Chiusura del fallimento e giudizi pendenti: il CNDCEC prova a riordinare le idee

18 Ottobre 2017

Il decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83, convertito nella legge 132 del 6 agosto 2015 è intervenuto, tra l'altro, nell'ambito della chiusura del fallimento, disponendo:a) all'articolo 118 della legge fallimentare, che la chiusura del fallimento per compiuta ripartizione finale dell'attivo "non è impedita dalla pendenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore può mantenere la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi di giudizio, ai sensi dell'articolo 43";b) che in ipotesi di chiusura con giudizi pendenti, il giudice delegato ed il curatore restano in carica ai soli fini di quanto previsto all'articolo 118, sesto comma.Il disposto normativo, pur interessante nella sua finalità di agevolare la chiusura tempestiva delle procedure, non manca di sollevare aspetti problematici.
Premessa

Il decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83, convertito nella legge 132 del 6 agosto 2015 è intervenuto, tra l'altro, nell'ambito della chiusura del fallimento, disponendo:

a) all'articolo 118 della legge fallimentare, che la chiusura del fallimento per compiuta ripartizione finale dell'attivo "non è impedita dalla pendenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore può mantenere la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi di giudizio, ai sensi dell'articolo 43";

b) che inipotesi di chiusura con giudizi pendenti, il giudice delegato ed il curatore restano in carica ai soli fini di quanto previsto all'articolo 118, sesto comma.

Il disposto normativo, pur interessante nella sua finalità di agevolare la chiusura tempestiva delle procedure, non manca di sollevare aspetti problematici.

In altro intervento, cui ci si permette di rinviare (La chiusura del fallimento con cause pendenti tra finzione giuridica e problemi reali, in questo portale) sono stati individuati i seguenti interrogativi:

a) se la norma investa tutti i tipi di cause, o solo alcune;

b) se il curatore conserva la legittimazione nella fase esecutiva;

c) se la norma valga per tutte le ipotesi di chiusura;

d) secondo quali criteri il decreto di chiusura debba dettare le linee operative;

e) cosa ne è degli eventuali diritti dei convenuti soccombenti a partecipare al concorso;

f) se sia possibile la chiusura anche con attività liquidatoria in corso;

g) chi e secondo quali parametri liquiderà il compenso;

h) come operano le norme fiscali;

i) chi decide/autorizza la chiusura anticipata.

Il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili (d'ora in poi, anche, il Consiglio o il CNDCEC), in un proprio Documento dal titolo "La chiusura del fallimento dopo la riscrittura dell'articolo 118 L. Fall.. Riflessioni e suggerimenti operativi", ha ritenuto di affrontare alcuni temi specifici, prospettando di volta in volta interpretazioni, possibili linee di condotta, ipotesi di modifiche normative.

Proviamo a vagliarne i contenuti di maggiore rilievo.

Cancellazione ed estinzione delle società

Ampio spazio è dedicato dal CNDCEC alle sorti dell'impresa in sede di chiusura del fallimento.

Ricordiamo che il codice civile:

  • in tema di società di persone, all'articolo 2312 (per le società in nome collettivo) dispone che dalla cancellazione della società i creditori sociali che non sono stati soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, mentre all'art. 2324 (per le società in accomandita semplice) prevede che dopo la liquidazione i creditori possono far valere i loro crediti integralmente nei confronti dei soci accomandatari, e limitatamente alle quote di liquidazione nei confronti dei soci accomandanti;
  • per le società di capitali, all'articolo 2495 dispone che dopo la cancellazione della società i creditori non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione.

Le norme vanno coordinate con l'articolo 118 l.fall., a mente del quale nell'ipotesi di chiusura del fallimento di cui all'art. 118, numeri 3 e 4 (ripartizione finale dell'attivo e insufficienza dell'attivo) il curatore deve chiedere la cancellazione della società "da cui discenderà la successiva estinzione della società per quanto previsto dall'articolo 2495 c.c." (così il Documento in analisi).

