Nozione di persona estranea nel delitto commesso dall’amministratore e posizione dell’ente

20 Ottobre 2017

Per persona estranea al reato, il cui patrimonio non può essere interessato da un provvedimento di sequestro preventivo o di confisca, deve intendersi il soggetto che non abbia partecipato alla commissione del delitto, non abbia tratto alcun vantaggio dal reato e che...
Massima

Per persona estranea al reato, il cui patrimonio non può essere interessato da un provvedimento di sequestro preventivo o di confisca, deve intendersi il soggetto che presenti questi tre requisiti: a) non abbia partecipato alla commissione del delitto, b) non abbia tratto alcun vantaggio dal reato, c) ignori senza colpa che le cose di cui dispone siano il prodotto, il profitto o il mezzo per commettere un reato.

Il caso

Pronunciando su un'importante vicenda riferita a condotte di aggiotaggio ed ostacolo all'attività di vigilanza poste in essere dall'amministratore di un istituto bancario, la Cassazione formula interessanti importanti precisazioni con riferimento alla nozione di “persona estranea al reato”, quale soggetto che non può essere interessato da alcun provvedimento di sequestro in relazione ad illeciti commessi da altri.

Nella vicenda in esame veniva contestato all'indagato di aver ostacolato le funzioni di vigilanza esercitate dalla Banca d'Italia e di aver alterato il corso dei titoli azionari, in quanto, attraverso l'artificiosa rappresentazione del patrimonio di vigilanza della banca da lui gestita – patrimonio in cui venivano fatti rientrare elementi positivi che tali non erano, trattandosi di obbligazioni ed azioni acquistate da terzi con flussi di finanziamenti erogati in loro favore dallo stesso istituto di credito, senza che tale circostanza venisse resa nota agli organi di vigilanza –, occultava l'effettiva realtà economica dell'istituto di credito.

In sede di merito, veniva adottato, ai sensi dell'art. 2641 c.c., un sequestro preventivo per equivalente a fini di successiva confisca sui beni dell'indagato. Il valore dei beni da sottoporre a vincolo era individuato considerando l'importo delle provviste messe a disposizione dei terzi di volta in volta dalla banca; secondo i giudici di merito infatti tali somme rappresentavano il mezzo attraverso il quale il reato era stato commesso ovvero, conformemente alla previsione dell'art. 2641, c.c., i beni utilizzati per commettere il reato di cui all'art. 2638, c.c. in quanto strumentalmente necessari per la creazione dell'artificiosa rappresentazione dell'entità del patrimonio di vigilanza.

Avverso tale decreto di sequestro era presentato ricorso per cassazione sotto due diversi profili. Da un lato, a dire della difesa, i beni da sottoporre a vincolo ablatorio andavano individuati in quelli concretamente utilizzati per la commissione del reato, vale a dire gli strumenti utilizzati per le false comunicazioni alle autorità di vigilanza, dovendosi escludere da tale nozione le somme che la banca aveva messo a disposizione dei privati per l'acquisto dei propri titoli azionari. In secondo luogo, si lamentava che il vincolo reale fosse stato disposto direttamente sui beni dell'indagato, senza attingere al patrimonio della banca, non potendo l'istituto creditizio essere considerato persona estranea al reato, avendo tratto vantaggio ed utilità dalle operazioni contestate agli ex vertici amministrativi dell'istituto.

La questione

Da sempre il profilo più problematico che si incontra nello studio dell'istituto della confisca attiene alla tutela dei terzi, i quali, pur senza aver partecipato al reato, possono essere, per le più svariate ragioni, destinatari del provvedimento ablativo. Di per sé, il problema di apprestare adeguata tutela a tali soggetti non avrebbe ragione di porsi, giacché l'art. 240 c.p., il cui contenuto è richiamato dall'art. 2641, comma 3, c.c., esclude l'applicabilità della confisca «se la cosa appartiene a persona estranea al reato»; ciò nonostante, è tutt'altro che raro che anche coloro che non abbiano partecipato alla commissione dell'illecito debbano subire le conseguenze patrimoniali dei provvedimenti di confisca e di sequestro.

