Arbitrato e clausola compromissoria (condominio)

12 Ottobre 2023

A causa di una normativa che si presenta inadeguata a regolare compiutamente la realtà condominiale, e in parte per l'essenza stessa della vita in comune negli edifici che, genera potenzialmente contrasti, si analizza la possibilità di compromettere ad arbitri la controversia inerente ai rapporti condominiali, facendo il punto sulle problematiche, sostanziali e processuali, connesse a tale opzione; in particolare, l'attenzione è rivolta all'inserimento, all'interno del regolamento di condominio, della clausola compromissoria con cui si contempla la possibilità di demandare ad arbitri la decisione sulla validità della delibera, e, segnatamente, alle questioni concernenti il rispetto dei termini di decadenza e l'ammissibilità del provvedimento di inibitoria.

Inquadramento

Distinta dalla mediazione obbligatoria finalizzata alla conciliazione delle controversie condominiali - che si presenta, tra l'altro, come condizione di procedibilità della domanda - è il ricorso, nelle medesime cause, ad un «arbitro», ossia ad un giudice privato; invero, la conciliazione si differenzia perché, pur presupponendo anch'essa un'insorgenda vertenza, il Legislatore invita le parti a risolverla con l'individuazione, da parte del conciliatore, dei reali interessi che intendono soddisfare, per cui il medesimo conciliatore deve agevolare il loro accordo che si determina con un nuovo negozio.

Entrambi gli istituti rientrano nella prospettiva di devolvere ad un soggetto, terzo rispetto al giudice, la soluzione di conflitti all'interno del condominio - campo eccezionalmente fertile di litigi - con l'obiettivo deflattivo, ossia di contribuire a sfoltire il carico di lavoro dei tribunali, in modo da riportare i tempi processuali a livelli finalmente accettabili, ma si differenziano poiché il ricorso all'arbitro è rimesso alla volontà delle parti, che possono decidervi di ricorrere in ogni momento, laddove la mediazione costituisce una sorta di filtro obbligatorio all'ingresso indiscriminato delle cause civili, nel senso che chi intende esercitare l'azione in determinate controversie (nella specie, condominiali) deve preliminarmente esperire tale procedimento.

Peraltro, l'arbitro ed il mediatore hanno compiti profondamente diversi: il primo deve decidere la controversia con un atto che si impone alle parti, mentre il secondo deve aiutarle a trovare un'ipotesi di accordo negoziale che possa avere il loro consenso; quest'ultimo, quindi, svolge la funzione di «catalizzatore», nel senso che l'accordo, la cui conclusione è stata favorita dal mediatore, mantiene le stesse caratteristiche dell'accordo che le parti siano in grado di raggiungere da sole (la sua efficacia e la sua validità non divergono da quelle di un normale accordo raggiunto senza il mediatore); nella mediazione, le parti mantengono il dominio della situazione, potendo in ogni momento mettere fine al procedimento, decidendo di non proseguire le trattative, o magari di proseguirle senza la presenza del mediatore.

Va segnalato che, di recente, la c.d. riforma Cartabia (d.lgs. n. 149/2022) ha introdotto rilevanti novità in materia di Arbitrato, puntando a rendere più efficace questo strumento di risoluzione alternativa delle controversie in generale (e, per quel che ci interessa da vicino, le controversie condominiali); ad esempio, si sono previsti maggiori poteri anche cautelari per l'arbitro, vengono contemplati incentivi economici per il ricorso a questo strumento, e si introducono una serie di norme finalizzate a rafforzare il principio di imparzialità e indipendenza degli arbitri.

Il giudizio arbitrale

In particolare, il giudizio arbitrale, previsto e disciplinato dagli artt. 806 ss. c.p.c., si presenta come il mezzo al quale le parti possono ricorrere per sottrarre alla giurisdizione ordinaria - che essi ritengono, per i più vari motivi, inadeguata - la decisione di una lite tra loro insorta, realizzando così una sorta di giustizia privata, ossia da un privato anziché da un giudice dello Stato (nello specifico, la clausola compromissoria si differenzia dal compromesso unicamente per avere ad oggetto controversie nondum natae).