In definitiva, il Consiglio risulta andare nell'indirizzo dell'obbligatorietà della cancellazione della società dal registro imprese, anche in ipotesi di chiusura del fallimento con giudizi pendenti. Tuttavia, tale conclusione viene posta in crisi in relazione all'analisi degli aspetti fiscali, come qui di seguito analizzato.

Quanto alle imprese individuali, è opportuno ricordare che, secondo la Suprema Corte (Cass. 7 gennaio 2016, n. 98), la cessazione della qualità di imprenditore non è subordinata alla effettuazione di formalità, ma al venir meno dell'attività imprenditoriale.

Concetto di liti pendenti

Il Documento ha ipotizzato le seguenti casistiche:

  • situazioni attive e passive;
  • situazioni attive per rapporti preesistenti al fallimento (ad esempio azioni risarcitorie) o di sola pertinenza della massa (quali azioni revocatorie);
  • azioni cognitive ed azioni esecutive.

In questo novero di situazioni, il richiamo all'articolo 120, secondo comma della legge fallimentare e alle finalità di rispetto della Legge Pinto sulla durata ragionevole di processi porta il Consiglio ad includere tutte le azioni attive tra quelle a fronte della cui pendenza è possibile chiudere la procedura. Quanto alle azioni esecutive, le stesse vengono escluse sulla scorta della considerazione che la chiusura del fallimento presuppone la ripartizione dell'attivo, cosicché "ammettere la possibilità di chiudere il fallimento in pendenza di una azione esecutiva significherebbe ipotizzare una possibile chiusura senza avere prima liquidato l'intero attivo disponibile".

Tuttavia, la norma si riferisce alla legittimazione processuale di cui all'articolo 43 l.fall.. Quest'ultimo, per dottrina dominante, si riferisce alle cause promosse nell'interesse del fallito. Risulterebbero quindi escluse quelle intraprese nell'interesse della massa. E' evidentemente forte il rischio di compromettere, con la chiusura del fallimento, l'esito della vertenza, o anche solo di subire eccezioni strumentali ad indebolire, in chiave transattiva, la posizione di parte attrice.

Quanto alle azioni esecutive, all'esito di sentenze favorevoli potrebbe esserci la necessità di una fase esecutiva. Quest'ultima, tecnicamente, si pone come un diverso giudizio. Potrebbero quindi essere contestate per carenza di legittimazione le azioni esecutive poste in essere nel caso de quo, per quanto la prospettiva strida con la finalità della norma.

Attività di liquidazione del curatore

La normativa nulla dispone circa la possibilità per il curatore, dopo la chiusura del fallimento con cause pendenti, di compiere attività liquidatoria per i beni eventualmente sopravvenuti all'esito delle vertenze. Oltretutto, essendo chiusa la procedura non sarebbero applicabili le norme (e le tutele) di cui alla legge fallimentare.

Ne deriverebbe che non potrebbe chiudersi una procedura in presenza di azioni volte al recupero di beni, in quanto l'eventuale esito favorevole comporterebbe la necessità di una successiva monetizzazione degli stessi.

Il Consiglio si richiama alla terminologia utilizzata dal legislatore, ritenuta "ampia e generica" laddove fa riferimento a "giudizi pendenti" o a "quanto è oggetto del giudizio," nonché ancora alla ratio della norma.

L'interpretazione, tuttavia, ancorché ragionevole non appare così pacifica.

Da un punto di vista letterale, infatti, l'articolo 118 ipotizza "somme ricevute del curatore per effetto di procedimenti definitivi" e non beni.

L'articolo 120, dal canto proprio, ci ricorda che il curatore e il giudice delegato restano in carica ai soli fini di quanto "ivi previsto". Bisogna capire quanto possa essere allargata la portata della norma. Se "quanto ivi previsto" è la sola prosecuzione dei giudizi, allora è da escludersi l'attività liquidatoria.

Il rendiconto e il compenso del curatore

Il CNDCEC condivide l'impostazione per cui, in sede di chiusura del fallimento con giudizi pendenti, il curatore dovrà procedere al rendiconto, in cui dare atto dei giudizi pendenti e delle relative prospettive.

