Gli atti di tolleranza ai fini dell'acquisto del possessoFonte: Cod. Civ. Articolo 1144
16 Ottobre 2017
Il quadro normativo
L'art. 1144 c.c., rubricato «Atti di tolleranza», dispone che: «Gli atti compiuti con altrui tolleranza non possono servire di fondamento all'acquisto del possesso». Si tratta, pertanto, di fatti impeditivi dell'integrazione della situazione di possesso, ossia che siano messi in essere sulla cosa, di cui altri abbia il diritto o il solo potere di fatto, per la semplice condiscendenza di costui e, quindi, con il suo consenso occasionale, anche se ripetuto. Ne discende che tali atti, sul piano oggettivo, si concretano in contegni che incidono in misura minima sul godimento della cosa e, ad ogni modo, che influiscono su tale godimento in via saltuaria e transitoria, al di fuori di un rapporto contrattuale, ma assentiti in ragione di una relazione di familiarità, amicizia o buon vicinato. Nondimeno, gli atti di tolleranza sono configurabili anche in difetto dei requisiti della breve durata e della limitata incidenza del godimento consentito, sempre che tale godimento derivi da una permissio domini che, ingenerando nel destinatario l'affidamento in ordine alla condiscendenza del dominus, faccia nel contempo avvertire al detto destinatario l'immanenza di una sua sempre consentita prohibitio. Qualora si realizzino siffatte condizioni sul piano oggettivo, ne conseguirebbe anche la mancanza dell'elemento soggettivo necessario ad integrare il possesso. Tuttavia, questa conclusione è solitamente affermata alla stregua dell'animus di colui che consente l'attività altrui, che in tale contesto non abdicherebbe al mantenimento della propria posizione, piuttosto che con riferimento allo stato subiettivo dell'agente che ponga in essere l'attività consentita, dovendosi per l'appunto avere riguardo all'atteggiamento di quest'ultimo, seppure senza trascurare il contegno del concedente. La difficoltà di tale indagine induce a dare prevalenza all'importanza oggettivamente esigua dell'attività esplicata sul piano dell'utilizzazione economica della cosa. Il riconoscimento della natura di atto di mera tolleranza di una certa attività, oltre ad escludere che su essa possa essere fondato il possesso, esclude altresì che l'attività possa essere posta a fondamento di una detenzione comunque rilevante. E ciò perché, da un lato, la detenzione presuppone l'esistenza di un titolo giuridicamente specifico, che nella fattispecie difetta, mentre, dall'altro, sussistono ipotesi di detenzione titolata, come la detenzione per ragioni di servizio o di ospitalità, che sono del tutto indifferenti, ai sensi dell'art. 1168 c.c. Ciò non toglie che l'attività ricollegabile ab origine alla natura di meri atti di tolleranza possa tradursi in seguito in possesso, attraverso l'intensificazione del corpus. Natura degli atti di tolleranza
In base ad una prima ricostruzione, l'altrui tolleranza costituirebbe un elemento oggettivo, estraneo alla sfera giuridica del soggetto che pone in essere l'atto e da questa indipendente, con la conseguenza che la ragione ostativa all'acquisto del possesso dovrebbe rinvenirsi nella condotta tollerante, come concretamente realizzatasi, del titolare del diritto. Ne discende che dovrebbe essere il proprietario a provare che il potere di fatto sul bene è esercitato dal terzo con la propria tolleranza. Per contro, in forza di una diversa impostazione, che dà rilievo alla componente soggettiva, la linea di discrimine tra tolleranza e possesso dipenderebbe dall'atteggiamento psicologico del soggetto agente, e quindi dalla circostanza che questi intenda agire iure proprio o confidando nell'altrui tolleranza, con l'effetto che, per contestare il possesso altrui, occorrerebbe fornire la prova dell'altrui consapevolezza della propria tolleranza. Prevale la tesi secondo cui il rapporto tra tolleranza e possesso deve essere indagato su un piano meramente oggettivo. Si osserva, in particolare, che, se in base ai comuni standard sociali, valutati alla stregua della