La frode fiscale nell'ordinamento europeo e nazionale: la deducibilità dei componenti negativi nel reddito d'impresa
19 Ottobre 2017
Frode fiscale. La giurisprudenza Europea
Il lungo e tormentato percorso sulla frode fiscale, ricomprendendo in essa le ipotesi di fatture sia “oggettivamente che soggettivamente inesistenti”, sembra giunto al termine a seguito del concorde orientamento della Corte di Giustizia Europea e della Suprema Corte di Cassazione.
Costituisce ius receptum, nell'orientamento della Corte di Giustizia Europea (CGUE, sez. III, 21 giugno 2012 C-142/11), che il diritto a detrazione rappresenta parte integrante del meccanismo dell'IVA e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni.
In particolare, tale diritto va esercitato immediatamente per tutte le imposte che hanno gravato le operazioni effettuate a monte. Per effetto della neutralità dell'imposizione fiscale per tutte le attività economiche indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività, purché le stesse siano, in linea di principio, di per sé soggette ad IVA, è irrilevante, ai fini del diritto del soggetto passivo di detrarre l'IVA pagata a monte, stabilire se l'IVA dovuta sulle operazioni di vendita precedenti o successive sia stata versata o meno.
Tuttavia, nell'obiettivo di lotta contro eventuali evasioni, elusioni o abusi, la Corte ha pure chiarito che i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme dell'Unione. È compito delle autorità o dei giudici nazionali, quindi, negare il beneficio del diritto a detrazione ove sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che lo stesso diritto è invocato fraudolentemente o abusivamente. Detrazione IVA
Di conseguenza, è possibile negare al soggetto passivo il beneficio del diritto a detrazione solamente sulla base della dimostrazione, alla luce di elementi oggettivi, che il soggetto passivo, al quale sono stati forniti i beni o i servizi posti a fondamento del diritto a detrazione, sapeva o avrebbe dovuto sapere che tale operazione si iscriveva in una evasione commessa dal fornitore o da altro componente a monte (sentenza Kittel – raccolta Recycling).
Infatti, un soggetto passivo che sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, partecipava ad un'operazione che si iscriveva in un'evasione dell'IVA deve essere considerato, ai fini della Direttiva n. 2006/112, partecipante a tale evasione, indipendentemente dalla circostanza che egli tragga o meno beneficio dalla rivendita dei beni o dall'utilizzo dei servizi nell'ambito delle operazioni soggette ad imposte da lui effettuate.
Dato che il diniego alla detrazione rappresenta un'eccezione all'applicazione del principio fondamentale del diritto stesso, spetta all'A.F. dimostrare adeguatamente gli elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l'operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in una evasione commessa dal fornitore o da altro operatore intervenuta a monte nella catena. Secondo la giurisprudenza della Corte Europea, gli operatori che adottano tutte le misure che si possono loro ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che le operazioni non facciano parte di un'evasione, devono poter fare affidamento sulla liceità di tali operazioni senza rischiare di perdere il proprio diritto alla detrazione dell'IVA pagata a monte.
Gli Stati membri, poi, possono stabilire altri obblighi, rispetto a quelli previsti dalla direttiva, che ritengano necessari ad assicurare l'esatta riscossione dell'IVA e ad evitare l'evasione, senza però mettere sistematicamente in discussione il diritto a detrazione dell'IVA e, quindi, la sua neutralità.
Invero, l'istituzione di un sistema di responsabilità oggettiva andrebbe al di là di quanto necessario per garantire i diritti dell'erario (Sentenza 21 febbraio 2008 Netto Supermarket C-271/06).
