Il furto con destrezza tra interpretazione restrittiva e legge di Gresham inversa
18 Ottobre 2017
Massima
Non è integrata l'aggravante ex art. 625 n. 4 c.p. in caso di impossessamento di un bene lasciato incustodito dal legittimo possessore. Il caso
La pronuncia in commento annullava con rinvio la sentenza di merito di condanna pronunciata nei confronti dell'imputato ai fini di una nuova valutazione limitatamente al punto concernete l'aggravante della destrezza e alla connessa questione della procedibilità dei reati di furto ascritti. Così operava per demandare al giudice del rinvio il rispetto del condiviso dictum di cui alla sentenza delle Sezioni unite n. 34090/2017 secondo cui «la circostanza aggravante della destrezza di cui all'art. 625, comma 1, n. 4 c.p., richiede un comportamento dell'agente, posto in essere prima o durante l'impossessamento del bene mobile altrui, caratterizzato da particolare abilità, astuzia o avvedutezza, idoneo a sorprendere, attenuare o eludere la sorveglianza sul bene stesso, sicché non sussiste detta aggravante nell'ipotesi di furto commesso da chi si limiti ad approfittare di situazioni, dallo stesso provocate, di disattenzione o di momentaneo allontanamento del detentore della cosa». Specificando tale principio di diritto, la sentenza che si annota, al precipuo fine di discriminare la destrezza penalisticamente rilevante dal mero approfittamento, chiarisce che è furto con destrezza «quello qualificato da una condotta spoliativa attuata con particolare ingegno, astuzia e scaltrezza sicchè per ravvisare l'aggravante è necessario che l'agire non si limiti alla mera sottrazione del bene, pur facilitata dall'altrui disattenzione o dalla momentanea assenza, ma riveli connotati di capacità ed efficienza offensiva che incrementino le possibilità di portarlo a compimento ed offendano più seriamente il patrimonio». La questione
Il dictum delle Sezioni unite, semplicemente ribadito dalla sentenza in commento, giungeva a composizione di un dibattito risalente e acuitosi nel corso del tempo. Secondo un primo indirizzo pretorio di risalente formazione la circostanza aggravante di cui all'art. 625 n. 4 c.p. è configurabile in ogni situazione in cui il soggetto agente colga l'occasione favorente la realizzazione dell'impossessamento, inclusa la momentanea sospensione da parte della persona offesa del controllo sul bene, perché poco attenta, oppure per essere impegnata, nello stesso luogo di detenzione della cosa o in un luogo immediatamente prossimo, a svolgere la propria attività di vita o di lavoro. Trattasi di orientamento concretizzatosi in numerose pronunce di tenore conforme secondo le quali la disposizione di cui all'art. 625, comma 1, n. 4 c.p., non pretende necessariamente l'impiego di doti eccezionali applicate nella sottrazione e tali da impedire al derubato di averne contezza, sicché ricorre l'aggravante della destrezza e l'abilità operativa dell'autore del furto nella condotta di chi sottrae beni da un'autovettura lasciata in sosta sulla pubblica via priva di chiusura, oppure da uno studio medico, da una stanza di degenza ospedaliera, da un negozio o da un cantiere edile, estrinsecandosi tali fattispecie nell'approfittamento della condizione disattenta del soggetto passivo, distratto da altre occupazioni o comunque poco concentrato sulla sorveglianza dei propri averi (vd. sul punto ex plurimis Cass. pen., Sez. V, n. 20954/2015 nonché Cass. pen.,Sez. V, n. 3807/2016; Cass. pen., Sez. V, n. 26749/2016; Cass. pen., Sez. V, n. 6213/2015). A tale linea interpretativa si oppone altro orientamento che esclude la destrezza ove l'agente meramente si avvalga di un momento di distrazione o del temporaneo allontanamento dal bene del suo detentore, in entrambi i casi non provocato dall'attività dell'autore del furto, poiché l'azione non presenta alcun tratto di abilità esecutiva o di scaltrezza nell'elusione del controllo dell'avente diritto, ma al più l'audacia o la temerarietà di sfidare il rischio di essere sorpresi (vd. in questi termini Cass.pen., Sez. IV, n. 46977/2015; Cass. pen., Sez. II, n. 9374/2015; Cass. pen., Sez. V, 12473/2014; Cass. pen., Sez. V, 19344/2013).. A tale ultimo orientamento, maggiormente restrittivo, hanno aderito le Sezioni unite della Corte di Cassazione. Le soluzioni giuridiche