Accanto a tale arbitrato c.d. rituale (oggetto di recenti riforme ad opera della legge 5 gennaio 1994, n. 25 e del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), si è venuto affiancando quello c.d. irrituale o libero - creato dalla pratica per consentire alle parti di sfuggire al formalismo che ispira la disciplina del giudizio arbitrale contemplato nel codice di procedura civile - che si presenta, invece, come una sorta di mandato negoziale, mediante il quale viene conferito al terzo il potere di comporre una lite sostituendosi alla volontà dei contraenti: quindi, nel primo, l'arbitro è investito di una funzione sostitutiva di quella giurisdizionale, mentre, nel secondo, l'arbitro ha il compito di definire la lite in qualità di mandatario.

La distinzione tra i due tipi di arbitrato di cui sopra va ricercata nel diverso contenuto dell'atto cui l'arbitrato tende, nel senso che l'arbitrato rituale si risolve in un processo, che conduce alla decisione della controversia, mediante la manifestazione di una volontà superiore, che sovrappone alle contrastanti pretese delle parti l'efficacia della sentenza - mediante il decreto del tribunale ex art. 825 c.p.c. all'esito di un controllo meramente formale dei requisiti di validità del lodo - mentre l'arbitrato libero opera sul piano negoziale e tende ad ottenere dal terzo un accertamento sostitutivo della volontà che le parti si obbligano a considerare vincolante come se fosse stato da esse stesse predisposto.

A tal fine, pertanto, valutando complessivamente il patto compromissorio ed applicando le norme di ermeneutica dettate dagli artt. 1362 ss. c.c., si deve accertare quale sia la reale intenzione dei compromittenti nel conferire all'arbitro l'incarico di risolvere determinate controversie, e quale sia la natura che si intende dare alla pronuncia con cui il procedimento arbitrale si chiude: rituale, se atto destinato ad acquisire valore equipollente alla sentenza, idonea a divenire titolo esecutivo su istanza della parte interessata, oppure libero, se provvedimento espressione della stessa volontà delle parti.

Da tenere distinta, pertanto, la conciliazione, costituita da un procedimento che, coinvolgendo direttamente le parti nella rappresentazione e nell'analisi delle rispettive pretese e delle conseguenti possibili soluzioni compositive - sotto la direzione di un conciliatore, preferibilmente professionale - tende a giungere ad un accordo di natura transattiva (non, quindi, ad una decisione che privilegi una delle due posizioni contrapposta, perché il conciliatore non decide la controversia, ma «aiuta» le parti a trovare un accordo soddisfacente); al contrario, l'arbitrato può dirsi sussistere in un vero e proprio giudizio, basato su una procedura specificamente prevista, del quale è incaricato un «giudice privato», il quale può essere unipersonale o collegiale, e pronunciare secondo diritto o secondo equità.

L'amichevole composizione della lite condominiale

Va, tuttavia, precisato che la clausola del regolamento condominiale che preveda, per i casi di contrasto tra condomini, l'obbligo di esperire un tentativo di «amichevole composizione» - presso l'associazione fra i proprietari dei fabbricati o altre associazioni similari - non integra una clausola compromissoria, la quale presuppone la rinuncia all'azione giudiziaria e dà luogo ad una cognizione di carattere arbitrale suscettibile di definire la controversia.

Pertanto, qualora, nonostante l'impegno di promuovere il predetto tentativo di conciliazione, venga da un condomino instaurato direttamente il procedimento giudiziario, questo non può considerarsi nullo in quanto, in mancanza di un patto compromissorio o di una rinuncia all'azione, i presupposti processuali per la validità del procedimento medesimo, stabiliti nel pubblico interesse, possono trovare il loro fondamento nella legge e non già nell'autonomia privata (Cass. civ., sez. II, 26 gennaio 1977, n. 388; cui adde, più di recente, Cass. civ., sez. II, 28 novembre 2008, n. 28402, la quale ha cassato la pronuncia che aveva considerato «improponibile» l'azione di condanna al risarcimento dei danni, procurati a causa di un'infiltrazione d'acqua, perché non era stato, nella specie, esperito il tentativo di bonaria composizione della lite previsto nel regolamento).