Al di là della dovuta diligenza con riferimento al fatto generatore dell'imposta, tuttavia l'A.F. non può esigere, in maniera generale, da un lato che il soggetto passivo verifichi che l'emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi abbia la qualità di soggetto passivo, disponga dei beni di cui trattasi, (sia in grado di fornirli) e abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell'IVA, e, dall'altro lato che il suddetto soggetto passivo disponga di documenti a tale riguardo. Spetta, infatti, alle autorità fiscali, in linea di principio, effettuare i controlli necessari presso i soggetti passivi al fine di rilevare irregolarità ed evasioni in materia IVA, nonché infliggere sanzioni al soggetto passivo che ha commesso irregolarità o evasioni (Sentenza 21 giugno 2012 – n. C-142/11). La giurisprudenza nazionale
Nonostante l'orientamento della Corte di Giustizia Europea, la S.C. (Cass. civ., n. 18009/2012), ha operato, in materia, un'inversione dell'onere della prova in punto di conoscenza, da parte del soggetto passivo, della partecipazione ad un'operazione fraudolenta e, in particolare, di dimostrazione, da parte sua, di almeno una di queste due circostanze:“di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto oppure, nonostante il possesso di capacità cognitiva adeguata all'attività professionalmente svolta, in occasione dell'operazione contestata non sia in grado di conoscere il carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all'operazione” (Cass. civ., n. 8132/2011).
Da ultimo (Cass. civ., n. 16338/2014), però, si è allineata alla giurisprudenza europea, affermando che, nelle ipotesi di fatture ritenute relative ad operazioni inesistenti (in tale nozione dovendo essere ricondotte le ipotesi di mancanza assoluta dell'operazione fatturata – inesistenza oggettiva –, ma anche ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, ivi compresa l'inesistenza soggettiva, nella quale, pur risultando i beni entrati nella disponibilità patrimoniale dell'impresa utilizzatrice delle fatture che ha versato regolarmente il corrispettivo, venga accertato che uno o entrambi i soggetti del rapporto documentato dalla fattura siano falsi), non spetta al contribuente provare che l'operazione è effettiva, ma spetta all'A.F., che adduce la falsità del documento, provare che l'operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è stata mai posta in essere.
Ma tale prova, aggiunge la S.C.,non può ritenersi assolta mediante indizi che determinino una mera “verosimiglianza” e non anche una prova presuntiva della simulazione assoluta dell'operazione (cfr. Cass. civ., n. 7896/2016: conf. n. 9108/2012), restando affidato, poi, ai poteri del giudice il giudizio circa l'idoneità degli elementi presuntivi a dimostrare i fatti o situazioni sostanziali, secondo il criterio del “il quod ... accidit” (Cass. civ., n. 26022/2011).
Allo stato, quindi, alla luce dei principi sia della Corte di Giustizia Europea che della Corte di legittimità, si può sostenere che “grava sull'A.F. l'onere della prova dei fatti costitutivi dell'accertamento. Solo ove l'A.F. fornisca validi elementi o una prova sia pur presuntiva della frode fiscale passa sul contribuente l'onere di dimostrare l'effettiva esistenza delle operazioni contestate”.
Frodi carosello
La Corte di Giustizia Europea, con una sentenza lucida nell'esposizione e convincente nel contenuto (causa C-277/14 del 22/10/2015), è tornata a pronunciarsi sul tema delle «frodi carosello» caratterizzato dal dilemma: lotta ad una forma particolarmente odiosa di lucro basata sull'evasione fiscale o tutela dell'imprenditore onesto e inconsapevole della frode dell'acquirente.
Ha ribadito, con chiarezza, che non è compito dell'imprenditore che ha ricevuto e pagato una fattura regolare, corrispondente alla merce consegnatagli, di svolgere indagini sulla struttura, sull'organizzazione e sugli adempimenti tributari del cedente, salvo che non siano stati portati a sua conoscenza elementi di grave sospetto sull'esistenza della frode fiscale.
