Attività che incidono negativamente sulle destinazioni d'uso delle parti comuni dell'edificio e possibili rimedi

26 Settembre 2017

L'attuale testo dell'art. 1117-quater c.c. prevede l'ipotesi di «attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni», stabilendo che «l'amministratore o i condomini, anche singolarmente» - non contemplando più, come prima, il conduttore - possano «diffidare l'esecutore e, in caso di persistenza della violazione della destinazione nonostante la diffida, possano «chiedere la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie»; di questa norma, si tenterà un esame sia analitico che sistematico, ponendola anche in correlazione con il precedente art. 1117-ter, che prevede quando e come l'assemblea possa adottare tale iniziativa modificatrice.
Il quadro normativo

Un'interessante new entry, introdotta dalla l. n. 220/2012 all'interno del tessuto della normativa condominiale, è rappresentata dall'art. 1117-quater c.c. (rubricato «tutela delle destinazioni d'uso»), il quale consta di un solo capoverso, che recita: «In caso di attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni, l'amministratore o i condomini, anche singolarmente, possono diffidare l'esecutore e possono chiedere la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie. L'assemblea delibera in merito alla cessazione di tali attività con la maggioranza prevista dal secondo comma dell'articolo 1136».

Il testo licenziato dal Senato nella seduta del 26 gennaio 2011 contemplava anche le attività contrarie alle destinazioni d'uso delle «unità immobiliari di proprietà individuale», scandendo, altresì, le particolari modalità di esercizio di tale tutela - sollecitazione da parte del condomino, diffida all'amministratore, convocazione dell'assemblea senza indugio, ordine di cessazione, rimessione in pristino e risarcimento dei danni, pagamento di una multa - ma, pure in questa versione ridotta, volta alla difesa delle sole parti comuni dell'edificio, ci si muove in un'ottica sicuramente più pregnante di quella delineata dall'art. 1102 c.c. (norma, quest'ultima, tutt'ora applicabile in materia condominiale, in forza dell'immutato rinvio di cui all'art. 1139 c.c.).

I presupposti per l'operatività della norma

I presupposti per l'operatività della suddetta norma, dunque, sono che l'attività - proveniente, di regola, da un condomino - «incida negativamente e in modo sostanziale» della destinazione d'uso delle parti comuni, intendendo riferirsi a condotte non saltuarie o episodiche, a pregiudizi non lievi, ma apprezzabili e percepibili, nonché ad un peggioramento rilevante, concreto ed effettivo, e non meramente potenziale (si pensi al parcheggio di una roulotte nella rampa di accesso ai garage, e non al gioco del pallone da parte dei bambini nel giardinetto condominiale); al contrario, la suddetta attività dovrebbe considerarsi permessa in quanto rientrante nelle facoltà del singolo ai sensi dell'art. 1102 c.c., che menziona, appunto, il duplice limite di non alterare la destinazione della cosa comune e di rispettare il pari uso degli altri condomini (su quest'ultimo, ex multis, v. Cass. civ., sez. II, 3 agosto 2012, n. 14107; Cass. civ., sez. II, 9 giugno 2010, n. 13874; Cass. civ., sez. II, 16 giugno 2005, n. 12873).

L'adozione del vocabolo «sostanziale» sembra alludere al piano degli interessi, intendendo rafforzare la necessità che la valutazione da parte dell'assemblea prevista dall'art. 1117-quater c.c. riguardi proprio la compatibilità dell'iniziativa individuale con le «esigenze di interesse condominiale» espressamente menzionate dal precedente art. 1117-ter c.c.

In entrambe le ipotesi in esame, la delibera condominiale ha come finalità di valutare la conformità della modificazione della destinazione d'uso all'interesse condominiale: nel primo caso, in prospettiva ed in vista della programmata modificazione della destinazione d'uso, e, nel secondo, in funzione di controllo e di (eventuale) conservazione della modificazione già intervenuta.

A ben vedere, il capoverso utilizza per due volte il verbo «possono», quasi a rimarcare la facoltatività dell'iniziativa in capo al singolo partecipante ed all'amministratore, ma è incerto se trattasi di poteri alternativi esercitabili da parte dell'uno o dell'altro, e se si possa ammettere la possibilità di un loro utilizzo concorrente.

È opportuno, quindi, analizzare partitamente tali facoltà.