In quest'ordine di concetti, unicamente il Legislatore può derogare al principio del libero ed incondizionato esercizio dell'azione civile - qualora non ricorra un patto compromissorio o una rinuncia alla medesima azione - ed imporre condizioni di procedibilità (come nelle ipotesi contemplate dal d.lgs. n. 28/2010); stante che solo una clausola che demandi la controversia della decisione ad arbitri può sottrarre la medesima alla cognizione dell'autorità giudiziaria, non può ritenersi inammissibile l'azione proposta da un condomino nonostante il regolamento condominiale avesse previsto, come condizione prima di adire il magistrato, l'esperimento obbligatorio del tentativo di conciliazione presso l'associazione della proprietà edilizia (nella giurisprudenza di merito, v. App. Milano 13 luglio 1990; Trib. Milano 1 giugno 1987).

Invero, in alcuni regolamenti-tipo, si riporta la seguente disposizione: «qualora insorgano vertenze o dissidi tra i condomini o tra questi e l'amministratore, ciascuna parte dovrà rivolgersi al consiglio dei condomini per tentare un amichevole componimento prima di adire l'autorità giudiziaria».

Ne deriva che l'inosservanza di una clausola contrattuale, la quale obblighi le parti, prima di rivolgersi al magistrato, ad esperire un tentativo di amichevole componimento della lite, potrebbe eventualmente determinare conseguenze di natura sostanziale, come l'obbligazione di risarcimento del danno, tuttavia, non assume rilevanza nel sistema processuale e non comporta l'improcedibilità, neppure temporanea, dell'azione giudiziaria promossa senza aver ottemperato al suddetto obbligo, non implicando tale clausola alcuna rinuncia alla tutela giurisdizionale.

Né può sostenersi che una previsione contrattuale se, da un lato, non può mai precludere l'esercizio dell'azione giudiziaria, dall'altro, potrebbe differire nel tempo l'esercizio della medesima azione, subordinandola - come nel caso concreto - all'infruttuoso esperimento del tentativo di conciliazione; in buona sostanza, si potrebbe opinare che, se la legge ordinaria costituisce una fonte idonea ad istituire tentativi obbligatori di conciliazione, così anche il contratto, nella misura in cui ha forza di legge tra le parti, dovrebbe reputarsi una fonte di diritto altrettanto idonea.

In buona sostanza, la clausola del regolamento di condominio non avrebbe implicato una rinuncia definitiva al contenzioso giudiziario, ma semplicemente un suo «differimento cronologico», nell'interesse dello stesso asserito titolare del diritto che si intende far valere; in realtà, vertendosi in materia di norme inderogabili, la disciplina processuale in esame non può essere oggetto di regolamentazione contrattuale contrastante con quella legislativa.

Peraltro, il subordinare l'esperibilità dell'azione giudiziaria all'infruttuoso esperimento del tentativo di conciliazione non comporta un mero differimento, ma un'invalicabile preclusione della medesima azione destinata a durare fino all'espletamento del suddetto incombente e, quindi, se del caso, per sempre, in mancanza di quest'ultimo; comunque, il demandare la risoluzione delle controversie condominiali ai predetti tentativi di amichevole conciliazione finirebbe, in pratica, per allontanare nel tempo la risoluzione medesima, nel senso che, se non idonei a definire la lite, una volta fallito il tentativo, si rimette la risoluzione della stessa al medesimo sistema giudiziario, laddove, invece, il fine - sopra accennato - di ricorso all'arbitrato è quello di favorire la decongestione delle aule dei tribunali.