Tale circostanza è determinata dal particolare rigore con cui la giurisprudenza interpreta le due nozioni di “estraneità al reato” e di “appartenenza del bene”.

In ordine al secondo dei profili suddetti, la giurisprudenza – che sul punto si è pronunciata con particolare riferimento al tema delle misure di prevenzione patrimoniali – nega che possa precludere l'apprensione del bene da parte dello Stato la circostanza che sul bene da confiscare o sequestrare terzi godano di un diritto reale di godimento e di garanzia (Cass. Pen., sez. II, 14 marzo 2007, n. 10838, in Arch. N. Proc. Pen., 2008, 33. In dottrina, DELLA RAGIONE, La confisca per equivalente, in www.dirittopenalecontemporaneo.it).

In secondo luogo, si nega che il terzo abbia diritto ad una tutela quando sul bene – formalmente a lui appartenente – il responsabile del reato si comporti come fosse comunque titolare di una tale posizione giuridica soggettiva – senza che tale suo comportamento sia contestato dall'effettivo proprietario del bene: si pensi ad esempio ad un contribuente che conduce e disponga liberamente di un autoveicolo intestato ad una società, senza che gli amministratori di tale persona giuridica oppongano alcunché. Secondo la Cassazione infatti il bene può dirsi nella disponibilità dell'indagato quando si sia in presenza di una situazione di fatto nella quale costui è in grado di comportarsi rispetto alla cosa medesima uti dominus: ciò consente quindi di riconoscere che il soggetto abbia la disponibilità della cosa quando si è in presenza di una relazione effettuale dell'indagato con il bene, connotata dall'esercizio di poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà (Cass., sez. II, 22 febbraio 2013, n. 22153, Ucci e altri, in Mass. Uff., n. 255950).

Tale considerazione si presenta particolarmente problematica, tuttavia, nei casi in cui l'indagato non solo non abbia alcun titolo giuridico sul bene medesimo, ma lo stesso risulti anche di esclusiva proprietà di un altro soggetto. Si pensi, ad esempio, al reo che, onde evitare provvedimenti cautelari reali, ceda a terzi un immobile di sua proprietà e quindi perda qualsiasi disponibilità dello stesso, abbandonandolo e non vantando più alcuna pretesa circa la sua gestione o utilizzo: in queste ipotesi non si assiste semplicemente ad una divaricazione fra titolarità formale del bene e disponibilità di fatto dello stesso – con il proprietario della cosa che consente comunque che l'imputato ne faccia l'uso che gli aggrada -, ma l'attribuzione della titolarità del bene in capo al terzo sembrerebbe escludere in radice che l'imputato dell'illecito fiscale possa godere del bene medesimo.

Anche in queste ipotesi, tuttavia, la giurisprudenza è netta nell'affermare che non basta la mera intestazione formale del bene in capo ad un terzo per escludere che l'indagato abbia la disponibilità del medesimo, dovendo il giudice penale verificare se il ricorso ad un determinato negozio giuridico sia stato determinato dal perseguimento – non di obiettivi economici ed imprenditoriali riconnessi dall'ordinamento allo strumento negoziale utilizzato e rispetto ai quali la ‘protezione patrimoniale' da aggressioni di terzi è soltanto un necessario riflesso, bensì – di mere finalità impeditive e frustranti le pretese dei creditori.

Nelle ipotesi considerate, dunque, l'atto contrattuale con cui il contribuente cede fittiziamente un proprio bene a terzi deve ritenersi avere una mera finalità distrattiva ed il valore trasferito rimane – ai fini penali - nella disponibilità del soggetto che ha commesso il reato e può essere quindi soggetto a provvedimento ablatorio fino alla concorrenza del valore del profitto derivato dal reato. Sono ritenuti indici della intestazione fittizia dei beni a terzi le seguenti circostanze: a) l'esistenza di rapporti di parentela fra contribuente infedele ed acquirente del bene; b) la collocazione temporale del negozio di cessione – specie se particolarmente vicino alla notifica di provvedimenti dell'autorità giudiziaria con cui il contribuente viene posto a conoscenza dell'esistenza di procedimenti penali nei suoi confronti e quindi della possibile adozione di provvedimenti cautelari reali funzionali alla futura esecuzione della confisca per equivalente; c) le modalità di pagamento del bene – particolarmente sospetti, ovviamente, sono gli atti di vendita in cui si afferma che il prezzo è stato già corrisposto in precedenza; d) l'irrisorietà del prezzo di cessione; e) la provenienza della provvista del denaro con cui è stato effettuato il pagamento (Cass. Pen., sez. III, 12 maggio 2015, n. 36530, Oksanych; Cass. Pen., sez. II, 22 febbraio 2013, n. 22153, Ucci e altri; Cass. Pen., sez. III, 19 ottobre 2011, n. 45353, Calgaro).