La reazione del condomino pregiudicato

Per quanto concerne il condomino, la previsione appare superflua, salvo aver precisato che l'iniziativa spetta al partecipante - probabilmente, quello maggiormente leso dall'attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni - «anche singolarmente», ossia la possibilità di diffidare (in maniera ferma e risoluta) il contravventore e, in caso di inottemperanza all'invito a desistere dalla condotta illecita (ed a rimettere in pristino la situazione alterata), di sollecitare l'amministratore affinché quest'ultimo convochi l'assemblea per adottare le opportune decisioni (l'inadempimento, da parte dell'amministratore, dell'obbligo di convocare l'assemblea lo espone alla revoca giudiziaria ex art. 1129, comma 12, n. 1, c.c., come «omessa convocazione dell'assemblea … negli altri casi stabiliti dalla legge»).

In altri termini, la norma in commento legittima l'iniziativa di ciascun condomino, indipendentemente dalla sua caratura millesimale, volta, da un lato, ad avvertire l'esecutore in ordine all'illecito in atto e, dall'altro, in caso di inosservanza di quest'ultimo, a farsi promotore, per il tramite dell'amministratore, del coinvolgimento del supremo organo gestorio sulla questione, laddove l'art. 66, comma 1, disp. att. c.c. (testo invariato) subordina quest'ultima evenienza alla sussistenza di determinati requisiti, ossia quando ne è fatta richiesta da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell'edificio.

Ad ogni buon conto, in ordine al riconoscimento delle «azioni giudiziarie» promuovibili dal singolo, il disposto si rivela in linea con la giurisprudenza di vertice, secondo la quale il diritto di ciascun condomino investe la cosa comune nella sua interezza - sia pur con il limite del concorrente diritto altrui - sicché anche un solo condomino può proporre le azioni reali a difesa della proprietà comune, senza, peraltro, che si renda necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i partecipanti (v., tra le altre, Cass., sez. un., 13 novembre 2013, n. 25454; Cass. civ., sez. II, 9 agosto 2010, n. 18485; Cass. civ., sez. II, 22 ottobre 1998, n. 10478; Cass. civ., sez. II, 22 dicembre 1995, n. 13064; Cass. civ., sez. II, 25 giugno 1994, n. 6119).

Sembra, però, che, in forza della legittimazione «concorrente» riconosciuta in capo al condomino, quest'ultimo possa agire comunque in giudizio, ossia anche a fronte di una delibera che, direttamente o indirettamente, non stabilisca la «cessazione» dell'attività modificativa; in quest'ottica, la delibera contraria non sarebbe per lui vincolante, e il magistrato non dovrebbe tener conto, a fronte di una condotta contra legem, dell'opinione della maggioranza dei condomini al riguardo (v. anche appresso).

I poteri/doveri dell'amministratore

Parimenti, l'amministratore può diffidare il condomino contravventore e, in difetto di desistenza da parte di quest'ultimo, convocare l'assemblea al riguardo; anche qui il riferimento ad eventuali «azioni giudiziarie» sembra ultroneo, non rinvenendosi altra chance per l'amministratore - che non può ovviamente farsi giustizia da sé - di far cessare il comportamento del trasgressore se non quello di ricorrere al magistrato.

In precedenza, nessuno dubitava, però, che rientrasse nelle attribuzioni dell'amministratore il potere di «disciplinare l'uso delle cose comuni … in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a tutti i condomini» ai sensi dell'art. 1130, n. 2), c.c., nonché di «compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio», in forza del n. 4) dello stesso disposto anche mediante azioni cautelari e d'urgenza (v., ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 24 settembre 2013, n. 21826; Cass. civ., sez. II, 1 ottobre 2008, n. 24391; Cass. civ., sez. II, 27 luglio 2007, n. 16631; Cass. civ., sez. II, 15 maggio 2002, n. 7063; Cass. civ., sez. II, 12 ottobre 2000, n. 13611).

Pertanto, risulta penalizzante la previsione, contenuta alla fine del citato art. 1117-quater, secondo cui «l'assemblea delibera in merito alla cessazione di tali attività con la maggioranza prevista dal secondo comma dell'articolo 1136», laddove tale decisione rientra, di regola, negli affari di ordinaria amministrazione, tanto più che potrebbe trattarsi semplicemente di far osservare una disposizione del regolamento che contempli una determinata destinazione d'uso della cosa comune, per la quale addirittura l'amministratore può agire in giudizio senza alcuna previa autorizzazione assembleare, rientrando, tra i suoi compiti delineati dall'art. 1130, n. 1), c.c., anche quello di «curare l'osservanza del regolamento» (v., di recente, Cass. civ., sez. II, 23 gennaio 2014, n. 1451; cui adde Cass. civ., sez. II, 22 giugno 2011, n. 13689, la quale ha fatto rientrare nei poteri dell'amministratore, anche ai sensi dell'art. 1133 c.c., l'invito ad un condomino, mediante lettera raccomandata con determinazione di un termine per l'adempimento, al rispetto del divieto regolamentare; Cass. civ., sez. II, 25 ottobre 2010, n. 21841; Cass. civ., sez. II, 26 giugno 2006, n. 14735, che ha ricompreso nelle facoltà del medesimo amministratore anche quella di irrogare sanzioni pecuniarie ex art. 70 disp. att. c.c. ai condomini responsabili delle violazioni del regolamento, se quest'ultimo ne preveda la possibilità).