Tale indirizzo è stato, poi, rifuso alla Corte di legittimità (sent. n. 6864/2016), che ha indotto non solo l'A.F. a prevenire contestabilità delle “frodi carosello”, ma a conciliare il proprio indirizzo con quello della giurisprudenza europea affermando che l'accertamento è nullo quando l'A.F. non prova la consapevolezza dell'interposizione fittizia, non essendo sufficiente dimostrare che ad emettere la fattura è stata una cartiera. L'A.F. ha l'onere di provare, in base ad elementi oggettivi anche presuntivi, che il cessionario o committente si trovasse di fronte a circostanze indizianti dell'esistenza di irregolarità nell'operazione.
Cosicché costituisce principio ricevuto che l'imposta IVA è indetraibile quando il soggetto destinatario della fattura «sapeva o avrebbe dovuto sapere» che l'operazione invocata a detrazione si inscriveva in un caso di evasione commessa dal fornitore e che è onere dell'A.F. di dimostrare adeguatamente che sussistono tali elementi oggettivi.
Nella distinzione tra costo sostenuto e atto d'impresa, definito come vicenda patrimoniale acquisitiva di un vantaggio cui è correlato un esborso, il principio di inerenza del reddito d'impresa non va ricercato in una norma del TUIR, ma è da ritenersi un principio generale insito nella determinazione dello stesso reddito d'impresa (Cass. civ., n. 6548/2012).
In via generale, è facoltà dell'A.F., in presenza di elementi segnaletici di distorsione, procedere alla rettifica di ricavi e di costi contabilizzati e dichiarati dal contribuente qualora gli stessi rappresentino il risultato di scelte gestionali affette da intenti evasivi o elusivi.
La scopo della previsione di cui all'art. 109 – comma 5° – TUIR non è quello di disciplinare l'inerenza, ma il diverso e specifico problema della deducibilità o indeducibilità dei componenti negativi di reddito in presenza di ricavi e compensi non compatibili nella determinazione da reddito d'impresa. Invero, non può certo negarsi che la devianza dal valore medio-normale possa essere indizio di occultamento di materia imponibile o sovraesposizione di costi fittizi in dichiarazione.
In tali ipotesi la reazione dell'ordinamento, considerando la discrepanza del valore di mercato quale elemento di prova per evasione/simulazione ovvero per contrastare condotte elusive, può dirsi pienamente legittima (rectius: doverosa).
Mentre il giudizio di “inerenza”, che non attiene alla quantificazione del costo ma alla qualità delle componenti reddituali, concerne il rapporto logico tra l'atto d'impresa ed il fine dell'attività svolta, il giudizio di “congruità” ha ad oggetto il diverso rapporto tra l'atto acquisitivo di un diritto o di un vantaggio e la decurtazione allo stesso sottesa: giudizio che esprime il nesso tra atto inerente e la relativa diminuzione patrimoniale, in termini di proporzionalità del quantum corrisposto in rapporto al vantaggio conseguito.
Invero, correttamente identificando il giudizio di congruità, quale giudizio che esprime il nesso tra atto inerente e la relativa diminuzione patrimoniale in termini di proporzionalità del quantum corrisposto in rapporto al vantaggio conseguito, se ne comprende appieno la natura quantitativa e, conseguentemente, la non riconducibilità entro il giudizio di inerenza.
In altri termini, la sproporzione, nel senso di devianza dai valori medi-normali, tra la decurtazione patrimoniale e il vantaggio conseguito, può assumere valore segnaletico di un rapporto dissimulato che, divenendo elemento indiziario dell'esistenza di un diverso rapporto, dischiude un diverso profilo d'indagine e riverbera anche effetti sotto il profilo degli oneri probatori delle parti con possibilità di prova, anche presuntiva, a carico dell'A.F.. Onere della prova
La verifica, poi, della sussistenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza delle presunzioni è una valutazione che non può avvenire in maniera aprioristica ed astratta, trattandosi di una situazione di fatto da risolversi caso per caso. Tra l'Ufficio che disconosce il costo perché non documentato ed il contribuente che ne assume l'effettivo sostenimento, invero, l'onere della prova va a carico di quest'ultimo perché ne è (o dovrebbe essere) il beneficiario.