situazione concreta, il comportamento dell'agente si presenti tale da configurare una fattispecie possessoria, ricorrerà un'ipotesi di possesso e non di tolleranza. Viceversa, se in base ai medesimi standard, gli atti in questione devono considerarsi come tollerati, non sembra sufficiente per una loro qualificazione in termini possessori il solo convincimento soggettivo dell'agente di possedere, senza che alla sua condotta sia oggettivamente attribuito quel significato. In giurisprudenza, si tende ad individuare sul piano oggettivo i tratti distintivi degli atti di tolleranza che presentino un accettabile grado di certezza e di fruibilità sul piano probatorio, anche in considerazione del favore che in generale l'ordinamento riserva a chi utilizza il bene in modo produttivo. In specie, sono considerati elementi caratterizzanti degli atti di tolleranza la transitorietà e la saltuarietà, che traggono la loro origine da rapporti di cortesia, di amicizia e familiarità o, comunque, da rapporti di buon vicinato rafforzati dalla consuetudine. Tali elementi, peraltro, fanno sì che gli atti tollerati consistano in un godimento di portata modesta e tale da incidere debolmente sull'esercizio del diritto da parte dell'effettivo titolare. Pertanto, qualora l'agente eserciti un potere ampio, in grado di invadere in modo penetrante e stabile la sfera del diritto del proprietario, senza che a ciò consegua l'opposizione del proprietario stesso, la disponibilità della cosa non potrebbe essere considerata meramente tollerata, bensì dovrebbe essere inquadrata in una vera e propria fattispecie possessoria. In questa prospettiva, si è sostenuto che il protrarsi nel tempo di un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale può integrare un elemento presuntivo di esclusione della tolleranza solo nei rapporti labili e mutevoli, quali quelli di amicizia o di buon vicinato, ma non nei casi di vincoli di stretta parentela, nei quali è plausibile il mantenimento di un atteggiamento tollerante anche per un lungo arco di tempo, né quando i rapporti tra le parti siano caratterizzati da vincoli di società (Cass. civ., sez. II, 8 giugno 2007, n. 13443; Cass. civ., sez. II, 27 aprile 2006, n. 9661; Cass. civ., sez. II, 26 novembre 2004, n. 22290; Cass. civ., sez. II, 16 settembre 2004, n. 18651; Cass. civ., sez. II, 18 giugno 2001, n. 8194). Identificazione degli atti di tolleranza
L'identificazione di una relazione con la cosa, riconducibile all'esplicazione di atti di mera tolleranza, può avvenire sul piano oggettivo, valorizzando i seguenti aspetti: quello attinente all'intensità del godimento esercitato sul bene, che deve essere di portata minima o modesta e, ad ogni modo, non significativa, tale da incidere in modo del tutto trascurabile o molto debolmente sull'esercizio dell'altrui diritto (aspetto quali-quantitativo); quello concernente la natura dei rapporti che si innestano tra il possessore e l'autore degli atti, spesso annoverabili nell'ambito delle relazioni di familiarità o parentela, società, amicizia o buon vicinato, cortesia od opportunità (aspetto relazionale); quello relativo alla dimensione temporale, poiché il mantenimento della disponibilità del bene in via del tutto saltuaria o transitoria od occasionale o sporadica, piuttosto che in via duratura e prolungata nel tempo, è emblematico della sua ascrivibilità agli atti di mera tolleranza (aspetto cronologico). Mentre il primo profilo assume una portata decisiva, il secondo e il terzo hanno una rilevanza piuttosto rafforzativa o di supporto (ad colorandam). Sicché, per un verso, non si può negare a priori la qualificazione di una relazione di fatto con la cosa come mera tolleranza in ragione dell'inesistenza di rapporti di amicizia, buon vicinato o familiarità. Per altro verso, non si può escludere che, a fronte di un'attività realizzata sul bene in modo duraturo, la relazione con la res non sia comunque qualificabile come situazione possessoria, ma sia piuttosto imputabile agli atti di mera tolleranza, ove i termini