Può opinarsi, al riguardo, che la necessità del «passaggio assembleare» e, quindi, l'impossibilità per l'amministratore di agire direttamente in giudizio, siano giustificati perché trattasi di attività che incidono «negativamente ed in modo sostanziale» sulle destinazioni d'uso delle parti comuni dell'edificio, nella speranza che, accertato il disturbo pregiudizievole alla maggioranza dei condomini, il condomino autore della violazione possa convincersi a porre rimedio, evitando un'azione giudiziaria nei suoi confronti, laddove, invece, si concretizzino in attività saltuarie o poco pregiudizievoli non c'è bisogno che l'assemblea deliberi in merito alla cessazione; anche se sarebbe logico pensare il contrario, ossia che, quando la condotta è più grave e il trasgressore rimanga inerte, è consentito all'amministratore di rivolgersi sùbito e direttamente al magistrato, mentre, allorché è più lieve, ci si possa permettere il lusso di invocare il parere dell'assemblea (comunque, alla luce delle recenti modifiche introdotte dal d.l. n. 145/2013, convertito nella l. n. 9/2014, per le infrazioni al regolamento, l'amministratore deve sempre rivolgersi all'assemblea per irrogare le sanzioni pecuniarie di cui all'art. 70 disp. att. c.c., prevedendosi sempre il quorum deliberativo di cui all'art. 1136, comma 2, c.c.).

Il possibile placet dell'assemblea

Fatto sta che, sull'eventuale azione giudiziaria, la norma de qua stabilisce che «l'assemblea delibera in merito», correndosi il rischio concreto che l'assemblea, con la maggioranza correlata alla metà del valore dell'edificio, avalli la condotta (asseritamente abusiva o, comunque, contra ius) del singolo che incide negativamente ed in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni dell'edificio.

Si finisce, di fatto, per mutare quella destinazione d'uso delle stesse parti che, in forza del disposto del precedente art. 1117-ter, era possibile approvare, da parte della stessa compagine condominiale, solo con la maggioranza dei 4/5 del valore dell'edificio e con un iter assembleare assai rigoroso (affissione non meno di 30 giorni, avviso preventivo di 20 giorni, indicazioni dell'oggetto della modificazione, ecc.).

In buona sostanza, mediante l'iniziativa eversiva del singolo, complice la maggioranza assembleare, si realizza lo stesso risultato (ossia, la modificazione della destinazione d'uso delle parti comuni dell'edificio) che, difficilmente, la stessa assemblea riuscirebbe a raggiungere.

Di certo, un'eventuale decisione negativa farebbe venire meno la legittimazione processuale attiva di quell'amministratore che abbia optato, di sua iniziativa, per la via giudiziaria, ma non quella del condomino, che rimane concorrente, trovando, per quest'ultimo, applicazione quel principio per cui, nel condominio di edifici, che costituisce un ente di gestione, l'esistenza dell'organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione, né quindi del potere di intervenire nel giudizio in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall'amministratore e di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti dell'amministratore stesso che vi abbia fatto acquiescenza (Cass. civ., sez. II, 3 luglio 1998, n. 6480; Cass. civ., sez. II, 29 agosto 1997, n. 8257; Cass. civ., sez. II, 12 marzo 1994, n. 2393).

In concreto, non sembra che l'art. 1117-quater c.c. abbia configurato una sorta di filtro assembleare per il condomino, nel senso che, per l'azione di quest'ultimo, sia pregiudiziale la valutazione della maggioranza condominiale in ordine all'incidenza pregiudizievole sulla destinazione d'uso delle parti comuni; l'eventuale delibera positiva, fallito ogni tentativo di risoluzione bonaria della vicenda, autorizza sicuramente l'amministratore ad agire giudizialmente, ma quella negativa - o parimenti il mancato raggiungimento del prescritto quorum - non preclude al singolo di rivolgersi al magistrato per far cessare l'attività asseritamente molesta messa in atto dall'esecutore (già sordo a qualsiasi monito).