L'impugnativa della delibera assembleare

La questione inerente la possibilità di devolvere agli arbitri la risoluzione delle controversie condominiali è stata affrontata dalla giurisprudenza soprattutto in ordine alla controversia «tipica», e statisticamente più frequente, qual è l'impugnativa della delibera assembleare, anche se nulla esclude che, talvolta, si possano coinvolgere gli arbitri sotto ogni aspetto dei rapporti inerenti alla situazione condominiale, quali, per esempio, le divergenze tra i condomini circa l'interpretazione e l'applicazione del regolamento condominiale, o i conflitti tra amministratore e condomini.

In generale, atteso che l'art. 806 c.p.c. prevede che le parti possono incaricare gli arbitri di fare decidere tutte le controversie che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge, si osserva che le controversie condominiali si riferiscono sempre a diritti «disponibili» e possono essere oggetto di transazione e, pertanto, che possono essere anche deferite al giudizio di un arbitro.

In particolare, va tenuto presente il disposto dell'art. 1137, comma 2, c.c. - nel testo leggermente variato a seguito della Riforma del 2013 - secondo cui, «contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio, ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può far adire all'autorità giudiziaria», e il disposto dell'art. 1138, ultimo comma, c.c., in forza del quale «le norme del regolamento ... in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli articoli ... 1137».

Orbene, già con una remota decisione, i giudici di legittimità hanno avuto modo di affermare la legittimità di una clausola compromissoria contenuta in un regolamento condominiale che deferiva al giudizio di arbitri la decisione sul ricorso avverso le delibere assembleari, siano viziate da annullabilità o radicalmente nulle (Cass. civ., sez. II, 12 luglio 1952, n. 2178; tra le decisioni di merito, si segnalano: Trib. Roma 28 giugno 1961; Trib. Torino 16 giugno 1951).

In evidenza

Il disposto di cui al citato art. 1137, infatti, stabilisce soltanto il principio dell'impugnabilità delle delibere condominiali, ma non intende determinare alcuna competenza particolare assoluta ed esclusiva di un giudice piuttosto che un altro; il ricorso al giudice è, quindi, il mezzo normale di impugnazione, ma non si esclude che le parti possano sostituire al giudice ordinario quello elettivo, ossia un arbitro (sarebbe radicalmente nulla una disposizione del regolamento che stabilisse, invece, una rinuncia preventiva all'opposizione o l'ininpugnabilità delle statuizioni condominiali).

Viene così superata la tesi di chi, al contrario, ritiene che il Legislatore, prevedendo l'intervento della «autorità giudiziaria» nell'art. 1137 c.c., come possibilità di instaurare un giudizio di impugnazione, aveva inteso, per assicurare meglio la tutela del singolo, riferirsi ad un potere superiore di autorità, piuttosto che alla sua funzione di giudicare, considerando che il ricorso alla decisione arbitrale sostituisce solo una parte della funzione giudiziaria, quella cioè attinente alla cognizione, sviluppandosi integralmente in via ordinaria ogni altro aspetto, cautelare ed esecutivo, dell'intervento del giudice.

Il Supremo Collegio ha affermato che, del resto, l'art. 808 c.p.c., nel demandare all'autonomia contrattuale delle parti la pattuizione delle clausole compromissorie, specifica, anche in relazione al precedente art. 806, quali controversie non possano formare oggetto di compromesso e in quali contratti la clausola compromissoria non possa essere inserita, sicché, non ricorrendo nessuna di tali eccezioni nell'ipotesi di impugnazione alla delibera condominiale, ne deriva la legittimità della suddetta clausola contenuta nel regolamento condominiale.

In altri termini, atteso che, in forza del principio generale che, nelle materie consentite, è sempre lecito sostituire al giudizio dell'autorità giudiziaria quello degli arbitri, con il divieto di deroga all'art. 1137 c.c. contenuto nel successivo art. 1138, il Legislatore ha voluto solo impedire che il regolamento tolga al condomino il diritto di impugnare una delibera, ma non riservare unicamente all'autorità giudiziaria la competenza a conoscerne; in fondo, il condomino può disporre del suo diritto come qualunque altro cittadino, a meno che non trovi ostacolo in qualche norma di legge e, impegnandosi a devolvere la controversia condominiale agli arbitri, lo stesso non rinuncia alla tutela dei suoi diritti, essendo il processo arbitrale equivalente a quello contenzioso di cognizione.