Tali prospettive, ovviamente, ad avviso di chi scrive non potranno che essere favorevoli; diversamente, il curatore dovrebbe farsi autorizzare all'abbandono del giudizio.

Quanto al riparto finale, viene opportunamente rammentata la necessità di disporre l'accantonamento della liquidità necessaria alla gestione dei giudizi, ivi compresa l'ulteriore quota di compenso del curatore.

Si rammenta come tale accantonamento dovrà coprire in particolare sia le spese legali e tecniche che la procedura dovrà sostenere, sia gli eventuali oneri da rimborsare alle controparti in caso di soccombenza (quali spese legali, risarcimenti, restituzione di somme precedentemente incassate, interessi passivi...).

Non viene affrontato il tema dell'Organo deputato alla liquidazione del compenso ulteriore del curatore, all'esito dei giudizi.

In linea di principio, il fallimento è chiuso e sono cessati dalle proprie funzioni il Tribunale e il Comitato dei creditori.

Chi scrive ritiene pertanto che dovrà essere il Giudice delegato l'Organo deputato a tale liquidazione, come pure alla liquidazione degli onorari di quanti avranno prestato assistenza al curatore.

Profili fiscali della chiusura del fallimento con giudizi pendenti

In questo ambito giova richiamare alcuni principi cardine, tratteggiati anche dal CNDCEC:

  • il soggetto fallito mantiene la soggettività fiscale passiva, anche dopo la dichiarazione di fallimento;
  • alcuni adempimenti specifici vengono trasferiti in capo alla curatela.

In particolare, ai sensi dell'articolo 183 TUIR, secondo comma "il reddito d'impresa relativo al periodo compreso tra l'inizio e la chiusura della procedura concorsuale... è costituito dalla differenza tra il residuo attivo e il patrimonio netto dell'impresa o della società all'inizio del procedimento, determinato in base ai valori fiscalmente riconosciuti".

Si può dunque avere materia imponibile solo se, al termine della procedura, vi sia residuo attivo; laddove il residuo può essere grezzamente definito in “quanto avanza” (denaro o beni) dopo l'integrale pagamento delle spese di procedura e dei creditori insinuati.

Tale reddito deve essere dichiarato dal curatore, ai sensi del d.p.r. 322/98, entro i nove mesi successivi a quello di chiusura del fallimento. Nello stesso termine vanno versate le eventuali imposte.

Il nuovo istituto della chiusura del fallimento con giudizi pendenti, incardinandosi su questo sistema precostituito, crea notevoli perplessità, in relazione agli attivi che dovessero pervenire successivamente alla chiusura della procedura ed ai correlati adempimenti fiscali.

Come confermato dal Consiglio, la chiusura del fallimento ex art. 118 l.fall., nn. 3 e 4 è motivo per la cancellazione della società dal Registro imprese, con conseguente estinzione del soggetto giuridico.

La conseguenza di questo quadro di insieme comporta:

  • la necessità di chiudere il codice fiscale e la partita IVA in concomitanza con la data di chiusura del fallimento;
  • l'obbligo di redigere la dichiarazione dei redditi per il maxi periodo fallimentare;
  • l'esclusione della necessità di adempimenti fiscali (sia imposte dirette che IVA) in relazione alle attività poste in essere dal curatore dopo la chiusura del fallimento, non operando il medesimo nell'ambito di un'attività d'impresa (con qualche dubbio per gli obblighi quale sostituto d' imposta, obblighi che fanno capo nominalmente al curatore ex art. 23 d.P.R. 600/73 e non all'impresa in quanto tale, e per l'eventuale applicazione dell'Iva a prestazioni di servizi attive, come di seguito specificato).

Il Documento prova a tracciare possibili soluzioni alternative, pur riconoscendo in via preliminare che deve procedersi a chiudere il codice fiscale e a redigere la dichiarazione dei redditi per il periodo di durata del fallimento. Il Consiglio prospetta in ogni caso un'istanza del curatore affinché il Tribunale lo autorizzi a non procedere con la cancellazione della società e a mantenere aperta la partita Iva (procedure che, in termini strettamente giuridici, paiono una forzatura).