della manifestazione di tale disponibilità si traducano in contegni trascurabili: perché sono privi di una radicale portata espansiva e onnicomprensiva in ordine alla possibile destinazione del bene, perché hanno una coloritura del tutto marginale, che non consente alla cosa di manifestare appieno la sua potenzialità funzionale, perché concernono solo una porzione delimitata della cosa, perché coesistono con il possesso esercitato dal dominus, perché si giustificano solo alla stregua del temporaneo non uso della cosa da parte del possessore, perché importano il difetto di un interesse ad opporsi allo specifico uso attuato dall'agente. Anche il criterio cronologico ha una portata relativa, non solo perché la natura sporadica degli atti non è in sé assolutamente incompatibile con l'integrazione di una situazione di possesso, ma anche perché l'esercizio di un'attività di lunga durata non è detto che travalichi dai confini degli atti di mera tolleranza. Sotto il primo angolo visuale, si nota che la sporadicità dell'esercizio dell'uso relativo non denota che questo si verifichi per mera tolleranza, allorquando sia accertato che, con specifico riguardo alle servitù di passaggio, il transito corrisponde ad un interesse che non richiede una frequente utilizzazione (Cass. civ., sez. II, 25 marzo 1997, n. 2598; Cass. civ., sez. II, 21 ottobre 1991, n. 11118; Cass. civ., sez. II, 14 maggio 1990, n. 4117). Sotto il secondo angolo, si rileva che il profilo temporale assume diverse conformazioni alla stregua del tipo di rapporto che si instaura tra il possessore e il soggetto che realizza gli atti in contestazione: di amicizia o di buon vicinato, da un lato, di parentela o di società, dall'altro. Infatti, con riferimento all'elemento cronologico, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che, per stabilire se un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l'altrui tolleranza e sia quindi inidonea all'acquisto del possesso, la lunga durata dell'attività medesima può integrare un elemento presuntivo nel senso dell'esclusione della tolleranza qualora non si tratti di rapporti di parentela, ma di rapporti di mera amicizia o buon vicinato, giacché nei secondi, di per sé labili e mutevoli, è più difficile, a differenza dei primi, il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo (Cass. civ., sez. II, 29 maggio 2015, n. 11277; Cass. civ., sez. II, 20 febbraio 2008, n. 4327). Ed invero, l'uso prolungato nel tempo di un bene non è normalmente compatibile con la mera tolleranza, essendo quest'ultima configurabile, di regola, nei casi di transitorietà ed occasionalità (Cass. civ., sez. II, 11 febbraio 2009, n. 3404). Nondimeno, la circostanza che l'attività svolta sul bene abbia avuto durata non transitoria e sia stata di non modesta entità, cui normalmente può attribuirsi il valore di elemento presuntivo per escludere che vi sia stata tolleranza, è destinata a perdere tale efficacia nel caso in cui i rapporti tra le parti siano caratterizzati da vincoli particolari, quali quelli di parentela o di società, in forza di un apprezzamento di fatto demandato al giudice di merito (Cass. civ., sez. II, 27 aprile 2006, n. 9661; Cass. civ., sez. II, 3 febbraio 1998, n. 1042). L'elemento psicologico, riferito al possessore e all'agente che realizza gli atti, può costituire una chiave meramente complementare o suppletiva di lettura delle fattispecie dubbie. Così la circostanza che la disponibilità del bene sia imputabile ad un atto di permissio del dominus, espressa o tacita, consistente in un atto unilaterale, ossia alla sua concessione o compiacenza o condiscendenza transeunte, nota all'agente, cui segua l'esercizio della relazione di fatto con la cosa nella consapevolezza di una sempre immanente e consentita (recte legittima) sopravvenuta prohibitio, esclude che si tratti di situazione annoverabile nel possesso (Cass. civ., sez. II, 21 ottobre 1991, n. 11118; Cass. civ., sez. II, 5 ottobre 1985, n. 4820). Si noti, però, che all'atteggiamento psicologico del