Secondo l'orientamento consolidato della Corte di legittimità, l'A.F. non deve ammettere in deduzione i componenti negativi di reddito di cui il contribuente non abbia offerto la prova documentale nel procedimento. In particolare, in base all'obbligo di conservazione delle scritture contabili, si può affermare che, oltre a dover annotare correttamente il costo in contabilità, quest'ultimo dovrà essere in grado, a posteriori, di dimostrare l'effettivo sostenimento e l'ammontare registrato. Talché, in assenza di contraddittorio endoprocedimentale e senza alcuna richiesta di decurtazione da parte dell'A.F., il recupero dei costi, traducendosi in un difetto di motivazione dell'atto, determinerà l'annullamento dello stesso.
In sostanza, se il costo è registrato e risulta provato documentalmente, l'Ufficio è chiamato a motivare e provare il disconoscimento dello stesso, mentre nessuna prova è tenuto a fornire quando riprende a tassazione un costo non documentato.
Invero, una volta che il contribuente avrà documentato la vicenda patrimoniale correlata al costo, si innesterà una dialettica volta ad accertare il nesso tra l'atto e l'attività le cui caratteristiche ed esiti dipenderanno dalla persuasività delle argomentazioni addotte.
Rileverà a tal fine la natura del diritto/vantaggio ottenuto in rapporto con l'attività esercitata, nel senso che sarà, per il contribuente, più o meno agevole argomentare l'inerenza a secondo se il legame tra il bene o servizio acquistato e il programma imprenditoriale sia più o meno manifesto.
La Suprema Corte di Cassazione, da ultimo (Cass. civ., n. 9466/2017), ha confermato la tesi secondo la quale “spetta al contribuente l'onere della prova dei presupposti di costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d'impresa”.
È il contribuente, quindi, a dover dimostrare l'inerenza dei costi portati in deduzione e la loro diretta imputazione ad attività produttiva di ricavi. Inoltre, nel caso in cui l'A.F. dovesse contestare la congruità dei dati relativi a costi e ricavi esposti in bilancio e nelle dichiarazioni fiscali, sarà anche in questo caso il contribuente a dover dimostrare la coerenza economica dei costi sostenuti dall'impresa sottoposta ad accertamento.
Operando, poi, un distinguo tra “beni normalmente necessari e strumentali” e beni “non necessari e strumentali”, ha posto, soltanto in questa seconda evenienza, l'onere di provare l'inerenza del costo a carico del contribuente (Cass. civ., n. 6548/2012).
Rilevata, comunque, la natura quantitativa del concetto di congruità e, conseguentemente, la non riconducibilità entro il giudizio di inerenza, ne risulta che, mentre la risoluzione della “inerenza” conduce direttamente ad affermare la deducibilità o meno del costo portato in diminuzione dal reddito, la valutazione della “congruità” non riguarda questo profilo costituendo, per contro, il punto di partenza per operare una “riqualificazione” del costo, che deve essere “provato” da parte dell'Ufficio.
Giova ricordare che sempre la S.C., sulla scia di precedente arresto (Cass. civ., n. 16461/2013), ribadendo a carico dell'A.F. l'onere probatorio dell'esistenza del reddito d'impresa, ritiene, invece, che l'onere gravante sul contribuente riguarda la dimostrazione della sussistenza dei presupposti di eventuali esenzioni d'imposta o componenti negativi del reddito.
In applicazione della regola generale di ripartizione dell'onere della prova sui fatti costitutivi dell'accertamento, la S.C. ha introdotto, in materia, un primo fondamentale distinguo, osservando che, sul piano concreto, la prova spetta effettivamente al fisco in caso di accertamento di maggiori componenti positivi, mentre nel caso di componenti negativi basta all'A.F. negare l'esistenza dei presupposti legali per dar corso alla deduzione.