Tale orientamento interpretativo viene ripreso nelle pronunce successive della magistratura di vertice (v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 20 giugno 1983, n. 4218), ribadendo, così, la liceità della sottoposizione all'arbitrato c.d. rituale delle controversie relative all'impugnazione di delibere dell'assemblea dei condomini.

Invero, si afferma che, per la formulazione datavi e per la sua identificabile ragione normativa, oltre che per la sede, l'art. 1137 c.c. è posto a regolare, per l'oggetto al quale ha riguardo, sul piano sostanziale, con il carattere di inderogabilità stabilito dal successivo art. 1138, il concreto rapporto che intercorre tra l'ente collettivo organizzato (condominio) e il suo singolo componente (condomino), sì da garantire adeguatamente i rispettivi interessi, quando essi vengono a collidere e, nel contempo, da soddisfare, in modo parimenti adeguato, la generale esigenza della certezza e stabilità delle situazioni giuridiche, per un verso, fissando il principio dell'impugnabilità dell'atto viziato da parte del condomino dissenziente, di cui è, quindi, esclusa la soggezione passiva alla volontà collettiva irregolarmente formata senza il suo consenso e, per altro verso, consentendo la facoltà di impugnazione entro circoscritti limiti temporali, e perciò assoggettandola a decadenza.

Per la suddetta previsione legislativa della facoltà di ricorrere all'autorità giudiziaria contro le delibere affette da vizio, è assicurata, pertanto, agli interessi considerati, in particolare a quelli del condomino dissenziente, congrua tutela giurisdizionale, e di tale tutela è sancita l'irrinunciabilità a priori e l'insopprimibilità mediante norma del regolamento condominiale, ma certamente - secondo i giudici di legittimità - non è ulteriormente stabilita per tale tutela una riserva di competenza assoluta ed esclusiva del giudice ordinario e, correlativamente, negata l'ammissibilità di un alternativo ricorso ad arbitri, in via del pari giurisdizionale, tanto non risultando in alcun modo dall'affatto generica formulazione della previsione stessa, e palesemente esulando dalle sue riconoscibili finalità.

Né il preteso divieto di compromettere in arbitri le controversie condominiali risulta sancito, direttamente o mediante richiamo, dagli artt. 806 e 808 c.p.c., in particolare non rientrando queste ultime in quelle che «non possono formare oggetto di transazione», perché attinenti a diritti non disponibili, per loro natura o per espressa disposizione di legge, o perché relative ad un contratto illecito ai sensi degli artt. 1966 e 1972 c.c. (quest'ultima norma, poi, secondo cui la transazione su un titolo nullo è generalmente consentita, vale a fare ulteriormente escludere che possa ritenersi vietato il deferimento alla competenza arbitrale dell'impugnazione della delibera assembleare nulla).

Al riguardo, si potrebbe opinare l'impossibilità di sottrarre all'autorità giudiziaria le controversie in materia di impugnativa di delibere condominiali sulla base del fatto che trattasi di materia coinvolgente un interesse pubblico e, come tale, non oggetto di transazione; in fondo, l'art. 1137 c.c., quando conferisce al singolo il potere di impugnare la delibera solo che essa sia contraria alla legge o al regolamento condominiale, sembra prescindere dalla lesione del condomino, investendolo di un potere che va oltre la tutela della sua limitata sfera giuridica, ma è anche significativo che si limita tale ricorso ai casi di illegittimità della delibera o di contrasto con il regolamento, escludendo nel contempo un esame della statuizione condominiale sotto il profilo del merito, concernendo una discrezionalità rimessa ai soli partecipanti.