possessore che consente l'attività altrui deve accompagnarsi un corrispondente contegno soggettivo di colui che esercita l'attività, il quale, da un lato, deve essere consapevole delle ragioni per le quali è stata resa possibile la sua relazione con il bene e, dall'altro, deve porre in essere tale attività pur essendo a conoscenza della sua precarietà, ossia deve essere pronto all'immediato abbandono della cosa non appena il titolare del diritto o il possessore ne faccia richiesta. Pertanto, gli atti di tolleranza, che non possono servire di fondamento all'acquisto del possesso, sono quelli che, implicando, di regola, un elemento di transitorietà e saltuarietà (elemento cronologico), comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull'esercizio del diritto da parte dell'effettivo titolare o possessore (elemento quali-quantitativo) e soprattutto traggono normalmente la loro origine da rapporti di amicizia o familiarità o da rapporti di buon vicinato sanzionati dalla consuetudine (elemento relazionale), i quali, mentre a priori ingenerano e giustificano la permissio (elemento soggettivo), conducono, per converso, ad escludere nella valutazione a posteriori la presenza di una pretesa possessoria sottostante al godimento derivatone (Cass. civ., sez. II, 8 giugno 2007, n. 13443). Ne consegue che non è configurabile un atteggiamento di tolleranza del proprietario, che - come tale - esclude una situazione possessoria a favore del terzo, allorché l'uso del bene da parte di quest'ultimo sia prolungato nel tempo o, avvenendo contro la volontà del proprietario, non possa fondarsi sull'altrui compiacenza (Cass. civ., sez. II, 24 novembre 2003, n. 17876). Chiaramente la mera conoscenza dell'altrui potere di fatto sulla cosa non implica tolleranza del suo esercizio, la quale è caratterizzata dalla condiscendenza del dominus derivante da rapporti di buon vicinato, di parentela, di amicizia, di cortesia o di opportunità, manifestata al destinatario, in modo che quest'ultimo ne abbia consapevolezza, e nell'usufruire del bene abbia sempre presente l'eventualità e la legittimità del sopravveniente divieto (Cass. civ., sez. II, 1 dicembre 1997, n. 12133).
Analisi casistica
In applicazione di tali principi, la giurisprudenza ha affermato che non è configurabile quale possesso ad usucapionem il comportamento consistente nell'uso di una striscia di terreno ricoperta di ghiaia come parcheggio e spazio di manovra, non essendo detta condotta di per sé espressione di un'attività materiale incompatibile con l'altrui diritto di proprietà e non avendo la relativa esteriorizzazione la valenza inequivoca di una signoria di fatto sul bene, in quanto la copertura dell'area con ghiaia non integra un'opera permanente di trasformazione, idonea a precludere la potestà dominicale del proprietario, mentre l'utilizzo a scopo di parcheggio può risultare transitoriamente consentito per mera tolleranza (Cass. civ., sez. II, 8 maggio 2013, n. 10894). In relazione al medesimo uso, e segnatamente alla prolungata utilizzazione, quale parcheggio, di un'area di proprietà condominiale, per mera tolleranza dei titolari della stessa, un altro arresto giurisprudenziale ha escluso la configurabilità di una situazione possessoria in capo al terzo, pur essendosi la condotta tollerante prolungata nel tempo, allorché l'atteggiamento del proprietario trovi giustificazione nella mancanza di un interesse ad opporsi al suddetto specifico uso (Cass. civ., sez. II, 11 febbraio 1998, n. 1384). Allo stesso modo, in tema di espropriazione per pubblica utilità, la permanenza nel godimento del fondo del proprietario o di altri soggetti che vantino diritti di natura reale o personale sul fondo stesso, dopo l'adozione e l'esecuzione del provvedimento di occupazione d'urgenza, deve ascriversi a mera tolleranza della P.A., dovendosi presumere, sulla base del verbale di consistenza e di immissione in possesso, salva prova contraria, che il beneficiario del provvedimento di occupazione si sia effettivamente impossessato dell'immobile