L'eccesso di potere nelle deliberazioni assembleari del condominio edilizio

21 Agosto 2017

Si esamina la particolare forma di invalidità della deliberazione assembleare condominiale, di creazione pretoria, costituita dall'eccesso di potere, cercandone di cogliere i relativi profili peculiarizzanti e di darne una relativa collocazione nell'ambito del sistematica delle patologie dell'atto negoziale gestorio del condominio edilizio per evidenziarne la relativa valenza propulsiva nell'ottica della affermazione di più ampi e differenti spazi e forme di tutela del singolo condomino a fronte di atti di gestione illegittimi.
Il quadro normativo

Prerogativa dell'organo assembleare dell'ente di gestione condominiale, alla stregua della pertinente disciplina di legge che si ricava dagli artt. 1135 e seguenti c.c., è il governo dei beni e servizi di appartenenza collettiva a mezzo di relativi deliberati, la cui legittima adozione impone, poi, all'amministratore, l'esecuzione di quanto in essi statuito.

Al singolo condomino che intenda contestare il relativo operato è consentita la giudiziale impugnativa degli atti con i quali tale funzione gestoria viene, in concreto, esercitata, deponendo in tal senso le previsioni degli artt. 1137 e 1133 c.c. quanto, rispettivamente, ai provvedimenti assunti dall'assemblea ovvero dall'amministratore.

L'intervento del giudice nell'attività di governo del condominio edilizio si caratterizza come eventuale e residuale, perché può esplicarsi solamente in situazioni patologiche, laddove, cioè, l'azione venga condotta in difformità dei pertinenti canoni legali e/o regolamentari di disciplina ovvero sia materialmente impossibilitata nella sua concreta esplicazione.

Nel primo caso il condomino dissenziente è legittimato all'impugnativa del deliberato assembleare ovvero del provvedimento dell'amministratore ritenuto illegittimo; nell'altro può essere sollecitato l'intervento giudiziale suppletivo che si attua con le misure di rimedio alla inazione degli apparati interni che trovano attuazione in sede di c.d. giurisdizione volontaria, quali la designazione giudiziale dell'amministratore ex art. 1129 c.c. ovvero quelle ex art. 1105, comma 4, c.c.

Il sindacato dell'autorità giudiziaria, per espresso dettato normativo, è in ogni caso limitato al riscontro della sola legittimità della decisione gestoria e con esclusione di apprezzamento alcuno del merito della scelta con essa patrocinata, ossia della sua opportunità, della sua convenienza, della sua effettiva rispondenza e idoneità a soddisfare le contingenti esigenze condominiali.

Depone in tal senso il chiaro dettato normativo, l'art. 1137, comma 2, c.c., che consente la giudiziale impugnativa delle sole delibere assembleari «contrarie alla legge o al regolamento di condominio», in tal modo escludendo il gravame per la denuncia, ed eventuale giudiziale repressione, di opzioni che chi impugna, di regola espressione della minoranza dissenziente, ritenga inopportune o non in linea con i bisogni attuali della compagine interna.

Tale sistema di disciplina interviene, così, a equilibrare potenzialmente contrapposte esigenze, quelle giustiziali individuali e le ulteriori rapportabili all'autonomia delle scelte di governo degli apparati gestori, evitando che l'intervento censoreo dell'organo giurisdizionale possa espandersi sino ad apprezzare l'adeguatezza ed appropriatezza dell'atto in relazione alle necessità della compagine, profilo, questo, che residua quale patrimonio esclusivo della maggioranza dei condomini.

Deve, quindi, in linea di principio, ritenersi non consentita, poiché non supportata da un conferente dato di legge, pronuncia del giudice che intervenga in modo determinante sull'attività gestionale del condominio, condizionandone nel merito le relative opzioni, e l'interesse che ciascun condomino possa nutrire in merito ad una amministrazione che sia corretta o ottimale o conforme alle proprie esigenze costituisce un c.d. interesse di mero fatto ovvero una aspettativa di fatto che non si presta ad una tutela giurisdizionale (v., tra le tante, Cass. civ., sez. II, 20 giugno 2012, n. 10199; Cass. civ., sez. II, 20 aprile 2001, n. 5889; Cass. civ., sez. II, 11 febbraio 1999, n. 1165).

Un sistema così strutturato potrebbe, però, consentire la perpetrazione di abusi da parte della maggioranza approvante in danno della compartecipazione proprietaria dissenziente.