E' agevole replicare, però, che la legge concede il potere di impugnativa soltanto ai condomini dissenzienti, per cui, solo in quanto l'interesse del singolo condomino sia in antagonismo con quelli della maggioranza, gli è dato ricorrere contro una delibera condominiale viziata, mentre, in caso contrario, nessuna irregolarità della delibera stessa il Legislatore mostra di considerare capace di legittimare un condomino all'impugnativa, segno evidente, questo, che il potere gli è dato soltanto per la tutela del suo interesse particolare e non di un interesse oggettivo alla legittimità delle delibere condominiali; è, pertanto, d'ordine pubblico l'esigenza che non venga tolto al condomino il potere di impugnare la delibera assembleare, ma nessun carattere pubblico rivestono gli interessi a tutela dei quali l'impugnazione è data.

In quest'ordine di concetti, anche di recente, si è statuito che, in tema di impugnazioni delle delibere assembleari, il comma 2 dell'art. 1137 c.c., nel riconoscere ad ogni condomino assente, dissenziente o astenuto la facoltà di ricorrere all'autorità giudiziaria avverso le deliberazioni dell'assemblea, non pone una riserva di competenza assoluta ed esclusiva del giudice ordinario e, quindi, non esclude la compromettibilità in arbitri delle relative controversie, le quali, d'altronde, non rientrano in alcuno dei divieti sanciti dagli articoli 806 e 808 c.p.c. (Cass. civ., sez. II, 15 dicembre 2020, n. 28508; sull'abbrivio di Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 1986, n. 73).

Il rispetto dei termini di decadenza

I risultati ermeneutici raggiunti permettono di concludere, dunque, nel senso che l'art. 1137, comma 2, c.c., da un lato, concepisce il diritto soggettivo del condomino quale facultas agendi a tutela di interessi direttamente protetti dall'ordinamento giuridico, e, dall'altro, non esclude affatto la compromettibilità in arbitri delle controversie relative alle impugnative di delibere assembleari, conseguendone la legittimità della norma del regolamento condominiale che preveda una clausola compromissoria in tal senso e l'obbligo vincolante di chiedere la tutela all'organo arbitrale designato come competente.

Restano da risolvere, tuttavia, due ordini di problemi: il primo relativo alla compatibilità del deferimento agli arbitri rispetto al termine di decadenza di 30 giorni per proporre l'impugnazione della delibera contemplato dall'art. 1137, comma 2, c.c., ed il secondo relativo al potere di sospensione dell'efficacia del provvedimento condominiale impugnato previsto dal comma 3 del predetto disposto.

In ordine alla prima questione - che, però, non si pone per le delibere nulle a cui, per giurisprudenza costante, non si applica l'art. 1137 cit. - si obietta che le stabilite modalità di costituzione del collegio arbitrale presuppongono (anche) un'iniziativa della parte contro la quale è proposto il ricorso per impugnazione (il condominio), che potrebbe in ipotesi essere maliziosamente omessa, con conseguente decorrenza infruttuosa del termine nonostante la diligenza dell'interessato (il condomino).

Di solito, poi, la clausola compromissoria non prefigge il nome o i nomi degli arbitri, ma pone le norme per la loro scelta; se non ci si accorda sulla persona, occorre ricorrere al giudice; inoltre, anche nel caso di nomina, il designato deve comunicare la propria accettazione; nell'ipotesi, infine, che la clausola contenga già il nominativo dell'arbitro, quest'ultimo potrebbe essere morto o avere un qualsiasi altro impedimento.

Si è replicato che il predetto termine di decadenza non è reso né impossibile né incompatibile dal procedimento arbitrale sostituito a quello ordinario, ed all'inconveniente sopra delineato si può ovviare mediante il richiamo dell'art. 810, comma 2, c.p.c.: quando la parte che vi è tenuta, non provveda nel termine stabilito a comunicare le generalità dell'arbitro nominato, l'altra parte può chiedere ed ottenere che la nomina sia fatta, in sua vece, dal presidente del competente tribunale, superando così l'eventuale inerzia del condominio (Cass. civ., sez. II, 5 giugno 1984, n. 3406).