Altro profilo su cui la giurisprudenza spesso interviene per valutare la posizione del terzo e la possibilità di procedere a confisca o sequestro di beni nei suoi confronti è, come detto, la sua estraneità rispetto all'illecito. Anche con riferimento a tale aspetto, la giurisprudenza è particolarmente severa.

In primo luogo, si sostiene che non può qualificarsi "estraneo al reato" chi abbia partecipato a qualunque titolo ad un reato che risulti connesso o che sia accessorio o conseguenziale rispetto a quello per cui si procede, per cui ad esempio non è estraneo all'illecito chi, senza aver commesso, abbia successivamente posto in essere condotte di favoreggiamento del responsabile o abbia “ricettato” il profitto del reato (in senso contrario ALESSANDRI, La confisca, in ALESSANDRI (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, Milano, 2002, 30; Id., Confisca nel diritto penale, in Digesto pen., III, 4a ed., Torino, 1989, 55; FONDAROLI, Le ipotesi speciali di confisca nel sistema penale. Ablazione patrimoniale, criminalità economica, responsabilità delle persone fisiche e giuridiche, Bologna, 2007, 382).

In secondo luogo, la nozione di “estraneità” viene ritenuta incompatibile con quella di soggetto che abbia comunque ricavato vantaggi e utilità dal reato: in considerazione della «precisa connotazione funzionale della confisca», il collegamento tra la posizione del terzo e la commissione del fatto-reato consiste proprio nel vantaggio che costui abbia tratto dall'altrui attività criminosa.

Le soluzioni giuridiche

Nella decisione in commento, la Cassazione ha ribadito i concetti da ultimo espressi, dedicando tuttavia una particolare attenzione al profilo della nozione di soggetto avvantaggiato dal delitto – e che quindi, in quanto tale, non potrebbe dirsi estraneo al reato.

Quanto alla nozione ed individuazione dei beni qualificabili come utilizzati per commettere i delitti di cui all'artt. 2637 e 2638 c.c., i giudici di legittimità riconoscono nel caso di specie la possibilità di ritenere ricomprese in tale definizione anche le somme rappresentanti la provvista messa a disposizione dei terzi da parte dell'istituto di credito per l'acquisto delle azioni proprie, ovverosia le risorse destinate - per espressa disposizione degli indagati in virtù della posizione apicale rivestita in seno alla banca - alle operazioni grazie alle quali si è giunti alla mendace rappresentazione del patrimonio di vigilanza alla Banca d'Italia ed alla Consob, attraverso una realtà contabile artificiosa, che ha reso possibile un'artefatta rappresentazione dello stato di salute dell'istituto di credito, aumentando fittiziamente il patrimonio di vigilanza, mediante l'inclusione, tra gli elementi positivi, di obbligazioni ed azioni proprie, acquistate con provvista finanziaria della stessa banca. Nel disegno criminoso perseguito dagli indagati infatti le provviste messe a disposizione dei terzi rappresentavano il mezzo attraverso il quale il reato fu commesso ovvero, conformemente alla previsione dell'art. 2641, c.c., i beni utilizzati per commettere il reato di cui all'art. 2638, c.c., in quanto strumentalmente necessari per la creazione dell'artificiosa rappresentazione dell'entità del patrimonio di vigilanza: d'altronde, la nozione di “beni utilizzati per commettere il reato” rientra – al pari di quanto può sostenersi per la nozione di "corpo di reato" ex art. 253, c.p.p., di cui la prima rappresenta una specificazione nell'ambito dei reati previsti nel Titolo XI, del Libro V, del codice civile - in quella più generale di "cose pertinenti al reato", cui fa riferimento l'art. 321, c.p.p., che comprende sia le cose sulle quali o a mezzo delle quali il reato fu commesso o che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto, sia quelle legate solo indirettamente alla fattispecie criminosa, senza estendersi, tuttavia, al punto di attribuire rilevanza a rapporti meramente occasionali tra la res e l'illecito penale (Cass., sez. V, 28 maggio 2014, n. 26444).

