque indicativa dell'integrazione di un'ipotesi risarcitoria. In questa prospettiva, la riconduzione della fattispecie alla categoria dei danni punitivi postula che, ad ogni modo, la somma riconosciuta in via equitativa soddisfi anche un'esigenza riparatoria, attesa l'inevitabile voce indennitaria, oltre che afflittiva, che caratterizza l'importo liquidato a tale titolo. Al di là delle indebite commistioni che sul piano etimologico sono state compiute tra pena privata, da un lato, e danno punitivo (secondo il modello anglosassone dei punitive damages), in cui la concorrente voce riparatoria è probabile o in re ipsa o presunta, dall'altro lato, evidenziare la discriminazione tra tali istituti non costituisce un'operazione meramente teorica o un astratto artificio concettuale, poiché il trattamento giuridico che ne consegue non è affatto omogeneo. Infatti, ove, come appare più plausibile, si attribuisca a tale istituto una connotazione anfibologica, afflittivo-indennitaria, seppure secondo la categoria del danno presunto o strutturato, ossia che può essere riconosciuto in sé quale effetto insito nell'instaurazione di una lite temeraria da cui la parte vittoriosa non può trarre “normalmente” beneficio, dovrebbe escludersi, seppure in presenza dei relativi presupposti, anche subiettivi (dolo o colpa grave), la responsabilità da lite temeraria, ove dagli atti emerga ictu oculi che, del tutto occasionalmente e casualmente, la parte vittoriosa abbia ricavato un qualsiasi vantaggio o un'utilità concreta dalla condotta abusiva della controparte: perché, a titolo esemplificativo, in conseguenza del contegno dilatorio assunto dal soccombente, è sopravvenuta una norma di interpretazione autentica favorevole (o più favorevole) alla propria tesi ovvero è intervenuto un aggravamento non prevedibile del danno lamentato, tale da legittimare un'integrazione delle indagini peritali e un risarcimento più congruo e adeguato al caso concreto. Pertanto, la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata impone al giudice di verificare che dagli atti possa evincersi la conclusione che, in conseguenza del comportamento azionato dal soccombente, la parte vittoriosa non abbia tratto un vantaggio, seppure del tutto casuale; la ricorrenza di tale vantaggio preclude la condanna. Viceversa, se si optasse per la tesi della pena privata, anche in tali evenienze la condanna potrebbe comunque essere comminata. Ma ciò non basta. Il riconoscimento di una concorrente funzione indennitaria dei danni punitivi processuali che possono essere delibati, su istanza di parte o d'ufficio, ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., esclude che, fuori dal processo, possa essere rivendicata la componente riparatoria del risarcimento che quella stessa condotta abusiva ha determinato, non tanto e non solo perché tali pregiudizi avrebbero dovuto essere richiesti e dimostrati nello stesso processo in cui la condotta abusiva è stata realizzata, attraverso la domanda di cui all'art. 96, comma 1, c.p.c., ma soprattutto in quanto tale voce deve reputarsi già inclusa nell'importo liquidato a titolo di danni punitivi. Ed ancora, la concorrente finalità indennitaria della condanna disposta ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. dovrebbe escludere il concorso di tale condanna con le condanne irrogabili in forza dell'art. 96, commi 1 e 2, c.p.c.. L'interesse a promuovere l'istanza di condanna secondo lo schema dell'art. 96, comma 1, c.p.c. resterebbe comunque integro nell'ipotesi in cui la parte sia nelle condizioni di dimostrare l'an e il quantum di un pregiudizio specifico di ampia consistenza, che il contegno lesivo del soccombente ha cagionato. Si ribadisce, al riguardo, che la stessa locuzione “danni punitivi” non può prescindere dalla componente riparatoria (o indennitaria) del relativo riconoscimento, sebbene in esso converga una spiccata componente sanzionatoria, che altrimenti non di danni si tratterebbe, ma di sanzione civile pura. Piuttosto, il modello del danno presunto o strutturato che connota le condanne punitive, e segnatamente - per quanto di interesse - la condanna per l'uso abusivo del processo, imporrebbe una graduazione del tutto originale tra le finalità proprie che la disposizione persegue: a fronte di un modello generale di tutela risarcitoria, in cui la polifunzionalità del risarcimento implica che, accanto ad una funzione primaria insopprimibile e qualificante dell'istituto di natura compensativa, possano concorrere altre funzioni, e precisamente una funzione sanzionatoria o deterrente, purché siano osservati i canoni della tipicità delle fattispecie e della prevedibilità della condanna, anche in chiave afflittiva, nel modello speciale dei danni che conseguono all'uso strumentale del processo il rapporto tra dette funzioni è invertito, nel senso che, accanto alla funzione punitiva primaria, si associa (e deve associarsi, pena lo sconfinamento nel diverso istituto delle sanzioni civili pecuniarie pure) una concorrente (e meno marcata) funzione indennitario-riparatoria. E ciò in assonanza con la tesi secondo cui il contemperamento tra funzioni satisfattiva