Laddove dopo la chiusura del fallimento non dovesse emergere alcuna eccedenza rispetto alle spettanze dei creditori insinuati, secondo il Consiglio non dovrà essere presentata alcuna ulteriore dichiarazione fiscale. Diversamente, in presenza di residuo attivo dovrà essere presentata una dichiarazione "per un nuovo maxi periodo di imposta"; a quanto è dato comprendere, tale dichiarazione dovrebbe riguardare il periodo intercorrente tra la dichiarazione di fallimento e l'esecuzione dell'ultimo riparto conseguente agli incassi derivanti dei giudizi pendenti alla dichiarazione di fallimento.

Peraltro, il contributo dell'Ordine adombra l'opportunità di non chiudere il fallimento con giudizi pendenti, allorché gli stessi lascino preventivare, in caso di esito positivo, il formarsi di un residuo attivo (e quindi di un imponibile fiscale ex art. 183, secondo comma, d.p.r. 917/86).

Per quanto concerne l'Iva, il Documento rammenta in primo luogo la posizione della Suprema Corte in tema di applicazione dell'imposta a prestazioni di servizi incassate dopo la cessazione dell'attività (e maturate nel corso dell'attività medesima).

Il Giudice di legittimità (cfr. Cassazione 21 aprile 2016, n. 8059) ha ritenuto che "i compensi di prestazioni da attività imprenditoriale o professionale conseguiti dopo la cessazione dell'attività medesima, devono ritenersi assoggettati ad Iva", sebbene non sia necessaria la riapertura della partita IVA, bastando l'assolvimento del tributo.

Trattasi di una linea di condotta che, come rilevato in dottrina, comporta ampie perplessità in termini operativi. Si osserva in ogni caso che la Suprema Corte analizza il caso di prestazioni svolte prima della cessazione dell'attività e incassate successivamente. In ipotesi di fallimento, pare non percorribile l'ipotesi di una procedura che incassa dopo la propria chiusura prestazioni di servizi effettuate ante fallimento o durante esso. Significherebbe che il fallimento sarebbe stato chiuso nonostante la presenza di crediti non incassati ovvero non rinunciati, fattispecie non coerente con la normativa fallimentare.

La posizione potrebbe invero applicarsi a prestazioni di servizi rese dopo la chiusura del fallimento, prospettiva peraltro non concreta: dovrebbe trattarsi di prestazioni rese dal curatore a terzi, nell'interesse della massa, a procedura chiusa. In ogni caso, tali ipotetiche prestazioni sarebbero disposte al di fuori di un'attività d'impresa (in termini di attività economica organizzata e di abitualità), e quindi non assoggettabile ad iva.

Quanto alla cessione di beni, la Cassazione ha riconosciuto che la cessione dei beni dopo la cessazione dell'attività d'impresa non debba essere assoggettata ad Iva (peraltro, sul presupposto del precedente assoggettamento a Iva per autoconsumo).

Il Consiglio si adegua alle indicazioni della Corte. La prospettazione appare anche solo potenzialmente condivisibile con la precisazione che, quanto alla cessione di beni eventualmente acquisiti post chiusura del fallimento, questi dovranno essere venduti non in regime Iva in quanto ceduti al di fuori di un'attività di impresa, e non tanto in quanto in precedenza autofatturati (all'evidenza, i beni dovranno essere a suo tempo usciti dalla sfera imprenditoriale in adempimento della normativa IVA, in quanto applicabile).

Il contributo afferma altresì che, in presenza di sole prestazioni passive, "la partita IVA potrebbe anche essere riaperta solo per recuperare l'imposta relativa a spese funzionali ad un'attività conclusa, ma sostenute dopo la sua cessazione... in quanto spetta il diritto alla detrazione".

L'assunto poggia sulla sentenza della Corte di Giustizia Ue, 3 marzo 2005, causa C-32/03.