Quanto alle difficoltà operative afferenti alla lentezza dei preliminari del procedimento arbitrale, si è, tuttavia, rilevato che, per interrompere il termine di decadenza di 30 giorni, non sarebbe sufficiente aver iniziato le pratiche per la nomina dell'arbitro, in quanto l'art. 1137 c.c., nel concedere al condomino dissenziente la facoltà di adire l'autorità giudiziaria, si riferisce al «ricorso di merito», e non certo al ricorso al giudice perché nomini un arbitro al quale proporre il ricorso di merito; dunque, non può esservi, in presenza di un termine perentorio, che un'unica garanzia: quella di trovar sempre pronto un organo, quale l'autorità giudiziaria, e non una persona fisica, che riceva il ricorso.

L'ammissibilità dell'inibitoria

In ordine alla seconda questione, si eccepisce che gli arbitri, essendo loro preclusa l'adozione di misure cautelari ex art. 818, comma 1, c.p.c., non possono emettere l'inibitoria nei confronti della delibera impugnata - tra l'altro, nessuna sanzione potrebbe colpire gli eventuali trasgressori - riservando così al condomino interessato una tutela meno intensa ed efficiente di quella garantita dall'art. 1137 c.c., in quanto non potrebbe evitare con tempestività i danni eventualmente derivanti dall'esecuzione della delibera viziata (solo la sospensione della delibera da parte del giudice riveste, infatti, un effetto vincolante per tutti i condomini e anche contro la loro volontà di costoro, ed il relativo ordine può essere fatto rispettare con ogni mezzo, fino all'intervento della forza pubblica).

Sul punto, tuttavia, si era osservato (Cass. civ., sez. II, 19 settembre 1968, n. 2960) che la sospensione del provvedimento deliberato dall'assemblea poteva, in ogni caso, essere ordinato dal giudice ordinario ai sensi dell'art. 700 c.p.c., ma questa affermazione aveva dato àdito a perplessità, perché - a prescindere dall'opinabile assimilazione dei presupposti della sospensione con quelli del provvedimento d'urgenza - si è posto in rilievo come la struttura del procedimentod'urgenza mal si attagli alla richiesta di sospensiva, considerata, se non altro, la difficoltà di individuare l'oggetto del giudizio di merito da iniziarsi entro il termine perentorio fissato dal giudice, oggetto che, peraltro, non potrebbe essere rappresentato dal riscontro dei presupposti del provvedimento.

Né sembra logico identificare « il giudizio di merito » con quello arbitrale, sia perché la sospensione presuppone l'avvenuta proposizione dell'impugnazione - v., per tutte, Cass. civ., sez. II, 22 ottobre 1959, n. 3033, secondo cui «l'impugnativa della delibera assembleare costituisce l'antecedente logico necessario e il presupposto giuridico della sospensione» - sia perché, in relazione ai principi generali della materia, deve escludersi che gli arbitri possano porre nel nulla i provvedimenti dell'autorità giudiziaria ordinaria.

Tali difficoltà hanno indotto a prospettare la tesi che, con l'accettazione della clausola compromissoria, il condomino abbia in sostanza rinunciato anche alla facoltà di ottenere la sospensione dell'efficacia della delibera impugnata.

Comunque, oggi la fattispecie risulta espressamente disciplinata dall'art. 669-quinquies c.p.c., per cui, se la controversia è compromessa in arbitri, il provvedimento cautelare in questione potrà essere richiesto « al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito » dell'impugnazione (d'altronde, la l. n. 220/2012, innovando l'art. 1137 c.c., stabilisce al comma 4, che la sospensione de qua è disciplinata, di regola, dal procedimento cautelare uniforme di cui agli artt. 669-bis ss. c.p.c.).

