Il sottile discrimen tra innovazioni e mutamenti delle destinazioni d'uso dei beni condominiali

Cesare Trapuzzano
18 Settembre 2017

La novella di cui alla l. 11 dicembre 2012, n. 220, che ha introdotto gli artt. 1117-ter e 1117-quater c.c., ha previsto un'apposita disciplina per l'attuazione delle modifiche delle destinazioni d'uso e per la tutela di dette destinazioni. Pertanto, l'assetto innovato della materia esige una netta distinzione dalle innovazioni, atteso il regime specificamente delineato dal legislatore con riferimento alle maggioranze prescritte, agli oneri di convocazione, ai requisiti della deliberazione e ai limiti dei mutamenti delle destinazioni d'uso. Tale quadro normativo è del tutto autonomo da quello previsto per l'esecuzione delle innovazioni, sicché si impone una definizione a sé stante e un'analisi separata delle due ipotesi.
Il quadro normativo

L'art. 1117-ter, come introdotto, con decorrenza dal 18 giugno 2013, dall'art. 2 della l. 11 dicembre 2012, n. 220, rubricato «Modificazioni delle destinazioni d'uso», dispone che: «Per soddisfare esigenze di interesse condominiale, l'assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio, può modificare la destinazione d'uso delle parti comuni. La convocazione dell'assemblea deve essere affissa per non meno di trenta giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati e deve effettuarsi mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici, in modo da pervenire almeno venti giorni prima della data di convocazione. La convocazione dell'assemblea, a pena di nullità, deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso. Sono vietate le modificazioni delle destinazioni d'uso che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico».

All'esito della novella, il legislatore non solo ha previsto per la modifica della destinazione d'uso delle parti comuni una maggioranza pari ai 4/5 dei partecipanti, che rappresentino anche i 4/5 del valore dell'edificio (una sorta di maggioranza rafforzata), ma ha altresì previsto una procedura rafforzata per la convocazione dell'assemblea per la relativa informativa. Infatti, a differenza delle convocazioni assembleari ordinarie, che richiedono 5 giorni di preavviso, nel caso in cui nell'ordine del giorno sia inserito come argomento quello relativo alla modifica delle parti comuni, detto preavviso dovrà essere pari a non meno di 20 giorni prima della data fissata per l'adunanza assembleare. Particolari prescrizioni sono state contemplate anche con riferimento al quomodo della convocazione, oltre che al quando. Al riguardo, l'avviso di convocazione deve essere affisso per non meno di trenta giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati e deve effettuarsi mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici. Ne consegue, con estrema evidenza, che il legislatore, pur riconoscendo la possibilità di modificare la destinazione delle parti comuni, abbia voluto ancorare detto mutamento, tanto al rispetto di requisiti procedurali specifici, quanto all'osservanza di quorum deliberativi assai qualificati. In ogni caso, è escluso che si possa procedere alla modifica della destinazione d'uso qualora la modifica possa pregiudicare la stabilità o la sicurezza del fabbricato o, ancora, alternarne il decoro architettonico (come era stato già argomentato dalla giurisprudenza di legittimità e di merito anteriori alla riforma).

Le maggioranze prescritte per i mutamenti delle destinazioni d'uso

L'art. 1117-ter c.c. prevede una corposa maggioranza, pari ai quattro quinti dei condomini ed ai quattro quinti del valore dell'edificio, affinché sia consentito all'assemblea di modificare la destinazione delle parti comuni, e richiama gli stessi limiti impeditivi già generalmente operanti per le innovazioni (il pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza), seppur non quello dell'inservibilità all'uso o al godimento del singolo condomino. La necessità di un così elevato quorum deliberativo (sia con riguardo all'elemento personale che all'elemento reale) per la validità delle delibere che stabiliscano modificazioni delle destinazioni d'uso, con la conseguente prescrizione di una maggioranza ben più qualificata di quella stabilita dall'art. 1120, primo comma, c.c., per un verso, impedisce che, attraverso il metodo collegiale, siano menomati i diritti dei singoli partecipanti sulle parti comuni, ma, per altro verso, finisce per erodere, rispetto al passato, i poteri dell'assemblea. Il concetto di innovazione, autorizzata nel rispetto dei criteri dettati dall'art. 1120 c.c., è stato tradizionalmente distinto da quello di mera modificazione, proprio perché la prima è costituita da opere di trasformazione in grado di incidere sull'essenza della cosa comune, alterandone l'originaria funzione e destinazione, mentre la seconda rimane contenuta nell'ambito delle facoltà del condomino in ordine alla migliore, più comoda e razionale, utilizzazione della cosa, regolata dall'art. 1102 c.c.