Le decisioni assembleari sono assunte in forza di atti collegiali governati dalla regola maggioritaria che, quanto ai relativi quorum, costitutivi e/o decisionali, è oggetto di specifica disciplina normativa contenuta principalmente nell'art. 1136 c.c., cui si affiancano ulteriori previsioni speciali, quali, ad esempio, quella dell'art. 1117-ter c.c., per le decisioni aventi ad oggetto le modifiche delle destinazioni d'uso delle parti comuni.

E' evidente che laddove, per decretare la legalità della determinazione gestoria, si avesse riferimento al solo profilo formale della sua rispondenza alla pertinente previsione di legge o di regolamento ed alla sussistenza di relativa maggioranza approvativa, senza tenere in considerazione alcuna gli interessi comuni al cui concreto perseguimento l'azione di governo condominiale deve essere istituzionalmente diretta, si rischierebbe di avvallare azioni amministrative distorte e sostanzialmente espressive di abuso.

Da qui la possibilità, riconosciuta dalla prassi esegetica, di consentire, al condomino dissenziente, la giudiziale denuncia del vizio del deliberato assembleare dell'eccesso di potere.

L'eccesso di potere

Trattasi di ulteriore forma di manifestazione della patologia dell'atto negoziale privatistico che, sulla falsariga dell'omologo vizio del provvedimento amministrativo, è stata elaborata proprio per superare gli ordinari limiti di un controllo di mera legittimità sulle manifestazioni di volontà degli enti collettivi, a tutela di possibili prevaricazioni della maggioranza nei confronti del singolo.

Per quel che concerne le deliberazioni assembleari condominiali, la sua enucleazione è principalmente opera della giurisprudenza del giudice di legittimità che sin da risalenti propri pronunciamenti ne ha fatto espressa menzione, annoverandola tra i vizi di tali tipologie di atti (e, invero, già nella sentenza Cass. civ., sez. II, 27 dicembre 1963, n. 3226, era menzionato anche l'eccesso di potere tra le cause di invalidità).

Per esattamente individuarne natura, contenuto e limiti di operatività, opportuno ed utile è il riferimento a quei dicta che ne hanno enucleato la relativa definizione.

In particolare, è stato affermato che «la delibera di una assemblea, sia essa di soci, di condomini o di associati ... può essere annullata per abuso o eccesso di potere solo quando, anche se adottata nelle forme legali e con le maggioranze prescritte, risulti arbitraria e fraudolentemente preordinata al solo perseguimento, da parte della maggioranza, di interessi diversi da quelli della compagine associativa oppure volutamente lesivi degli interessi degli altri soci, e sia priva di una propria autonoma giustificazione causale sulla base dei legittimi interessi dei soci di maggioranza» (così Cass.civ., sez. II, 19 aprile 2003, n. 6361), e, nel solco di tale arresto interpretativo è stato, di recente, puntualizzato che «la figura dell'eccesso di potere nel diritto privato ha la funzione di superare i limiti di un controllo di mera legittimità sulle espressioni di volontà riferibili ad enti collettivi (società o condominii), che potrebbero lasciare prive di tutela situazioni di non consentito predominio della maggioranza nei confronti del singolo; essa presuppone, tuttavia, la sussistenza di un interesse dell'ente collettivo, che sarebbe leso insieme all'interesse del singolo» (così Cass.civ., sez. II, 21 febbraio 2014, n. 4216).

In altre pronunce si è ritenuto viziato da eccesso di potere il deliberato assembleare divergente dalla propria causa tipica ovvero falsamente deviante dal suo modo di essere (in tal senso, v. Cass.civ., sez. II, 26 aprile 1994, n. 3938) e, inoltre, facendo leva sulla previsione dell'art. 1109, comma 1, n. 1), c.c., che consente l'impugnativa delle delibere della comunione che siano gravemente pregiudizievoli alla cosa comune, è stato evidenziato che «il potere d'impugnazione delle delibere condominiali, per effetto del rinvio ex art. 1139 c.c. alle norme sulla comunione ed in particolare all'art. 1109 c.c., si estende anche alla decisione approvata dalla maggioranza che rechi grave pregiudizio alla cosa comune ed ai servizi che ne costituiscono parte integrante, potendo solo entro questo limite essere valutato il merito, sotto il profilo dell'eccesso di potere, della decisione dell'assemblea condominiale» (così Cass.civ., sez. II, 14 ottobre 2008 n. 25128).