e sanzionatoria non esclude che in alcune circostanze quest'ultima possa avere non già un ruolo ancillare bensì trainante (Busnelli-Patti, Danno e responsabilità civile, Torino, 2013, 82 e 240). Sicché la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. ha natura anfibologica, in base all'assunto secondo cui lo Stato sanziona mentre il giudice risarcisce. L'anfibologia strutturale è da intravedere nella doppia anima dell'istituto: resta un risarcimento, il quale copre un danno “presunto” della parte, ma esso realizza una funzione sanzionatoria, in quanto il giudice rende la condanna nella consapevolezza degli importanti effetti che essa avrà anche “fuori” dal singolo processo e per rimarcare la disapprovazione per l'utilizzo emulativo dello strumento processuale. Questa soluzione ha il pregio di riportare l'istituto della responsabilità processuale, anche nella sua ultima versione, nei limiti delle linee-cardine del sistema, il quale subordina l'inflizione di qualsiasi ristoro, anche se in funzione composita (compensativa, solidaristica e sanzionatoria), all'integrazione di un nocumento ingiusto patito dalla vittima, con valenza endo ed eso-processuale. Ragioni ontologiche che escludono la natura di pena pecuniaria pura
Se così non fosse la previsione si porrebbe in tensione con i valori costituzionali e, in specie, con il principio di legalità: non appare, infatti, compatibile con la qualificazione della previsione in termini di sanzione civile pura la rimessione della pena pecuniaria alla determinazione meramente equitativa del giudice, senza alcuno sbarramento quantitativo, peraltro a fronte di contegni non puntualmente individuati, ma riconducibili alla categoria generale dell'abuso del processo. Così come sarebbe palesemente incostituzionale una norma penale che delineasse una fattispecie di reato evocando una condotta del tutto generica e demandandone la pena alla ponderazione equitativa del giudice, in violazione dei principi di legalità e del suo corollario (ossia il precetto di tassatività). Tale distonia emerge in modo lampante alla luce del confronto con altre disposizioni relative al campo processuale, che irrogano con certezza specifiche pene pecuniarie, qualificandole espressamente come tali e individuandone appunto la cornice edittale, peraltro indicando come beneficiario l'Erario (sulla regolazione delle ordinanze di condanna a pene pecuniarie vedi art. 179 c.p.c., che rinvia alle ipotesi codicistiche espressamente previste, con riguardo a specifici addebiti da contestare). Sicché la differenza di tecnica legislativa utilizzata è evidente (Ponzanelli, voce Pena privata, EG, XXII, Roma, 1990, 5). In primo luogo, l'art. 255, comma 1, c.p.c. stabilisce che, ove il testimone regolarmente intimato non comparisca in giudizio per essere sentito senza giustificato motivo, il giudice può condannarlo ad una “pena pecuniaria” non inferiore a 100 euro e non superiore a 1.000 euro e, in caso di ulteriore mancata comparizione senza giustificato motivo, ad una “pena pecuniaria” non inferiore a 200 euro e non superiore a 1.000 euro (non già al pagamento di una somma equitativamente determinata). Utilizzano la stessa tecnica di costruzione della norma gli artt. 220, comma 2, 226, comma 1, ult. periodo, 476, comma 4, c.p.c.. Con riferimento ai giudizi di impugnazione, l'art. 283, comma 2, c.p.c. (e analogamente gli artt. 408 e 431, ult. comma, c.p.c.) prevede che, ove l'istanza di sospensione in tutto o in parte dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza impugnata in appello sia inammissibile o manifestamente infondata, il giudice d'appello può condannare la parte che l'ha proposta ad una “pena pecuniaria” non inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro 10.000. Ed ancora, l'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002 (T.u. in materia di spese di giustizia), al fine precipuo di scoraggiare le impugnazioni inammissibili, improcedibili o infondate, dispone che, quando l'impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a «versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale», a norma del comma 1-bis; in tali casi, il giudice dell'impugnazione dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti per l'irrogazione di tale sanzione pecuniaria e l'obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso. La previsione dell'art. 96, comma 3, c.p.c., in ordine alla condanna del soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata, recupera invece un proprio spazio applicativo, anche in chiave costituzionalmente adeguata, qualora si attribuisca all'istituto una portata composita, sanzionatoria e indennitaria, rispetto alla quale l'interpretazione giurisprudenziale prevalente, circa la quantificazione dell'importo dovuto in proporzione alla misura delle spese di lite liquidate, assume un valore meramente orientativo. E questa correlazione con l'importo dei compensi soddisfa altresì l'esigenza avvertita dalla sentenza, Cass., Sez.Un., n. 16601/2017, che la voce sanzionatoria dei danni punitivi sia prevedibile anche in ordine ai limiti quantitativi riconoscibili dall'autorità giudiziaria.