Dunque, tra le innovazioni che la maggioranza indicata nel quinto comma dell'art. 1136 c.c. poteva lecitamente autorizzare prima della riforma era incluso, sotto il profilo oggettivo, anche ogni opus novum in grado di incidere sulle finalità di utilizzazione delle cose comuni. Per l'effetto, la novità, insita nel concetto di innovazione, ben poteva radicarsi proprio nella destinazione funzionale delle cose, degli impianti e dei servizi comuni, la cui trasformazione avrebbe potuto avverarsi indipendentemente dall'esecuzione di nuove opere materiali.

All'esito dell'entrata in vigore della l. n. 220/2012, invece, è necessario distinguere tra innovazioni e modificazioni delle destinazioni d'uso. Infatti, la deliberazione assembleare che, pur sempre per soddisfare esigenze di interesse condominiale, autorizzi il mutamento della destinazione d'uso di beni comuni, rimane vincolata dal più severo art. 1117-ter c.c. Comunque anche l'art. 1117-ter ricade nell'ambito della complessiva disciplina delle attività di trasformazione delle parti condominiali, così essendo accomunato all'art. 1120 c.c. Pertanto, entrambe queste norme si stagliano in termini di eterogeneità rispetto alle mere modificazioni delle cose comuni regolate dall'art. 1102 c.c., assumendo solo in esse rilevanza l'interesse collettivo di una maggioranza qualificata dei partecipanti, espresso da una deliberazione dell'assemblea, elemento del tutto sconosciuto nell'art. 1102 c.c., il quale è ispirato dal solo interesse del singolo.

Gli oneri della convocazione e della deliberazione

L'art. 1117-ter c.c. contempla altresì gravosi oneri di pubblicità, comunicazione e contenuto dell'avviso di convocazione, nonché della stessa deliberazione, concernenti le assemblee che intendano modificare la destinazione d'uso di parti comuni. Sono così imposti obblighi di forma e modalità di notifica per l'invito a partecipare, come obblighi di informazione sullo specifico argomento posto all'ordine del giorno, in modo da consentire a ciascun condomino di comprendere esattamente il tenore e l'importanza dell'assemblea, nonché obblighi di analiticità del deliberato, dovendo esso consacrare l'effettuazione degli adempimenti preliminari. La convocazione che non indichi le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso è sanzionata con la nullità, ovvero come violazione non soltanto di una regola di collaborazione attinente alla formazione del procedimento collegiale, quanto come trasgressione di un criterio di attribuzione che sfugge anche alla decadenza dell'impugnazione ex art. 1137, comma 2, c.c.

È questa l'unica ipotesi di nullità testuale prevista nell'intera novella, in forza della quale il condomino, anche se regolarmente convocato, può impugnare senza limiti di tempo la delibera che autorizzi la nuova destinazione d'uso. Ciò crea una breccia nella coerenza del sistema tracciato da Cass. civ., sez. un., 7 marzo 2005, n. 4806, che aveva escluso che i vizi di convocazione implicassero la radicale nullità della delibera, principio peraltro confermato nel rimodellato art. 66, comma 3, disp. att. c.c. Per converso, la disciplina relativa alla procedura rafforzata di convocazione delle adunanze assembleari, aventi ad oggetto puntuali mutamenti delle destinazioni d'uso delle cose comuni, delinea come vizio irrimediabile un'omissione formale, attinente pur sempre al procedimento di convocazione o di formazione dell'assemblea. La convocazione deve pervenire ai condomini almeno 20 giorni prima della data fissata per l'assemblea. Sotto il profilo del quomodo, l'avviso deve essere affisso per non meno di trenta giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati, ai fini di rendere conoscibile l'oggetto particolarmente gravoso della seduta assembleare, e inoltre deve essere inviato mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici, come la pec. Inoltre, la relativa deliberazione deve contenere la dichiarazione espressa dell'effettuazione degli adempimenti strumentali in ordine alle modalità della convocazione.