Attualmente, a seguito della c.d. riforma Cartabia (d.lgs. n. 149/2022), contrariamente rispetto al passato, l'art. 818 c.p.c. rafforza i poteri degli arbitri, consentendo loro di emettere provvedimenti cautelari; tale potere deve essere attribuito agli stessi arbitri dall'espressa volontà delle parti, manifestata nella convenzione di arbitrato o in atto successivo, comunque anteriore all'instaurazione dell'arbitrato; contro la misura cautelare è ammesso reclamo davanti alla Corte d'appello, per motivi di nullità previsti dall'art. 829 c.p.c..

Casistica

CASISTICA

Disponibilità dei diritti soggettivi

È ammissibile e vincolante la clausola compromissoria contenuta in un regolamento condominiale che deroghi a quanto stabilito nell'art. 1137 c.c. in quanto è da ritenere che anche la materia delle delibere condominiali, siccome attinente a diritti soggettivi patrimoniali disponibili, sia devolvibile ad arbitri (Trib. Milano 6 aprile 1992).

Regolamento di condominio La clausola compromissoria per arbitrato irrituale contenuta in un regolamento di condominio, la quale stabilisca che siano definite dagli arbitri le controversie riguardanti l'interpretazione e la qualificazione del regolamento che possano sorgere tra l'amministratore ed i singoli condomini, deve essere interpretata, in mancanza di volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte le cause in cui il regolamento può rappresentare un fatto costitutivo della pretesa o comunque aventi causae petendi connesse con l'operatività del regolamento stesso, il quale, in senso proprio, è l'atto di autorganizzazione a contenuto tipico normativo approvato dall'assemblea con la maggioranza stabilita dall'art. 1136, comma 2, c.c. e contenente le norme circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell'edificio e quelle relative all'amministrazione (Cass. civ., sez. II, 17 marzo 2022, n. 8698).

Interpretazione della clausola compromissoria

L'applicazione della clausola compromissoria contenuta in un regolamento di condominio, secondo la quale qualunque controversia fra i condomini e tra questi e l'amministratore per l'interpretazione e l'esecuzione delle norme di legge e contratto reggenti il condominio, ed in genere riferentesi comunque alla costituzione, esercizio ed eventuale scioglimento del condominio, sarebbe stata devoluta al giudizio inappellabile di un collegio arbitrale, non può essere estesa a questioni che nei rapporti condominiali possono avere trovato la loro occasione, ma che dipendono dall'interpretazione di norme generali che tutelano diritti di carattere assoluto, la cui fonte è estranea alla disciplina del condominio (Trib. Milano 28 dicembre 1989).

Tentativo di composizione amichevole

La clausola del regolamento di condominio che, per i casi di contrasto fra condomini, prevede l'obbligo di esperire il tentativo di amichevole composizione della lite, non integra una clausola compromissoria, sicché da essa non può derivare alcuna preclusione all'esercizio dell'azione giudiziaria (Trib. Cagliari 21 ottobre 1985).

Riferimenti

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Briguglio, Problemi e particolarità della scelta arbitrale per le liti del condominio, in Riv. arbitrato, 2000, 391;

Celeste, La composizione arbitrale del contenzioso condominiale, in Riv. giur. edil., 1999, II, 189;

Ditta, L'arbitrato nelle controversie condominiali e locatizie, in Nuova giur. civ. comm., 1997, II, 77;

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Ditta, Arbitrato e soluzione stragiudiziale delle controversie condominiali, in Arch. loc. e cond., 1995, 277;

Crescenzi, Le controversie condominiali, Padova, 1991, 144;

Triola, Regolamento di condominio e clausola compromissoria, in Giust. civ., 1986, I, 1372;

Ramella, Clausola compromissoria nel regolamento condominiale, in Giur. it., 1985, I, 2, 7;

Ceniccola, Condominio e clausola compromissoria, in Vita notar., 1985, 599;

Longo, Clausola compromissoria e impugnative di delibere condominiali, in Giur. compl. cass. civ., 1953, 280.

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