e che il proprietario e gli eventuali altri aventi diritto al godimento del fondo siano consapevoli dell'avvenuto loro spossessamento (Cass. civ., sez. I, 9 ottobre 2012, n. 17192). Al contrario, la disponibilità del bene che sia stata esplicitata con la costruzione e il godimento di un'opera che insista in modo stabile sul suolo, senza alcuna opposizione da parte del proprietario, configura una condotta incompatibile con l'imputazione alla mera tolleranza (Cass. civ., sez. II, 25 febbraio 1986, n. 1185). Al contempo, deve escludersi la ricorrenza di un atto di tolleranza allorquando l'esercizio di un determinato potere di fatto sulla cosa altrui sia il frutto di un accordo che ne precisi modalità, condizioni e contenuto, ponendo fine ad un contrasto tra le parti (Cass. civ., sez. II, 19 aprile 1994, n. 3712). Così, se l'affaccio da una veduta su fondo altrui è disciplinato, anche nella durata, dalle parti, titolari dei rispettivi beni, non è configurabile né la tolleranza prevista dall'art. 1144 c.c., che prescinde da qualsiasi accordo, né un potere di fatto, corrispondente ad un diritto reale su bene altrui, perché non vi è contrasto con il titolare di esso. Pertanto, ai fini dell'usucapione di tale diritto, da un lato, è irrilevante il lungo tempo dell'esercizio della facoltà concessa; dall'altro, è necessario che l'interversio possessionis, successiva alla prevista cessazione della facoltà, sia idonea a manifestare l'animus possidendi (Cass. civ., sez. II, 27 febbraio 1998, n. 2167). Ad ogni modo, gli atti di tolleranza, ai sensi dell'art. 1144 c.c., rilevano solo come ragione ostativa dell'acquisto del possesso, ma non incidono su di un possesso già costituito (Cass. civ., sez. II, 29 novembre 2002, n. 16956). Pertanto, il possesso già esistente non cessa per effetto della mancata reazione, per mere ragioni di tolleranza, ad una condotta lesiva. Così il possesso nell'esercizio del passaggio sul fondo altrui non viene meno per il fatto ed a partire dal momento in cui il proprietario di detto fondo abbia installato un cancello per impedirne l'accesso, ove tale cancello, in relazione alle modalità ed ai tempi della sua chiusura, non abbia in concreto impedito il protrarsi di detto passaggio (Cass. civ., sez. II, 20 luglio 1991, n. 8119). Onere della prova
La distribuzione dell'onere probatorio circa l'integrazione di meri atti di tolleranza muta plasticamente in ragione della natura dell'azione esercitata. Così, in tema di acquisto del diritto reale per usucapione, rientra nei normali poteri di valutazione probatoria del giudice la qualificazione degli atti che vengono invocati come esercizio di fatto del diritto, quali atti di mera tolleranza, in considerazione della strutturale saltuarietà degli stessi, senza che la controparte sia gravata dell'onere di provare tale specifica inidoneità ad integrare il possesso ad usucapionem, mentre nelle azioni esclusivamente possessorie la natura giuridica dell'esercizio degli atti di tolleranza deve essere eccepita e provata dalla parte che la deduce (Cass. civ., sez. II, 1 agosto 2008, n. 21016). Nelle azioni giudiziali per le quali il possesso costituisce un fatto costitutivo della pretesa esercitata, la verifica della sua sussistenza spetta al giudice, il quale, constatando la presenza di meri atti di tolleranza e non di possesso, potrà rilevarne la relativa natura per negare la fondatezza del diritto rivendicato. Peraltro, ove si tratti dell'esercizio dell'azione di accertamento del diritto reale in virtù di un acquisto a titolo originario per usucapione, la riconducibilità della relazione con la cosa a meri atti di tolleranza, nonostante tali atti si siano prolungati costantemente nel tempo, implica che il giudice possa superare la presunzione di ascrizione al possesso delle attività che non siano meramente saltuarie od occasionali, bensì stabili. Viceversa, qualora il possesso sia un presupposto dell'azione esercitata, come accade per le azioni possessorie, basterà che il ricorrente dimostri la relazione