I limiti ai mutamenti

In virtù dell'art. 1117-ter c.c., il mero mutamento di destinazione d'uso non si mostra più idoneo ad integrare innovazione, ma costituisce viceversa oggetto di apposita regolamentazione. In aggiunta, il mutamento di destinazione d'uso, a differenza dell'innovazione, incontra il limite del possibile pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato e dell'alterazione del decoro architettonico, ma non quello dell'inservibilità del bene comune, per effetto della variazione, per uno o più condomini. Ciò non significa che l'assemblea possa incidere negativamente sui diritti dei condomini, precludendo il godimento del bene comune, considerato peraltro che l'art. 1120 costituisce espressione del più generale principio espresso dall'art. 1102. Piuttosto, la sola destinazione d'uso, che può anche prescindere dal compimento di opere materiali, è idonea ad incidere sull'utilità soggettiva di un condomino interessato alla conservazione dello stato attuale, non essendo tuttavia suscettibile di pregiudicare l'oggettivo godimento del bene comune, se non accompagnata da un'alterazione sostanziale.

Di conseguenza, se il singolo condomino non può opporsi ad un mutamento di destinazione e ad un diverso utilizzo del bene adottato nell'interesse del condominio con la maggioranza richiesta, è tuttavia legittimato ad impugnare una delibera che non muti solamente la destinazione del bene, ma ne alteri la consistenza, in maniera tale da precludergli o limitargli in maniera sensibile l'utilizzo. Così come per le innovazioni, anche per le modificazioni delle destinazioni d'uso rimane imprescindibile il principio secondo cui è vietato ogni intervento che determini una limitazione dell'uso e del godimento che gli altri condomini hanno diritto di esercitare sul bene comune, con conseguente nullità della relativa delibera (Cass. civ., sez. II, 27 maggio 2016, n. 11034).

Distinzione tra le varie fattispecie concrete

Le modificazioni del bene comune si identificano negli interventi diretti a trasformarlo fino a consentirne un uso del tutto estraneo rispetto alla sua originaria destinazione oggettiva e funzionale, restando fermo, ad ogni modo, il divieto di destinazioni d'uso che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterino il decoro architettonico, ma non quelle che rendano la cosa inservibile all'uso o al godimento (soggettivo) anche di un solo condomino. Per contro, l'art. 1120, comma 1, c.c., anche nella nuova formulazione, regola le innovazioni delle cose comuni, purché dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle stesse. Per dette innovazioni è richiesta una maggioranza speciale: quella degli intervenuti in assemblea, che rappresenti almeno i due terzi dei millesimi. Sicché la distinzione tra le due fattispecie può essere fondata sull'intensità dell'intervento innovativo, ossia modificativo della consistenza o della funzione, che può essere significativo o piuttosto semplice.

Pertanto, ricadono nelle modificazioni delle destinazioni d'uso del bene comune le modificazioni rilevanti, notevoli, considerevoli, ossia gli interventi di un certo spessore (aspetto quantitativo) – come, ad esempio, l'installazione di un campo da tennis o da calcetto o addirittura di una piscina su un'area comune o la trasformazione di un giardino in un'area di parcheggio –, che non rientrano in quegli altri usi cui oggettivamente il bene avrebbe potuto essere, per sua natura, potenzialmente destinato (aspetto funzionale). Siffatti mutamenti della destinazione d'uso, pur non incidendo sulla struttura, ossia sulla morfologia del bene, sono idonei a mutarne l'utilizzazione oggettiva (ma non ad impedirla ai singoli condomini) o il godimento soggettivo. Sicché le modificazioni delle destinazioni d'uso postulano, per un verso, la natura sostanziale dell'intervento da realizzare e, per altro verso, un cambiamento radicale dell'originario scopo, attuale o potenziale, cui il bene era o avrebbe potuto essere asservito, uno stravolgimento definitivo della sua identità funzionale, pur senza cambiarne la sostanza attraverso interventi edilizi di alterazione dell'identità morfologica. Un'area comune, invece, può essere destinata a parcheggio, a giardino, a parco giochi, realizzando il cambiamento del suo uso una semplice innovazione, appunto perché l'uso in concreto fissato si iscrive tra quelli potenziali cui il bene avrebbe potuto essere destinato. La linea di discrimine tra modificazioni delle destinazioni d'uso e innovazioni deve essere, quindi, rintracciata, non già sul piano strutturale attinente alla tipologia degli interventi realizzati, bensì sul piano funzionale degli scopi che vengano perseguiti attraverso l'esecuzione di tali interventi: lo scopo trasformativo della destinazione connota i mutamenti; lo scopo migliorativo, a fronte di una destinazione consolidata o, comunque, potenzialmente insita nella natura della cosa, caratterizza le innovazioni.