Nulla esclude che quest'ultimo, oltre a non adeguarsi alle diffide (del condomino o dell'amministratore) ed a rimanere insensibile ai richiami all'ordine (da parte dell'assemblea), impugni addirittura l'eventuale delibera, sostenendo che il consesso assembleare avrebbe errato nel ritenere lesiva la sua condotta, ma è ovvio che così si espone ad una probabile domanda riconvenzionale del condominio, che invochi un giudizio sull'operato indisciplinato del singolo e, conseguentemente, un ordine di inibizione.

Comunque, anche se non più previsto espressamente - essendo stato soppresso il relativo emendamento nella versione definitiva dell'art. 1117-quater c.c. - non è esclusa la possibilità, sia per il condomino sia per l'amministratore, di ricorrere al giudice per ottenere un provvedimento d'urgenza ai sensi dell'art. 700 c.p.c., sempre che ne ricorrano i presupposti del pregiudizio imminente ed irreparabile connesso alla condotta del trasgressore, come non è escluso che il giudice, ordinando la cessazione dell'attività, condanni il responsabile alla riduzione nello status quo ante ed all'eventuale risarcimento dei danni.

In conclusione

A questo punto, è difficile trarre delle conclusioni, perché la nuova norma non è di agevole lettura e - a quanto consta - non si rinvengono ancora pronunce edite che se ne siano occupate ex professo: tocca, quindi, all'interprete ricostruire la fattispecie, anche per dare un senso ad un ordito normativo che, altrimenti, costituirebbe un'inutile duplicazione di disposizioni precedenti, ma, al contempo, non si deve correre il rischio di interpretazioni troppo «creative», mettendo in bocca al Legislatore cose alle quali non aveva mai pensato.

Sembrano, però, confermati i due momenti centrali della Riforma: per un verso, il rilievo delle esigenze di interesse condominiale e, per altro verso, il ruolo dell'assemblea.

Le prime hanno carattere composito e non possono considerarsi una sommatoria dell'interesse dei singoli condomini, né essere confinate su un piano meramente patrimoniale; piuttosto, deve essere ricercato volta per volta un delicato equilibrio tra istanze collettive e posizioni individuali che, però, non vanno sistematicamente sacrificate.

A sua volta, l'assemblea si vede attribuita il ruolo, rispettivamente, di artefice e interprete ultimo delle suddette esigenze di interesse condominiale, che la destinazione d'uso (o la sua modificazione) è chiamata a realizzare.

Ciò lo si evince chiaramente dall'art. 1117-ter c.c., ma anche indirettamente dall'art. 1117-quater c.c.: d'altronde, solo in questa prospettiva può spiegarsi la necessità di una delibera assembleare - provocata dall'impulso del singolo condomino o dell'amministratore - per contrastare l'iniziativa del singolo «esecutore» che abbia posto in essere attività che tendano non solo ad impedire la realizzazione di esigenze di interesse condominiale, ma ne propongano una declinazione diversa da quella affermatasi in virtù della delibera modificativa presa ai sensi del precedente art. 1117-ter.

Così, si rimette alla maggioranza una valutazione il cui esito, ove si risolva in termini di incidenza negativa e sostanziale sulla pregressa destinazione d'uso della parte comune e, quindi, di contrasto con la soddisfazione di esigenze di interesse condominiale, è tale da giustificarne la richiesta, anche tramite azione giudiziaria, di cessazione.

E si giustifica anche la possibilità che la stessa assemblea deliberi, invece, di non perseguire l'iniziativa dell'esecutore, perché sarà ancora una volta la considerazione dell'interesse condominiale a condurre ad un giudizio di compatibilità con quello del comportamento del singolo.

Pertanto, in entrambe le ipotesi, le esigenze di interesse condominiale, passate al vaglio ex ante e ex post del consesso assembleare, fungono da parametro per giudicare, rispettivamente, la procedibilità e la legittimità della modificazione della destinazione d'uso.

Guida all'approfondimento

Amagliani, La riforma del condominio negli edifici ed il rilievo delle destinazioni d'uso, in Rass. dir. civ., 2015, 1112;

Pezzani, Azioni a tutela della proprietà comune e litisconsorzio necessario tra comproprietari, in Riv. dir. proc., 2014, 1568;

Mirenda, I poteri dell'amministratore in ordine all'uso delle parti comuni, in Rass. loc. e cond., 2000, 380;

Cimatti, Il potere-dovere dell'amministratore per la salvaguardia dei beni comuni, in Immob. & diritto, 2009, fasc. 5, 29;

De Tilla, Le azioni giudiziarie che il singolo condomino può proporre per la tutela del bene comune, in Rass. loc. e cond., 1994, 235.

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