Peraltro, i confini di tale sentenza non paiono così immediatamente tracciabili e specularmente applicabili al caso de quo. La sentenza infatti muove nell'ambito dell'attività liquidatoria, conseguente alla cessazione della vera e propria attività operativa, e va a sdoganare il principio per cui il soggetto passivo continua ad operare per le attività prodromiche alla chiusura dell'impresa stessa, mantenendo il diritto a recuperare l'Iva assolta in virtù di tale attività (nel caso esaminato, un contratto di locazione che non poteva essere disdettato).

Diverso è invece il terreno su cui ci si muove nel nostro caso. Come segnalato, con la chiusura del fallimento l'impresa viene definitivamente a cessare. La successiva riapertura della partita Iva non pare idonea a configurare una reviviscenza dell'impresa, in funzione della quale soltanto può giustificarsi il recupero dell'Iva versata a terzi. Presupposto della ricorrenza degli obblighi Iva, infatti, ai sensi dell'articolo 1 del d.P.R. 633/72 è quello di attività disposte nell'esercizio di imprese (oltre che di arti e professioni), e per esercizio di imprese ai sensi dell'articolo 4 del medesimo decreto "si intende l'esercizio per professione abituale... delle attività commerciali o agricole di cui agli articoli 2135 e 2195 del codice civile...".

La situazione descritta appare più vicina a quella di un privato il quale, sostenendo costi assoggettati ad Iva, non può recuperare l'imposta corrisposta a terzi. La riapertura della partita Iva per il recupero di imposta potrebbe dunque portare ad una situazione di conflittualità con l'Agenzia delle Entrate.

Venendo infine alle ritenute, anche il CNDCEC rammenta come l'articolo 23 del d.P.R. 600/73 individui il curatore personalmente (e non il soggetto imprenditore in fallimento) quale sostituto d'imposta, ponendo così il dubbio se, anche dopo il venir meno del soggetto imprenditore, il curatore debba procedere con l'applicazione delle ritenute e gli adempimenti conseguenti.

Lapidariamente, il contributo attesta che "nel caso di mantenimento del codice fiscale, il curatore manterrà gli incombenti di sostituti d'imposta".

Si ritiene tuttavia che l'obbligo permanga in ogni caso di cessazione del soggetto imprenditore, e quindi anche in ipotesi (si ribadisce, doverosa ad avviso di chi scrive) di cancellazione della società e chiusura del codice fiscale alla chiusura del fallimento. Ciò, nella consapevolezza delle possibili difficoltà di compilazione e trasmissione dei modelli F24 e della dichiarazione modello 770.

Possibili evoluzioni normative

De jure condendo, il contributo dell'Ordine traccia un possibile percorso di revisione normativa, tale per cui:

  • viene data facoltà al curatore di non chiedere la cancellazione dell'impresa nonostante la chiusura del fallimento. Ciò peraltro conferma, in assenza di una modifica normativa, l'obbligatorietà della cancellazione (che non può dunque essere derogata da un decreto del Giudice delegato, il quale si porrebbe ultra legem);
  • si ipotizza l'obbligatorietà delle relazioni periodiche ex art. 33, ultimo comma l.fall., post chiusura, peraltro "esclusa la trasmissione al comitato dei creditori" (correttamente, posto che lo stesso viene meno alla chiusura del fallimento);
  • si propone che il conto della gestione ex art. 116 l.fall. venga reso, nel caso de quo, solo alla chiusura dei giudizi pendenti. La prospettiva non convince: il rendiconto, infatti, risponde tra l'altro alla finalità di consentire ai creditori di intervenire sull'operato del curatore, sia in ottica di censura, sia per suggerire ulteriori iniziative che, come tali, dovrebbero essere compiute prima della chiusura del fallimento.

Inoltre, il rendiconto e le eventuali osservazioni dei creditori entrano nel novero delle valutazioni di cui il Tribunale deve tenere conto per la liquidazione del compenso al curatore.