Volendo, pertanto, trarne una prima definizione, può ritenersi che l'eccesso di potere ricorra qualora il deliberato assembleare, sebbene formalmente rispondente e riconducibile al pertinente paradigma normativo e regolamentare di disciplina, persegua obiettivi oggettivamente non riconducibili al governo delle parti e dei servizi comuni, alla conservazione e salvaguardia delle prime e alla prestazione e fruizione dei secondi, determinando nocumento agli interessi sia collettivi che individuali del singolo condomino che esprima la propria doglianza.

Sotto alternativo e differente inquadramento dogmatico, proprio della materia negoziale privatistica, la delibera affetta da eccesso di potere può ritenersi carente di propria causa in senso concreto, perché diretta al conseguimento di risultati divergenti da quelli ad essa propri e ciò, pertanto, ne esclude la possibilità di tutela giuridica, ai sensi dell'art. 1322, comma 2, c.c.

Il riferimento alla causa concreta quale momento individuante l'eccesso di potere può essere, poi, utile per evitare che il relativo sindacato giudiziale possa interferire e interessare il merito della scelta assunta con il deliberato.

Eccesso di potere e discrezionalità nella gestione del condominio

Poiché tale vizio può ricontrarsi solamente qualora la decisione assembleare, nel concreto, determini esclusivamente nocumento per gli interessi collettivi e, di converso, anche per il singolo partecipe che ne lamenti la sussistenza, è evidente che oggetto di censura non potrà essere né l'an, né il quomodo della decisione ma soltanto se essa sia o meno riconducibile agli scopi gestionali.

Trattasi, pertanto, di riscontro e verifica estrinseca che, poiché diretta soltanto ad accertare se gli effetti ed i risultati causalmente riferibili al deliberato possano, nel concreto, annoverarsi tra le finalità gestorie condominiali e senza apprezzamento alcuno dei suoi ulteriori concorrenti profili intrinseci, non ha inerenza alcuna al merito della decisione.

Differente dall'eccesso di potere, come evidenziato da attenta dottrina, deve ritenersi invece l'ipotesi dello «straripamento di potere», riscontrabile nel caso di delibere il cui oggetto decisionale non rientra tra le competenze assembleari, può pensarsi al caso del deliberato che interessi porzioni immobiliari in proprietà esclusiva non aventi rilevanza condominiale alcuna- e che determina la nullità della decisione assunta.

In ogni caso, sebbene inerente ad un elemento essenziale dell'atto negoziale deliberativo (arg. ex art. 1325 c.c.) la carenza di causa concreta che determina l'eccesso di potere non può comportare la nullità ma la mera annullabilità del deliberato assembleare che ne sia affetto.

Trattasi, infatti, forma distorta di esercizio di una funzione deliberante comunque pur sempre spettante all'assemblea dei condomini e che emerge solamente all'esito del riscontro della effettiva preordinazione dell'atto a risultati divergenti da quelli propri istituzionali.

Tale soluzione interpretativa si pone in piena coerenza e sintonia con il catalogo delle invalidità delle delibere del condominio edilizio, come delineato dalla medesima corte di legittimità nella sentenza a Sezioni Unite del 7 marzo 2005, n. 4806.

In applicazione di tali canoni esegetici può ritenersi affetta da eccesso di potere la deliberazione assembleare con cui vengano attribuiti, a singoli condomini, emolumenti monetari di natura e contenuto risarcitorio con riferimento a danni la cui esistenza ed entità, oltre che eziologica attribuzione a responsabilità dell'amministrazione condominiale, non ha avuto relativo corroboro dimostrativo, poiché trattasi di decisione indebitamente rivolta ad avvantaggiare singoli condomini senza che eventuali concorrenti finalità di interesse collettivo siano, nel contempo, utilmente perseguite.

Va, invece, esclusa la ricorrenza di detto vizio per il deliberato con cui l'assemblea, con il supporto del prescritto avvallo maggioritario, nel decidere interventi conservativi interessanti parti comuni, ne abbia appaltato l'esecuzione ad impresa che, nel ventaglio di quelle previamente interpellante, non abbia formulato l'offerta economicamente più vantaggiosa ma, in ragione anche di pregressa esperienza specifica, abbia indotto maggiore affidabilità oltre che specifiche garanzie circa il perfetto adempimento: in tal caso, sarebbero state oggetto di scrutinio valutativo le modalità di esercizio della discrezionalità dell'assemblea quanto alle più proficue forme di perseguimento dell'interesse comune.