Ne consegue, secondo la lettura che in questa sede appare preferibile, che il significato della locuzione d'esordio «In ogni caso» non è atto a giustificare l'irrogazione di una sanzione civile pura, quand'anche sia disposta la condanna ai sensi dei primi due commi dell'art. 96 c.p.c.. Piuttosto, tale locuzione è indicativa di un rinvio per relationem alla condotta lesiva che legittima la condanna, ossia all'azione o resistenza in giudizio con mala fede o colpa grave, che altrimenti la previsione sarebbe indeterminata, quand'anche la condanna ai sensi del primo comma sia disattesa per difetto di prova dell'an del danno lamentato. Mentre il risarcimento invocabile ai sensi del primo comma ha una portata esclusivamente ristoratorio-compensativa e postula la dimostrazione del nocumento patito, potendo la liquidazione equitativa surrogare la mera impossibilità o estrema difficoltà di prova del quantum, la condanna di cui al terzo comma ha una funzione composita, prevalentemente afflittiva e in via concorrente indennitaria, essendo la relativa irrogazione rimessa all'iniziativa officiosa del giudice sia in ordine all'an sia in relazione al quantum debeatur. Ancora più marcato è il difetto ricostruttivo in cui ricade la previsione dell'art. 8, ultimo comma, l. 24/2017 (cd. leggeGelli-Bianco sulla responsabilità sanitaria), secondo cui la partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva […] è obbligatoria per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione di cui all'art. 10 […]. In caso di mancata partecipazione, il giudice, con il provvedimento che definisce il giudizio, condanna le parti che non hanno partecipato al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall'esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione. In questa ipotesi, la norma qualifica espressamente la previsione della condanna al pagamento di una somma determinata equitativamente come pena pecuniaria, nondimeno ne rimette la quantificazione alla valutazione equitativa del giudice e individua il beneficiario nella parte privata che è comparsa alla conciliazione. Nei termini anzidetti, la disposizione non sembra poter trovare una lettura costituzionalmente orientata in sede interpretativa, poiché l'esplicito richiamo alla natura di pena pecuniaria esclude la sua collocazione nella categoria dei danni punitivi. Pertanto, la norma pare porsi in irrimediabile contrasto con gli artt. 23 e 25, comma 2, Cost..