Il Massimo Consesso individua preliminarmente con precisione la fattispecie concreta oggetto di disparità di vedute nonché l'apparato argomentativo nel corso del tempo utilizzato in senso estensivo dell'aggravante in parola. La fattispecie è dunque data da tutte le ipotesi in cui l'agente si limiti a percepire nella realtà fenomenica le condizioni favorevoli alla sottrazione, volgendole a proprio favore e inserendovi la propria azione appropriativa del bene altrui; con esclusione dunque delle ipotesi in cui il soggetto agente provochi la distrazione della vittima, salva in tal caso la questione circa la qualificazione della fattispecie in termini di destrezza ovvero di mezzo fraudolento. L'opinione favorevole a qualificare come destra la condotta di approfittamento mero fa leva sulla ricostruzione dell'istituto come non richiedente nel soggetto attivo un'abilità eccezionale o straordinaria, per effetto della quale il derubato non abbia modo di accorgersi della sottrazione – vd. Cass. pen., Sez. II n. 1022/1978, Montariello – e, nell'assenza di puntuali definizioni normative, ritiene l'aggravante integrata dall'impiego di qualsiasi modalità idonea ad eludere l'attenzione del soggetto passivo sulla commissione del reato. In tale ordine di idee l'indeterminatezza dell'idoneità dell'azione autorizza a ravvisare la destrezza anche nell'approfittamento in sé di una momentanea distrazione del derubato o nel suo temporaneo allontanamento dal bene, senza che alcune importanza possa attribuirsi all'essere stati causati dall'agente, poiché rileva solo lo «stato di tempo e di luogo tale da attenuare la logica attenzione della parte lesa nel mantenere il dominio ed il possesso della cosa» (vd. Cass. pen., Sez. II, 7416/1977; Cass. pen., Sez. II, n. 335/1986; Cass.pen., Sez. V, 20954/2015). Si valorizza dunque la soggettiva capacità dell'agente di comprendere il contesto fattuale in cui interviene e le dinamiche delle azioni altrui, nonché di sfruttare, con prontezza di reazione e di decisione, le opportunità favorevoli a superare la normale vigilanza dell'uomo medio ed a realizzare l'impossessamento, poiché tale condotta è compiuta grazie all'approfittamento delle vantaggiose opportunità del momento, anche se non provocate, e rivela la maggiore pericolosità del reo. Le Sezioni Unite, convergendo con i risultati ermeneutici della dottrina maggioritaria, respingono tale lettura per una pluralità di ragioni logico-giuridiche. Constatata impossibilità di trarre concludenti indicazioni dalla littera legis, priva di definizioni esemplificative, il Massimo Consesso ritiene di dover fare ricorso al canone ermeneutico logico e sistematico e quindi a quello teleologico, che tutti integrano il senso delle espressioni linguistiche mediante la considerazione coordinata del testo della previsione normativa nell'ambito del sistema in cui essa è collocata e della sua ratio. La concretizzazione del concetto di destrezza – ad avviso della Corte – può ricavarsi in primo luogo dal raffronto sistematico con la fattispecie basilare del furto non aggravato come delineata dal legislatore all'art. 624 c.p. Se effettivamente la disposizione dell'art. 625 c.p. non pretende perché si configuri la destrezza che l'autore del furto faccia ricorso a doti di eccezionale e straordinaria abilità, che la dottrina definisce virtuosismo criminale, nondimeno la modalità della condotta destra deve esprimersi in un quid pluris rispetto all'ordinaria materialità del fatto di reato. In altri termini, le modalità esecutive, per poter dare luogo all'aggravante, deve potersi distinguere dal fatto tipico, che realizza il furto semplice, deve rivelare