Più lineare, dunque, appare l'ipotesi di mantenere il rendiconto ex art. 116 l.fall. ante chiusura del fallimento, prevedendo un ulteriore rendiconto (da sottoporre al Giudice delegato e da trasmettere ai creditori, con un eventuale termine per osservazioni) all'esito delle cause pendenti (e prima del riparto "finale" delle somme da esse eventualmente rivenienti);

  • si precisa opportunamente che anche per l'attività post chiusura, il compenso del curatore verrà determinato nel rispetto dell'art. 39 l.fall.;
  • a fini Iva, si introduce la vigenza del codice fiscale "fino all'estinzione della società" (ossia, pare comprendere, fino alla cancellazione della stessa post chiusura del fallimento), la necessità di riaprire la partita Iva in caso di operazioni attive successive alla chiusura, e la facoltà di riapertura in caso di operazioni passive.

Osserva chi scrive come tale possibilità di riapertura della partita Iva andrebbe ad intaccare i principi cardine dell'Iva;

  • in ambito imposte dirette, si conferma la dichiarazione ex art. 183, secondo comma d.P.R. 917/86 alla chiusura del fallimento, e viene introdotta una nuova dichiarazione "al termine della procedura" nel solo caso di sopravvenuto residuo attivo. Rispetto alla proposta del Consiglio, andrebbe meglio focalizzato quale sia il "termine della procedura", tenuto conto che non è previsto alcun provvedimento formale che dichiari conclusa l'attività del curatore correlata ai giudizi in essere alla chiusura del fallimento.
Conclusioni

Il percorso operativo appare particolarmente complesso e giuridicamente vincolato.

Gli stessi primi orientamenti dei Tribunali, riepilogati dal Documento dell'Ordine, danno atto delle diversificate sfaccettature.

Come opportunamente rilevato dal Consiglio, la puntuale soluzione delle problematiche non può che passare attraverso interventi normativi di modifica.

Al riguardo, si ritiene che la costruzione dell'impianto giuridico debba essere completata come segue:

a) dovrà essere disposto che, con la chiusura del fallimento nel caso di cui all'art. 118, n. 3 con giudizi pendenti, non si avrà la cancellazione dell'impresa, nè opereranno le disposizioni di cui agli articoli 2312, 2324 e 2495 in tema di azioni dei creditori sociali nei confronti dei soci della società cessata.

Tali istituti saranno applicabili alla chiusura della fase supplementare inerente i giudizi pendenti;

b) conseguentemente, dovrà essere previsto un provvedimento formale, quale un decreto del Giudice delegato, che individui la chiusura della fase di gestione dei giudizi pendenti;

c) dovranno permanere le incapacità patrimoniali del soggetto fallito previste dall'art. 42 e 44 della legge fallimentare, con specifico riferimento al patrimonio dell'impresa, mentre potranno venire meno tutti gli ulteriori effetti del fallimento;

d) alla luce della permanenza in vita dell'impresa, potranno essere mantenuti il codice fiscale e la partita Iva e troveranno ordinaria applicazione gli adempimenti in tema di Iva e di sostituto d'imposta;

e) quanto alle imposte dirette, sarà opportuno prevedere una sola dichiarazione, che comprenda il maxi periodo dall'apertura del fallimento all'ipotizzato decreto di chiusura della fase supplementare, di cui al precedente punto b. D'altro canto, nei casi di operatività della chiusura del fallimento con giudizi pendenti, è evidente che al decreto di chiusura del fallimento non potrà manifestarsi residuo attivo, e conseguentemente non potrà emergere materia imponibile a fini delle imposte dirette;

f) sarà opportuno precisare quali siano i giudizi pendenti, comprendendo espressamente tra essi i giudizi nell'interesse della massa e le azioni esecutive (in corso o da instaurarsi).

Allo stato, a fronte di un tracciato così accidentato, si ritiene che la chiusura del fallimento debba essere attentamente ponderata, e percorsa solo allorché siano da escludersi in prosieguo le più rilevanti problematiche evidenziate (portate ad esempio dalle azioni revocatorie, dalle procedure esecutive, dalle cessioni di beni, dalla possibile sopravvenienza di un residuo attivo).

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