E, in tal caso, la prova dell'esistenza di tali presupposti sul sposta sl contribuente.
Con specifico riguardo ai costi si è posto, poi, il problema di stabilire se la regola ora enunciata sia valida sempre e comunque.
La risposta è nel senso negativo con riguardo proprio al tema dei costi per operazioni inesistenti e sul quale si scontrano tre orientamenti:
1) tesi storico-formalistica: la fattura è documento idoneo alla deduzione, salvo la prova ad opera del fisco della fittizietà; 2) tesi pro-fisco (affermatasi alcuni anni fa): in tema di costi, al fisco basta sostenere la fittizietà, sarà il contribuente a dover provare, in questo caso, l'effettività; 3) tesi intermedia (più recente): sul fisco incombe l'onere di provare la sussistenza di indizi dotati di una certa consistenza, dopodiché l'onere della prova si sposta sul contribuente.
In recenti interventi, la Corte di Cassazione, in materia di IVA, ha esplicitato un ulteriore distinguo a seconda che la fattura sia soggettivamente inesistente ovvero “figlia” di una frode carosello (Cass. civ., n. 15741/2012), ovvero ha riconosciuto la deduzione dei costi nelle operazioni commerciali anche quando le relative fatture non siano state “contabilizzate” dal fornitore (Cass. civ., n. 14902/2012).
Da ultimo (Cass. civ., n. 12650/2017), adottando una linea più dura alla frode fiscale, ha affermato che all'A.F. non serve una prova certa per contestare la fattura falsa e, quindi, negare l'esercizio del diritto a detrazione.
Relativamente alla deducibilità dei costi da reato, con l'entrata in vigore del cd. decreto semplificazioni (D.L. n. 16/2012 conv. in L. n. 44/2012) e delle innovazioni intervenute sulla cd. indeducibilità dei costi da reato, è stata rimodellata la disciplina concernente la deducibilità dei costi e delle spese direttamente utilizzate per compimento di fatti, atti o attività qualificabili come delitto non colposo e la Corte Cost., chiamata a valutare la legittimità costituzionale del comma IV-bis dell'art. 14 della Legge 24 dicembre 1993 n. 537, in riferimento agli artt. 3, 25, 27 – comma 1° -, 53 e 97 Cost., ha riconosciuto valenza generale al novellato quadro normativo (Corte Cost. - n. 190/2012). Il principio di diritto è stato giustificato dalla Consulta in considerazione del generale principio del “favor rei” e della formulazione letterale del terzo comma dell'art. 8 del richiamato D.L. n. 16/2012.
Con tale articolo, infatti, è stata rimodellata la disciplina concernente la deducibilità dei costi, delle spese direttamente utilizzate per il compimento di fatti, atti o attività qualificabili come delitto non colposo. Con i commi 1, 2 e 3 si è inteso sostituire, alla generica e astratta disciplina precedentemente prevista dal comma IV-bis dell'art. 14 della L. n. 537/1993, una regolamentazione più adeguata alle finalità di inibire in modo inequivocabile la deducibilità dei componenti negativi di reddito direttamente connessi al compimento della fattispecie.
Per effetto di tali disposizioni l'indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fatture o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi (operazioni soggettivamente inesistenti); non possono più essere resi indeducibili in capo al destinatario della fattura o del documento in quanto, indipendentemente dalla buona fede o meno di quest'ultimo, il bene o il servizio acquistato a monte non può ritenersi direttamente utilizzato per la consumazione del delitto.
La nozione di fattura soggettivamente inesistente presuppone, infatti, da un lato, l'effettività dell'acquisto ovvero della cessione dei beni da parte dell'utilizzatore e, dall'altro, la simulazione soggettiva, in quanto i beni acquistati provengono da soggetto diverso da quello che, cartolarmente, appare sul documento. Tale costo si realizza all'interno di una regolare e lecita operazione commerciale che costituisce solo occasione per l'emissione delle fatture soggettivamente inesistenti.