Conclusioni
La ricostruzione della fattispecie in termini prevalentemente afflittivi e, in via concorrente, indennitari non costituisce un deprecabile ritorno al passato, e neanche un maldestro tentativo di ridimensionare la portata innovativa della disposizione. Piuttosto, prende atto dell'equivoco in cui è incorso il legislatore attraverso una norma mal formulata, che ha creato una figura ibrida, senza assumere un'espressa posizione sulla sua natura di pena privata o di condanna sanzionatoria, tratteggiandone conseguentemente gli estremi necessari. E ciò anche in ragione della discutibile collocazione sistematica della previsione nell'ambito dell'articolo dedicato alla responsabilità aggravata per danni processuali. All'uopo, è stata prospettata una lettura costituzionalmente orientata, volta a salvare l'efficacia precettiva della norma, che altrimenti incorrerebbe nella censura di illegittimità costituzionale per violazione dei parametri di cui agli artt. 23 e 25, comma 2, Cost.. Ed infatti, se i limiti quantitativi devono essere ex ante prevedibili finanche per i danni punitivi, a maggior ragione i limiti minimi e massimi devono essere prefissati per le pene private. Ove, per converso, la norma fosse letta in chiave esclusivamente afflittiva, sarebbe dato intravedere il rischio di una deriva autoritaria del processo sotto le apparenze di un'ondata moralizzatrice (Taruffo, Abuso del processo, in CeI, 2015, 832), tenuto conto che la mancata previsione di precisi parametri sia qualitativi sia quantitativi, in ordine alla determinazione dell'esborso monetario dovuto a tale titolo, attribuirebbe al giudice un potere tanto discrezionale quanto addirittura, sotto certi versi, arbitrario. Ed invero, la rilevanza delle pene private nel nostro ordinamento postula una specifica ed auspicabilmente chiara previsione legale, una rigorosa tipizzazione e la previsione di parametri prefissati di quantificazione, il che non ricorre nella fattispecie delineata dall'art. 96, comma 3, c.p.c.. Sicché la qualificazione dell'istituto quale ipotesi di condanna per danni punitivi, purché la quantificazione delle componenti sanzionatorie e indennitarie sia contenuta entro limiti prevedibili, che ben possono essere rappresentati da una frazione o un multiplo della concorrente e propedeutica condanna alla refusione delle spese di lite, sembra armonizzarsi in modo adeguato:
a) con la prospettiva di Cass., Sez.Un., n. 16601/2017, secondo cui sono ammissibili nel nostro ordinamento giuridico le condanne a titolo di risarcimento dei danni che perseguono anche uno scopo afflittivo, purché si faccia riferimento alle figure tipizzate regolate dal legislatore;
b) con la necessità che le pene private siano irrogate a fronte di condotte tassativamente determinate ed entro una forbice previamente stabilita dalla norma, peraltro - in linea di massima - a vantaggio dello Stato;
c) con l'espressa attribuzione alla previsione dell'art. 96, comma 3, c.p.c., seppure all'esito del riconoscimento della spiccata funzione sanzionatoria perseguita dalla norma (rectius della sua qualificazione quale peculiare strumento sanzionatorio), a tutela di un interesse che trascende (o non è, comunque, esclusivamente) quello della parte stessa, e si colora di connotati innegabilmente pubblicistici, di una concomitante finalità indennitaria nelle, non infrequenti, ipotesi in cui sia per essa difficile provare l'an o il quantum del danno subito, suscettibile di formare oggetto del risarcimento di cui ai primi due commi dell'art. 96c.p.c., come ritenuto da Corte cost. n. 152/2016 per disattendere la questione di legittimità costituzionale della norma nella parte in cui stabilisce che la condanna sia a favore della parte privata e non dell'Erario.
In questa prospettiva, la norma si presterebbe a consentire il ristoro dei danni non patrimoniali che derivino dalla violazione del principio del giusto processo ad opera della parte che abbia abusato dello strumento processuale: danni dei quali è appunto più difficile, se non impossibile, fornire la prova secondo i criteri normativi generali, in quanto essi si ricollegano alla lesione di interessi privati occasionalmente protetti in via di rifrazione della concomitante lesione di un interesse pubblico (Busnelli-D'Alessandro, L'enigmatico ultimo comma dell'art. 96 c.p.c.: responsabilità aggravata o condanna punitiva, DeR, 2012, 585). D'altronde, la facoltà del giudice di provvedere d'ufficio è del tutto compatibile con la preminenza della finalità punitiva della condanna. Né detta impostazione importa un aggravamento sotto l'aspetto deduttivo e probatorio degli oneri della parte, atteso che il giudice può liquidare l'importo dovuto per il titolo composito indicato, sulla scorta di un ragionamento inferenziale circa l'idoneità del contegno processuale che si intende sanzionare a procurare un nocumento nella sfera giuridico-patrimoniale della parte vittoriosa. Pertanto, la norma configura una sanzione civile indiretta, ossia di quel tipo di conseguenza della quale la parte interessata beneficia, con ciò garantendo lo Stato sul rispetto di una certa regola di condotta, partecipando la condanna, al contempo, di una funzione sanzionatoria per il passato, attesa la comminatoria d'ufficio ed anche in assenza della dimostrazione di un nocumento effettivo, e deterrente per il futuro, non senza abdicare ad una funzione risarcitoria da perseguirsi agganciando la quantificazione della somma ai criteri utilizzati per indennizzare il pregiudizio, sia pure presunto, subito dalla parte vittoriosa (Franzoni, La lite temeraria e il danno punitivo, RCP, 2015, 106). |