un tratto specializzante e aggiuntivo rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie basilare costituito dall'abilità esecutiva dell'autore nell'appropriarsi della cosa altrui tale da sorprendere o neutralizzare la sorveglianza sulla stessa esercitata, disvelando la sua maggiore capacità criminale e la sua più efficace attitudine a ledere il bene giuridico protetto. Considerato in base a tale criterio, il mero prelievo di un oggetto dal luogo ove si trova – sia esso un'abitazione privata, un esercizio di vendita o ambiente di lavoro, un ufficio pubblico, un veicolo in sosta privo di chiusura e protezioni – attuato in un momento di altrui disattenzione, che offre l'occasione favorevole all'apprensione per la possibilità di avvicinamento o di asportazione nella mancata e diretta percezione da parte del possessore, non in grado di interdire l'azione perché altrimenti impegnato o assente, non integra la fattispecie circostanziata in esame perché non richiede nulla di più e nulla di diverso da quanto necessario per consumare il furto. L'essenza della destrezza è dunque in una particolare capacità operativa, superiore a quella da impiegare per perpetrare il furto, nel distogliere o allentare la vigilanza sui propri bene da parte del detentore. Trattasi, a giudizio della Corte, di una declinazione dell'estensione del principio di offensività alle circostanze del reato secondo l'autorevole avallo della Corte costituzionale, ciò che impone che anche i c.d. accidentalia delicti siano valutati in termini restrittivi, alla stregua del generale canone di cui all'art. 49, comma 2, c.p. Secondo Corte cost. n. 251/2012 il principio di offensività è infatti chiamato ad operare rispetto sia alla fattispecie di base che sia alle circostanze aggravanti, nonché «rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se così non fosse, la rilevanza dell'offensività della fattispecie base potrebbe risultare ‘neutralizzata' da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità». (cfr. altresì sul punto Corte cost. n. 249/2010). Osservazioni
L'interpretazione fornita dalla Corte di cassazione a Sezioni unite, pienamente ribadita dalla sentenza in commento, merita ampia condivisione anzitutto nel suo porsi maggiormente in linea con i dettami costituzionali che saldamente àncorano la punibilità al fatto offensivo di beni giuridici e non alla rimproverabilità soggettiva o alla pericolosità dell'agente. Assegnare infatti valore qualificante alla sola prontezza nell'avvedersi della situazione favorevole creatasi si traduce infatti nella valorizzazione della componente soggettiva del reato, ciò che costituisce esito ermeneutico da evitare mediante l'intendere l'aggravante in parola in senso rigorosamente oggettivo ex art. 70 n. 1 c.p. e stigmatizzante una particolare modalità della condotta, un'abilità peculiare e non ordinaria. L'interpretazione in analisi appare inoltre apprezzabile nel suo convergere, come non frequentemente accade, con i migliori risultati del formante dottrinale. Già secondo il MANZINI «il concetto di destrezza comprende tutti quei modi di commissione del furto che consistono nell'esplicazione di una speciale abilità fisica del ladro tale da poter eludere, sviare o impedire che si ridesti l'attenzione media, anche se in concreto non consegue lo scopo». Aggiungendo poi efficacemente che «la destrezza, in quanto circostanza aggravante, deve necessariamente presentarsi come una abilità straordinaria. Ciò che non è straordinario rispetto all'ipotesi tipica del reato, non può considerarsi circostanza aggravante». A ben vedere, in termini più generali, l'opzione interpretativa in via di consolidamento appare inscriversi entro un più ampio approccio ermeneutico della Suprema Corte che si pone, a giudizio dello scrivente, ad autorevole e condivisibile argine rispetto a frequenti estensioni della punibilità di dubbia correttezza teorica. Significativo appare in proposito quanto statuito in ordine ad altra circostanza