Il delitto in esame non si consuma perché il cessionario-committente acquista il bene o servizio inerente alla propria attività commerciale, ma in quanto utilizza una fattura emessa da un soggetto diverso dall'effettivo fornitore all'interno della propria dichiarazione ai fini IVA. Consegue da ciò che l'indeducibilità dei costi rappresentati in documenti emessi da soggetti che, in tutto o in parte, non hanno effettivamente posto in essere l'operazione sarà rilevabile soltanto per effetto delle altre disposizioni normative eventualmente applicabili. Come chiarito nella Circolare dell'A.d.E. n. 32/E del 3 agosto 2012, “poiché l'indeducibilità del costo opera ove vi sia stato un diretto utilizzo dei beni o servizi per il compimento dell'attività delittuosa, ne consegue che i costi relativi all'acquisizione di beni o servizi che, ancorché documentati da fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, non siano stati utilizzati per il compimento di alcun reato sono deducibili ove, ovviamente, ricorrano i requisiti generali di deducibilità dei costi previsti dal T.U. n. 917/1986”.
Per espressa previsione delle disposizioni transitorie e secondo il consolidato orientamento della S.C. (Cass. civ., n. 10167-68-69/12), la nuova disciplina, se più favorevole al contribuente, trova applicazione retroattiva e, quindi, anche in tutti i contenziosi ancora in corso. Conclusioni
Il differente punto di approdo dei due giudizi (inerenza e congruità) dimostra l'impossibilità di sussumere l'incongruità a condizione sostanziale dell'inerenza. Nella struttura del nostro sistema impositivo, la necessità di non smentire la centralità conferita dal legislatore al reddito effettivo non consente di validare qualunque impostazione della giurisprudenza orientata a risolvere la congruità nell'inerenza, in quanto si finirebbe per attribuire rilievo sostanziale al requisito della congruità, conferendo alla stessa un ruolo autonomo nella soluzione dei componenti negativi fiscalmente rilevanti, il che si tradurrebbe, in sostanza, in una generale “normalizzazione” dei componenti negativi sotto il profilo quantitativo. E ciò in spregio al tradizionale modello di determinazione analitica del reddito effettivo, a cui si è informata la riforma tributaria del 1971-1973, che trovava sul versante della dottrina costituzionale esplicito referente nella emergente interpretazione garantista dell'art. 53 Cost.
In linea di principio, il prelievo fiscale deve, in un sistema improntato al principio di effettività, riguardare fatti indice di capacità economica realmente riferibili al contribuente, e non quelli meramente potenziali (medio-normale) che si sarebbero potuti verificare se il contribuente avesse agito in piena rispondenza a criteri di logica economica.
Ebbene, il richiamo operato al concetto di congruità, quale profilo dell'inerenza, comporta che il valore medio-normale, anziché parametro utile ad inferire – assieme ad altri elementi presuntivi – il diverso assetto, diviene esso stesso presupposto sostanziale in un processo di “normalizzazione atecnica del reddito” (nel senso di rappresentare la determinazione più attendibile del reddito effettivo facendo emergere il rapporto dissimulato): da strumento di natura procedimentale ad elemento direttamente incidente sulla determinazione della base imponibile, rischiando, così facendo, di avallare una metodologia di tassazione che, anziché colpire una ricchezza effettiva e misurata secondo canoni oggettivi, ha ad oggetto una capacità economica astratta e putativa. In conclusione, l'opportunità di non aderire acriticamente al percorso argomentativo della giurisprudenza in esame e di considerare, per contro, “congruità ed inerenza” quali concetti distinti, risponde (anche) ad esigenze di carattere sistematico ovvero alla necessità di non legittimare un abbandono dell'imposizione basata su costi e ricavi effettivi, per approdare, in sostanza, ad una fondata su quelli medio-ordinari. |