Quanto alla nozione di “persona estranea al reato”, il tema è venuto all'attenzione del giudice di legittimità in quanto la difesa lamentava che il sequestro per equivalente di importi e beni di valore pari ai flussi di finanziamenti riconosciuti dalla banca ai privati per l'acquisto di azioni della prima avesse interessato, anziché il patrimonio della banca, quello personale dell'indagato e ciò nonostante l'istituto di credito, avendo ricevuto un indubbio vantaggio dalla condotta criminosa che aveva consentito il mantenimento artificio del valore dei propri titoli, non poteva dirsi soggetto “estraneo al reato” e quindi ben poteva essere oggetto del provvedimento ablatorio.

I giudici di legittimità non concordano con tale affermazione ritenendo che, ad un esame più attento della vicenda, non poteva sostenersi che l'istituto di credito i cui valori azionari erano stati oggetto della condotta di aggiotaggio fosse stato avvantaggiato da tale reato, non avendo in reltà ricevuto alcun beneficio dalle operazioni di illegittimo riacquisto di azioni proprie. Se infatti per il tramite delle operazioni compiute dai suoi amministratori la banca interessata aveva in effetti potuto proseguire nella sua attività d'impresa ed aumentare la sua concreta operatività, andava altresì riconosciuto come dalla vicenda l'istituto non avesse certo tratto un profitto o un qualsivoglia effetto economico positivo, quanto piuttosto un grave danno, essendo state proprio le operazioni in contestazione - espressione della politica aziendale mirante solo ad allargare la base soci senza riguardo per il merito creditizio - a portare l'istituto sull'orlo di una crisi economica irreversibile, secondo una logica espansionistica rivelatasi esiziale per l'istituto (che grazie unicamente all'intervento di fondi pubblici è riuscito a rimanere sul mercato, non avendo trovato altri investitori disponibili a ricapitalizzarlo) e funzionale solo a garantire il consolidamento e l'accrescimento del potere dell'indagato, e della stretta cerchia a lui facente capo, sull'ente.

Questa considerazione, secondo la Suprema Corte, consentirebbe di comprendere come l'istituto bancario dovesse considerarsi, ai fini di eventuali confische, persona estranea al reato giacché in tale nozione rientra non solo la persona che non abbia partecipato alla commissione del reato, ma anche colei che da esso non abbia ricavato vantaggi e utilità e soltanto colui che versi in tale situazione oggettiva e soggettiva può vedere riconosciuta la intangibilità della sua posizione giuridica soggettiva e l'insensibilità di essa agli effetti del provvedimento di confisca (Cass. Pen., Sez. Un., 25 settembre 2014, n. 11170).

La Cassazione, poi, sollecitata dalle difese che lamentavano la circostanza che fosse stato sottoposto a sequestro preventivo anche il patrimonio della moglie dell'indagato, ricorda come la qualità di persona estranea al reato presuppone che al requisito oggettivo integrato dalla non derivazione di un vantaggio dall'altrui attività criminosa, si aggiunga la connotazione soggettiva della buona fede del terzo, intesa come "non conoscibilità, con l'uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, del predetto rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato". In proposito, va ricordato che il concetto di buona fede per il diritto penale è diverso da quello di buona fede civilistica a norma dell'art. 1147 c.c., dal momento che anche i profili di colposa inosservanza di doverose regole di cautela escludono che la posizione del soggetto acquirente o che vanti un titolo sui beni da confiscare o già confiscati sia giuridicamente da tutelare (Sez. Un., 25 settembre 2014, n. 11170) – e tale buona fede non viene riconosciuta in capo alla moglie del principale indagato, la quale era solo formalmente intestataria dei beni sequestrati, la cui disponibilità in realtà andava riferita al marito indagato.

Osservazioni

Come accennato, il profilo più interessante della decisione attiene alla nozione di “persona estranea al reato” ed in particolare alla ricostruzione della nozione di soggetto avvantaggiato dall'illecito, il quale, in quanto beneficiato dal crimine, non potrebbe pretendere di non essere attinto da provvedimenti di confisca o sequestro.

Sul punto, la decisione ci pare assai pertinente ed acuta. In particolare, la decisione pare apprezzabile nella parte in cui nega si possa affermare che, nell'ambito di illeciti realizzati dall'amministratore di una società, possa qualificarsi quest'ultima come beneficiata dal reato ogni qualvolta e per il solo fatto che si sia in presenza di una mera ricaduta patrimoniale favorevole in capo alla persona giuridica.

Come correttamente sostiene la Cassazione, nel decidere circa la sussistenza di un vantaggio in capo alla società in conseguenza di un illecito criminale posto in essere dai suoi amministratori, la valutazione non va svolta isolando le singole conseguenze del reato ma considerando in termini complessivi ed in un'ottica temporale più vasta rispetto a quella che considera il solo momento di svolgimento della condotta illecita quali siano gli effetti che in capo alla persona giuridica sono derivati dal reato stesso. Si pensi ad esempio all'amministratore il quale, consapevole dell'intenzione dell'assemblea dei soci di rimuoverlo dall'incarico per la sua incapacità gestionale, corrompa un pubblico ufficiale per evitare l'applicazione di sanzioni tributarie o previdenziali a carico della società ed evitare così la sua rimozione: in questa ipotesi non potrà sostenersi che la società si sia avvantaggiata della condotta corruttiva tenuta dall'amministratore, giacché a fronte delle sanzioni pecuniarie non versate si contrappone l'effetto pregiudizievole e di impatto decisamente negativo per l'impresa di non poter rimuovere un soggetto incapace dal ruolo di dirigente dell'azienda.

Per le medesime ragioni non potrà mai parlarsi dell'esistenza di un vantaggio per l'ente allorquando vi sia un contrasto fra gli interessi patrimoniali della persona giuridica e la condotta delittuosa posta in essere dal singolo, anche se incidentalmente dal reato siano comunque derivate conseguenze favorevoli per la societas. Oltre alla vicenda presa in esame dalla decisione in parola, si pensi al caso degli amministratori che occultano utili maturati nel corso dell'anno con conseguente risparmio fiscale per l'impresa: in queste ipotesi, infatti, la circostanza che l'ente comunque benefici delle conseguenze dell'altrui crimine è davvero un evento accidentale e nient'affatto sufficiente a fondare un giudizio di corresponsabilità, proprio perché – stante il contrasto fra l'esigenze della società e le finalità del singolo delinquente – in nessun modo potrà sostenersi che il crimine sia riferibile all'organizzazione collettiva.

Accanto a queste ipotesi cui fa riferimento la decisione in parola, riteniamo inoltre che deve ritenersi irrilevante il beneficio economico che maturi in capo alla società per ragioni assolutamente casuali ed episodiche ed in conseguenza di reati che sono assolutamente estranei all'ordinario svolgimento dell'attività aziendale. Si pensi all'amministratore di una casa editrice di grande importanza e rilievo per la vita culturale del paese il quale venga sorpreso in atteggiamenti sessuali con minori procuratigli da un'organizzazione che svolge attività di sfruttamento della prostituzione minorile; questi, per evitare lo scandalo, corrompe – magari con fondi prelevati dalle casse della società da lui gestita - gli investigatori e preclude lo svolgimento del processo nei suoi confronti, impedendo così che la vicenda travolga anche le sorti dell'azienda da lui gestita, la quale riceverebbe un grave danno dalla diffusione pubblica della notizia.

In questo caso, nonostante la persona giuridica risulti beneficiata dall'altrui condotta illecita, è altresì vero che la circostanza che l'ente abbia ottenuto un qualche vantaggio non dimostra certo l'esistenza di una connessione, di un raccordo, fra il reato commesso dalla persona fisica e l'attività imprenditoriale dell'ente e ciò è sufficiente per concludere che l'ente collettivo debba ritenersi estranei alla condotta criminale.

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