dalle Sezioni unite n. 40354/2013 secondo cui l'aggravante dell'uso del mezzo fraudolento delinea una condotta posta in essere nel corso dell'azione delittuosa dotata di marcata efficienza offensiva e caratterizzata da insidiosità, astuzia e scaltrezza, idonea quindi a sorprendere la contraria volontà del detentore e a vanificare le misure che questi ha apprestato a difesa dei beni di cui ha la disponibilità. Ciò che conferma, al di là ogni ragionevole dubbio interpretativo, la liceità di un paradigm shift in direzione di altra e più gravosa qualificazione – in termini di risposta sanzionatorio e/o di procedibilità – solo ove la fattispecie concreta abbia comportato un'aggressione del bene giuridico in termini significativamente maggiori, anche alla stregua del generale canone di cui all'art. 49, comma 2, c.p. Degna di nota in tale prospettiva appare altresì la pronuncia delle Sezioni unite n. 31345/2017 relativa alla restrittiva delimitazione del concetto di privata dimora utili affinché possa scattare la punibilità ai sensi e per gli effetti dell'art. 624-bis c.p. In controtendenza rispetto a pregresse e assai diffuse prese di posizione secondo le quali rubrica legis non est lex, in tale occasione il Massimo Consesso risulta aver (correttamente) valorizzato il valore normativo della rubrica della predetta disposizione nella parte in cui la stessa, parlando di abitazione, impone un'accezione restrittiva del correlativo concetto di privata dimora. Trattasi dunque di un quadro pretorio complessivo che pare aver riscoperto, in plurime occasioni e nella massima composizione, il fondamentale canone dell'interpretazione restrittiva della legge penale, ciò che appare altresì in linea con le indicazioni sovranazionali. Per quanto la Corte di Strasburgo si sia sempre dimostrata aperta a riconoscere ampi spazi all'attività ermeneutica giudiziale – purché comunque sia garantita una prevedibilità “storica” dell'esito interpretativo fondata tanto sulla precedente prassi applicativa quanto sull'eventuale mutamento del contesto socio-culturale, ossia «a condizione che il risultato sia coerente con la sostanza dell'illecito e ragionevolmente prevedibile», vd. Corte Edu, S.W. c. Regno Unito, 22 novembre 1995, § 34 – è altresì vero che il generale divieto di applicare la legge in senso estensivo a detrimento dell'accusato rappresenta un refrain costante nella giurisprudenza Cedu e che l'interpretazione restrittiva è riconosciuta come solo metodo legittimo e ragionevole in materia penale (vd. ex plurimis Corte Edu, Grigoriades c. Grecia, 25 novembre 1997, § 38; sull'obbligo di interpretazione ragionevole delle disposizioni penali vd. Corte Edu, Protopapa c. Turchia, 24 febbraio 2009, § 93 nonché Corte Edu, Schummer c. Germania, 13 novembre 2011, § 64). Vi è da sperare che il trend continui, essendo l'interpretazione restrittiva, oltreché l'unica ammessa dal “sistema” o comunque quella da privilegiare in caso di dubbio, una prima, soddisfacente riposta endogena all'inflazione penalistica che sovente si denuncia quale vizio del solo Legislatore. Ciò che permette di ottenere, pur nell'inerzia di quest'ultimo, una realtà giudiziaria più snella e relativa solo a fatti significativamente offensivi. È in definitiva moneta buona che – contrariamente a quanto accade secondo la legge di Gresham – pare allo stato aver “scacciato” e isolato la moneta cattiva, id est quelle interpretazioni disancorate dal fatto e/o da taluni dati positivi – si pensi al valore normativo delle rubriche – che determinano, come osservato dalla stessa Consulta con sentenza n. 251/2012, un diritto penale tendente a note etico-morali e prevalentemente orientato a poco controllabili giudizi di colpevolezza e pericolosità dell'agente, a tutto scapito del fatto oggettivo. Ciò che rappresenta la moneta cattiva degli operatori giuridico-penali, quella che si tende a rifiutare in pagamento ma con la quale, di converso, si tenta sempre di ripagare le azioni altrui. |