pregressa con la cosa, allegando l'esistenza di una situazione possessoria, mentre spetterà al resistente fornire la prova del fatto impeditivo, rappresentato dalla riconduzione della relazione con il bene ad un atto di mera tolleranza. Sicché colui che assume di essere stato spogliato del possesso di una servitù di passaggio non è tenuto a dare la prova dell'inesistenza della tolleranza, trattandosi di fatto impeditivo che deve provare l'altra parte (Cass. civ., sez. II, 19 settembre 2014, n. 19830). Infatti, in base al principio fissato dall'art. 2697 c.c., una volta dimostrata la sussistenza del possesso, spetta a coloro che contestano il fatto del possesso l'onere di provare che esso derivi da atti di tolleranza, i quali hanno fondamento nello spirito di condiscendenza, nei rapporti di amicizia o di buon vicinato ed implicano una previsione di saltuarietà e di transitorietà (Cass. civ., sez. II, 23 luglio 2009, n. 17339; Cass. civ., sez. II, 29 gennaio 2001, n. 1240). Anche in presenza di un esercizio sistematico e reiterato di un potere di fatto sulla cosa, spetta a chi lo abbia subito l'onere di dimostrare che lo stesso è stato dovuto a mera tolleranza (Cass. civ., sez. II, 11 febbraio 2009, n. 3404).
In conclusione
La contemplazione di una norma del codice civile, specificamente dedicata agli atti di tolleranza, si giustifica alla stregua dell'esigenza di meglio delimitare il concetto di possesso rilevante, come definito dall'art. 1140 c.c. Precisamente, il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale è escluso qualora l'integrazione di tale attività sia ascrivibile ad un contegno di mera tolleranza del titolare del diritto ovvero del possessore. In altri termini, la mera relazione con la cosa non è significativa in sé e a priori della ricorrenza del possesso, ma deve essere qualificata sia sul piano oggettivo che psicologico. In specie, il possesso non è integrato qualora la relazione con la cosa si inquadri nell'alveo dei meri atti di tolleranza. Tali atti sono oggettivamente identificabili nelle condotte che importino un godimento del tutto modesto o trascurabile del bene e che abbiano un'intensità minima, a fronte delle fisiologiche potenzialità di sfruttamento della cosa. Ulteriori elementi valgono ad identificare gli atti di tolleranza in una dimensione rafforzativa: per un verso, la relazione instaurata tra colui che ha il contatto con il bene e il titolare del diritto o il possessore, annoverabile alla familiarità, amicizia, buon vicinato, cortesia e opportunità; per altro verso, la natura saltuaria, transitoria od occasionale delle condotte ricollegabili alla tolleranza. Ma tali riferimenti rafforzativi non sono decisivi per il riconoscimento degli atti di tolleranza. Al contempo, gioca un ruolo complementare la disamina dell'atteggiamento psicologico. In base alla sua connotazione, sarà escluso il possesso qualora il contatto con la cosa sia giustificato da un atto di condiscendenza del titolare del diritto o possessore, cui corrisponda il contegno del tollerato, il quale, nella consapevolezza di tale permissio, sia pronto a restituire il bene non appena il titolare o possessore lo richieda. Annoverata la relazione con la cosa in termini di mera tolleranza, ne consegue, sul piano degli effetti giuridici, che colui che esercita tale relazione non può essere qualificato come possessore, sicché non può rivendicare le tutele che la legge riconosce al possesso: non può fondare su tale situazione alcun acquisto del diritto per usucapione; non può chiedere la reintegra ove sia privato della cosa. Galgano, Diritto civile e commerciale, Padova, 1990, I, 410; Gandolfi, Nota in materia di inidoneità degli atti di tolleranza ai fini dell'acquisto del possesso, in Giur. It., 2005, 8-9; Musio, Il principio di tolleranza nel diritto civile, in Contratto e Impr., 2017, 2, 403; Parente, Atto tollerato e fatto impeditivo del possesso, in Giur. It., 2002, 3; Patti, Tolleranza (atti di), in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 702. |