In ogni caso, non tutte le parti comuni potranno costituire oggetto della modificazione della destinazione d'uso: si dovranno escludere quelle la cui ontologica sussistenza è indefettibile per la conformazione stessa del condominio. Così non potrà essere mutata la destinazione dei beni necessariamente condominiali di cui al n. 1) dell'art. 1117 c.c., che siano intrinsecamente e strutturalmente funzionali all'esistenza stessa dell'edificio condominiale, come il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri, le travi portanti e le scale, ecc. È altresì indispensabile che i mutamenti delle destinazioni d'uso siano connotati dal soddisfacimento di esigenze di interesse condominiale, dovendo essi sempre essere orientati in senso collettivistico, in modo da non distrarre le cose comuni dal loro vincolo strutturale e teleologico. Ne discende che le modificazioni delle destinazioni d'uso non possono determinare l'attribuzione dell'uso appannaggio delle porzioni di proprietà esclusiva dei singoli condomini. In ultimo, non ricade nella modificazione della destinazione d'uso la cessione delle parti comuni ad un condomino o anche a un terzo estraneo al condominio, con destinazione del bene a scopi privati.

La tutela della destinazione d'uso

A norma dell'art. 1117-quater c.c., ove la destinazione d'uso delle parti comuni sia negativamente incisa dall'attività di alcuno dei partecipanti o di terzi, l'amministratore, come anche il singolo condomino, possono diffidare l'esecutore di tali attività pregiudizievoli o anche chiedere la convocazione dell'assemblea per far cessare, semmai in via giudiziaria, le turbative. In realtà, già in base al previgente art. 1130, n. 4), c.c., l'amministratore del condominio, pur indipendentemente dal conferimento di uno specifico incarico dell'assemblea e dalle eventuali autonome iniziative dei singoli condomini, aveva il potere, e, quindi, la relativa legittimazione processuale, di reprimere ogni situazione o comportamento che generasse un uso abnorme delle cose condominali, ponendo in essere gli atti conservativi necessari. Del pari, l'esistenza dell'organo rappresentativo unitario non ha mai fatto dubitare della facoltà dei singoli condomini di agire in giudizio per conservare l'uso di un bene comune in maniera conforme alla sua funzione ed originaria destinazione. Le stesse azioni possono essere deliberate a maggioranza dall'assemblea dei condomini, la quale può conferire all'amministratore o ad altri il potere di procedere nel comune interesse per la salvaguardia delle parti comuni.

In conclusione

Il legislatore della novella, attraverso la specifica regolamentazione dell'istituto delle modificazioni delle destinazioni d'uso, ha inteso affrancare dall'ambito delle innovazioni quei particolari interventi afferenti alle cose comuni che, pur essendo avvinti dal perseguimento dell'interesse condominiale e pur lasciandone inalterata la struttura morfologica, siano volti a cambiarne radicalmente, pur senza pregiudicarne il godimento in favore di ciascun condomino, per effetto di trasformazioni di una certa portata, la destinazione funzionale, diversamente dalle innovazioni, che mediante attività volte ad incidere sulla consistenza o sulla funzione del bene, siano mirate al miglioramento della condizione della cosa o all'uso più comodo o al maggior rendimento. Da tale discriminazione discende l'individuazione di un autonomo e separato regime normativo, sia con riferimento alle maggioranze prescritte, sia con riguardo agli oneri temporali e qualitativi di convocazione e di deliberazione, sia rispetto ai limiti prescritti. La protezione delle destinazioni d'uso è altresì regolata da una norma dedicata alle forme di tutela avverso attività che abbiano una potenzialità negativa e sostanziale sulla persistenza di tali destinazioni. In tal caso, la legittimazione spetta all'amministratore o al singolo condomino. La relativa tutela può attuarsi sia mediante atti di diffida indirizzati all'esecutore degli interventi lesivi sia mediante un potere di convocazione dell'assemblea per l'approvazione di interventi inibitori, non solo di matrice giudiziaria.

Guida all'approfondimento

Bottoni, Condominio e innovazioni - la limitazione all'uso dei beni comuni tra poteri assembleari e strumenti negoziali, in Giur. it., 2016, 12, 2584;

Celeste - Scarpa, Riforma del condominio, Milano, 2013, 28;

Corona, Profili della riforma delle norme sul condominio, in Giur. it., 2013, 7;

Monegat, Le parti comuni dopo la Riforma, in Immob. & proprietà, 2013, 92;

Rinaldi, L'istituto delle innovazioni nel nuovo condominio, in Immob. & proprietà, 2013, 5;

Vincenti, Le innovazioni, in Il nuovo condominio a cura di Triola, Torino, 2013, 270.

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