Eccesso di potere e abuso del diritto

La tematica dell'eccesso di potere delle deliberazioni assembleari condominiali può, pertanto, inquadrarsi a pieno titolo nella più ampia categoria giuridica dell'abuso del diritto poiché ricorre laddove l'assemblea abbia fatto uso distorto dei propri poteri e delle proprie funzioni decisionali per il concreto perseguimento di risultati eteronomi rispetto a quelli propri istituzionali, determinando conseguente pregiudizio per la res comune e per gli interessi individuali di alcuni dei partecipi.

Non può, quindi, negarsi, a tale categoria concettuale, una propria vis expansiva, atta a rimediare a tutte quelle situazioni nelle quali l'insindacabilità nel merito delle scelte gestorie assembleari si possa tradurre in una sorta di baluardo dietro al quale la maggioranza si trinceri per imporre, alla minoranza, scelte e determinazioni assolutamente non congruenti con le finalità gestorie e che, nel contempo, sono fonte di nocumento per la posizione individuale.

In conclusione

In termini applicativi può pensarsi al caso, di frequente ricorrenza nella pratica, che vede l'assise assembleare, a fronte dell'impugnativa, da parte del singolo condomino, di un deliberato, procedere, in una seduta ad hoc convocata a seguito della proposizione del gravame ex art. 1137 c.c., ad adottare altra deliberazione con cui viene ribadito integralmente il contenuto del precedente oggetto di impugnazione.

Tali iniziative, poiché non aventi contenuto modificativo alcuno della precedente decisione gestoria, produrrebbero il solo risultato di costringere il condomino alla proposizione di ulteriore e differente gravame anche nei confronti della successiva delibera posto che, qualora vittorioso nel procedimento proposto avvero il precedente, residuerebbe, comunque, il successivo, dal medesimo contenuto, che, se non a sua volta impugnato, sarebbe vincolante. Deve, poi, escludersi che tali situazioni, ad onta della terminologia solitamente applicata e che vede il secondo deliberato denominato come «ratifica» e/o «convalida», possano essere ricondotte al genus tipologico della «convalida»; la ricorrenza di tale figura avrebbe presupposto il riesame della precedente decisione, attraverso un nuovo apprezzamento degli interessi da perseguire e comporre, nonché l'eliminazione di eventuali vizi della stessa, sì da determinare il tipico effetto sostitutivo dell'atto successivo valido a quello precedente invalido che avrebbe precluso, in applicazione del meccanismo normativo previsto dall'art. 2377, comma 8, c.c., ritenuto espressione di un principio generale valevole per gli atti negoziali collegiali, il giudiziale annullamento dell'atto invalido.

Trattandosi, invece, di mera integrale reiterazione di quanto già deciso con la pregressa deliberazione fatta oggetto di giudiziale impugnativa ex art. 1137 c. c., proprio la carenza di considerazione di ulteriori interessi, individuali e/o comuni, implicati o comunque interessati dalla successiva decisione, ne esclude una sua utilità o necessità ai fini del governo delle parti e dei servizi comuni, istituzionale attribuzione dell'assemblea. Nel contempo, per effetto dell'ulteriore decisione di mera integrale conferma di quanto in precedenza già deciso, il condomino impugnante viene onerato dell'ulteriore giudiziale gravame anche della successiva deliberazione. In difetto, pertanto, di un concreto risultato gestorio da perseguire e in considerazione della sua esclusiva negativa incidenza quanto alla posizione del condomino impugnante, la successiva decisione non può ritenersi «legittimo esercizio del potere discrezionale dell'organo deliberante assembleare» e, pertanto, deve patologicamente qualificarsi come invalida perché espressione ed affetta da eccesso di potere.

Guida all'approfondimento

Morello, ln condominio per transare basta la maggioranza se si tratta di interesse comune, in Dir. & giust., 2016, 115;

Terzago, Nullità e annullabilità delle delibere condominiali: nuovi confini, in Riv. giur. edil., 2008, I, 562;

Celeste, L'eccesso di potere nelle delibere condominiali ed i limiti del sindacato da parte dell'autorità giudiziaria, in Arch. loc. e cond., 2003, 25;

De Tilla, Sull'impugnativa della delibera condominiale, in Giust. civ., 1999, I, 3042.

Celeste, II conflitto di interessi nell'assemblea condominiale, in Riv. giur. edil., 1999, I, 129;

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario