Riforma dei reati tributari e successione delle leggi penali nel tempo

26 Ottobre 2017

Il presente breve lavoro è finalizzato a descrivere e analizzare sommariamente la posizione fatta propria dalla Giurisprudenza in ordine alle più rilevanti problematiche relative alla successione delle leggi penali nel tempo che si sono poste in seguito alla riforma dei reati tributari operata con D.Lgs. n. 158/2015.
Panoramica sulla riforma del diritto penale tributario del 2015

Con l'art. 8 della Legge delega n. 23/2014, il Parlamento delegò l'esecutivo a operare una riforma del sistema sanzionatorio tributario, sia penale che amministrativo, “secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti”.

La legge delega “ha dettato importanti linee guida, finalizzate […] a ridurre l'area di intervento della sanzione punitiva per eccellenza – quella penale ai soli casi connotati da un particolare disvalore giuridico […], indentificati, in particolare, nei comportamenti artificiosi, fraudolenti e simulatori, oggettivamente e soggettivamente inesistenti, ritenuti insidiosi anche rispetto all'attività di controllo”, con conseguente “riduzione delle fattispecie penali, operata anche attraverso un ripensamento ed una rimodulazione delle soglie di punibilità e l'individuazione di nuove ipotesi di non punibilità” (relazione illustrativa, p. 1).

L'attenzione verso un più deciso contrasto alle attività fraudolente emerge dalla “calibrata estensione della fattispecie” di cui all'art. 3, D.Lgs. n. 74/2000 (rubricato: “dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici”), che nella sua versione previgente era considerata “eccessivamente restrittiva” (ibid., p. 3); dalla revisione del reato di uso di fatture per operazioni inesistenti (art. 2, D.Lgs. cit.), “nel senso di ampliare il novero delle dichiarazioni rilevanti […] attraverso la soppressione del riferimento alla annualità delle stesse” (ibid., p. 4); nell'inasprimento della pena per il reato di occultamento o distruzione delle scritture contabili (art. 10, D.Lgs. cit.).

Riguardo invece ai fatti privi di portata fraudolenta, gli interventi della riforma sono di segno “tendenzialmente mitigatore” (ibid.) e si sostanziano principalmente nell'introduzione della causa di non punibilità per integrale estinzione de debito tributario (art. 13, D.Lgs. cit.); nell'innalzamento delle soglie di punibilità in tema di omesso versamento IVA (art. 10-ter, D.Lgs. cit) e ritenute certificate (art. 10-bis, D.Lgs. cit), al di sotto delle quali “il ricorso alle [sole, n.d.a.] misure sanzionatorie di tipo amministrativo […] appare proporzionato alle caratteristiche dell'illecito” (ibid., p. 3); nella riforma del reato di dichiarazione infedele (art. 4, D.Lgs. cit.), finalizzata a “limitare tendenzialmente la sfera applicativa della figura criminosa – priva di connotati di fraudolenza al solo mendacio su dati oggettivi e reali” (ibid.).

È importante ricordare poi come il Legislatore, con D.Lgs. n. 128/2015, sia intervenuto con una nuova disciplina organica in tema di elusione fiscale. In assenza di una disciplina transitoria, la riforma del diritto penale tributario pone rilevanti problematiche di diritto intertemporale. Ovviamente, tali problematiche si presentano con riguardo alle innovazioni portanti una disciplina più favorevole al reo, posto che, per le modifiche in peius, vale il principio resistente a tutta oltranza della assoluta e completa irretroattività delle stesse, senza nessuna eccezione.

Qui di seguito, si analizzeranno brevemente le soluzioni offerte dalla Giurisprudenza in ordine ai principali casi affrontati.

Omesso versamento di ritenute

Il vigente art. 10-bis D.Lgs. n. 74/2000 dispone quanto segue: “è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d'imposta”.

Il previgente art. 10-bis disponeva: “è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo d'imposta”.

Come si vede, la novella del 2015 è intervenuta su due fronti: da un lato, ha previsto che le ritenute non versate possano rilevare non solo se risultanti dalla certificazione consegnata al sostituto di imposta, ma anche se risultanti come dovute in base alla dichiarazione annuale del contribuente; dall'altro, ha innalzato la soglia di punibilità.

Riguardo al primo aspetto, occorre evidenziare che la novella è intervenuta risolvendo un contrasto giurisprudenziale formatosi sul punto.

Il centro della questione riguardava l'efficacia probatoria da attribuirsi alla dichiarazione mod. 770, (disciplinata dal d.P.R. n. 322/1998, art. 4, a mezzo della quale il contribuente informa l'Agenzia delle Entrate delle somme corrisposte ai sostituiti, delle ritenute operate sulle stesse e del loro versamento all'erario), e segnatamente se la stessa potesse ritenersi elemento sufficiente per provare l'effettivo rilascio delle certificazioni ai sostituti di imposta, prova la cui necessità, come si è appena visto, è venuta meno con la novella del 2015.

Un primo indirizzo giurisprudenziale osservava come la prova dell'effettivo rilascio delle certificazioni avrebbe potuto essere efficacemente fornita dall'accusa anche mediante risultanze documentali, testimoniali o indiziarie, e quindi anche mediante la semplice allegazione della dichiarazione mod. 770 o la testimonianza del funzionario dell'Agenzia delle Entrate sul punto (cfr., Cass. pen., sez. III, n. 20778/2014; Cass. pen., sez. III, n. 19454/2014; Cass. pen., sez. III, n. 33187/2013; Cass. pen., sez. III, n. 1443/2012).

Secondo tale impostazione, il rilascio delle certificazioni ai sostituiti non avrebbe natura di elemento costitutivo della fattispecie, ma di semplice presupposto del reato. Si argomentava infatti come il delitto in esame presentasse una struttura puramente omissiva, consistente (unicamente) nel mancato versamento, entro il termine di legge, delle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore alla soglia di punibilità.

Il contrapposto indirizzo riteneva che il reato in questione realizzasse una ipotesi di fattispecie a formazione progressiva e avesse struttura mista, prima omissiva – omesso versamento delle ritenute nei termini – e poi commissiva – materiale rilascio ai sostituti di imposta delle certificazioni; pertanto, il rilascio delle certificazioni avrebbe assunto natura di elemento costitutivo e non mero presupposto del reato, e avrebbe quindi dovuto essere oggetto di prova rigorosa, non essendo sufficiente il solo contenuto della dichiarazione mod. 770 (cfr., Cass. pen., sez. III, n. 40526/2014; Cass. pen., sez. III, n. 6203/2014; Cass. pen., sez. III, n. 11335/2014).

In particolare, si argomentava sostenendo che, “da nessuna casella o dichiarazione contenuta nei modelli 770 emerge che il sostituto d'imposta attesti, sia pure indirettamente o implicitamente, di avere rilasciato ai sostituiti le relative certificazioni ed anzi la dichiarazione modello 770 e la certificazione rilasciata ai sostituiti presentano differenze sostanziali tali da non consentire di ritenere, automaticamente, che l'uno non possa risultare indipendente dall'altro, trattandosi di documenti disciplinati da fonti distinte, rispondenti a finalità non coincidenti e che non devono essere consegnati o presentati contestualmente” (Cass. pen. sez. III, n. 7884/2016).

La novella del 2015, afferma la Giurisprudenza, ha esteso la tipicità del reato anche alle ipotesi di omesso versamento di ritenute dovute sulla base della sola dichiarazione mod. 770, senza che sia più necessario dimostrare aliunde, come riteneva il secondo degli indirizzi giurisprudenziali ante riforma sopra riportati, l'effettivo rilascio al sostituto di imposta della certificazione.

Trattasi di una modifica in peius, applicabile pertanto esclusivamente ai fatti commessi successivamente all'entrata in vigore della norma (cfr., Cass. pen., sez. III, n. 7884/2016).

Da ciò, la Giurisprudenza formatasi successivamente alla novella desume, con argomento a contrario, che, nella formulazione ante novella, il rilascio della certificazione al sostituto di imposta avesse natura di elemento costitutivo del reato, così accogliendo le conclusioni fatte proprie dal secondo degli indirizzi giurisprudenziali sopra riportati (cfr., Cass. pen., sez. III, n. 30139/2017; Cass. pen., sez. III, n. 10104/2016; Cass. pen., sez. III, n. 41468/2016; Cass. pen., sez. III, n. 48302/2016; Cass. pen., sez. III, n. 53249/2016; Cass. pen., sez. III, n. 51417/2016; Cass. pen., sez. III, n. 10509/2016).

Infatti, “l'estensione dell'area oggettiva del reato di cui all'art. 10-bis del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ad opera del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, all'ipotesi delle ritenute dovute sulla base della dichiarazione, pur non potendo avere effetto che per il futuro, tuttavia costituisce per il passato chiave ermeneutica precisa per ritenere che la mancanza di prova diretta del rilascio della certificazione delle ritenute ai sostituiti non possa essere altrimenti surrogata e comunque non possa essere surrogata con la mera dichiarazione mod. 770” (Cass. pen., sez. III, n. 41468/2016).

La Giurisprudenza successiva alla riforma conclude pertanto affermando che “per i fatti pregressi, la prova dell'elemento costitutivo del reato non può essere costituita dal solo contenuto della dichiarazione, essendo necessario dimostrare l'avvenuto rilascio ai sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute operate dal datore di lavoro quale sostituto di imposta” (Cass. pen., sez. III, n. 10104/2016).

Ciò posto, la S.C. ha effettuato un rilevante distinguo in materia di misure cautelari reali, affermando che, pur essendo richiesta per i fatti antecedenti alla novella la prova del rilascio ai sostituiti delle certificazioni e non essendo quindi sufficiente la dichiarazione mod. 770, tuttavia, “in sede di valutazione del fumus commissi delicti, per il sequestro preventivo per equivalente, il giudice del riesame può ritenere sussistente il fumus dalla dichiarazione 770 e da altri elementi” (Cass. pen., sez. III, n. 48591/2016).

Pertanto, il contenuto del mod. 770, se non è idoneo (sempre riguardo ai fatti ante riforma) a fondare da solo la penale responsabilità dell'agente, è tuttavia ritenuto comunque sufficiente a integrare il fumus richiesto dalla legge per l'emissione di provvedimenti cautelari reali.

Come visto, la novella è intervenuta anche aumentando da Euro 50.000,00 a Euro 150.000,00 la soglia di punibilità relativa al delitto in esame.

Ora, per patrimonio consolidato, la soglia di punibilità deve intendersi quale elemento costitutivo della fattispecie, al di sotto della quale non può dirsi integrato l'elemento oggettivo del reato, e non quale mera condizione obiettiva di non punibilità, esterna alla fattispecie.

La soglia di punibilità deve rientrare altresì nel fuoco del dolo, partecipando essa al disvalore del fatto, e quindi, per l'integrazione dell'elemento soggettivo, occorre dare dimostrazione della coscienza e volontà, in capo all'agente, di sottrarre al fisco una somma superiore a quella di cui alla soglia di punibilità.

Partendo da tale premessa concettuale, la Giurisprudenza ritiene che la riforma “ha determinato l'abolizione parziale del reato commesso in epoca antecedente che aveva ad oggetto somme pari o inferiori a detto importo. Vertendosi in ipotesi di abrogazione parziale trovano applicazione l'art. 2 c.p., comma 2, e art. 673 c.p.p., comma 1” (Cass. pen., sez. III, n. 3436/2017).

Ciò significa che tutti i fatti commessi antecedentemente alla riforma non costituiscono più reato se non raggiungono la nuova soglia di punibilità (Euro 150.000,00) e che quindi, ai sensi dell'art. 2, comma 2, c.p., potranno essere oggetto di revoca (ex art. 673 c.p.p.) le sentenze definitive riguardanti fatti aventi ad oggetto somme inferiori alla nuova soglia di punibilità, in qualunque tempo commessi.

Omesso versamento IVA

L'art. 10-ter, D.Lgs. cit. attualmente vigente dispone quanto segue: “è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo, l'imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d'imposta”.

Rispetto alla normativa previgente, il Legislatore ha innalzato la soglia di punibilità del reato in questione, portandola da Euro 103.291,18 ad Euro 250.000,00.

Anche in questo caso, come si è già visto riguardo al reato di mancato versamento delle ritenute, è quindi intervenuta abrogazione parziale in relazione alle condotte precedenti alla riforma e aventi ad oggetto somme inferiori alla nuova soglia, con conseguente travolgimento del giudicato (cfr., a titolo esemplificativo: Cass. pen., sez. III, n. 6105 del 2015).

La Giurisprudenza ha chiarito, in ordine al problema della formula assolutoria da adottarsi in caso di condotte aventi ad oggetto somme inferiori alla nuova soglia, che “la formula assolutoria da utilizzare in ipotesi di mancata integrazione della soglia di punibilità nel delitto previsto dal D.Lgs. n. 74/2000, art. 10-ter vuoi perchè, essendo stato contestato un fatto integrante la soglia, lo stesso è invece risultato, a seguito dell'accertamento processuale, sotto-soglia, oppure vuoi perché […] la soglia di punibilità è stata elevata a seguito della declaratoria di incostituzionalità della disposizione che la prevede o, ancora, vuoi perchè tale elevazione sia da attribuire allo ius superveniens – […] va deliberata con la formula ‘il fatto non sussiste', non con quella ‘il fatto non è previsto dalla legge come reato” (Cass. pen., sez. III, n. 6710/2016; cfr., in senso conforme: Cass. pen., sez. III, n. 30148/2016; Cass. pen., sez. III, n. 35611/2016; Cass. pen., sez. III, n. 3098/2015), che riguarda la diversa ipotesi in cui manchi una qualsiasi norma penale cui ricondurre il fatto imputato.

La sentenza accerta la non sussistenza del fatto in ordine al raggiungimento di una soglia pari o superiore a quella prevista per la realizzazione del reato, e quindi resta “impregiudicato l'eventuale mancato versamento dell'Iva in misura inferiore alla soglia di punibilità (che integra un fatto diverso, penalmente irrilevante e sanzionabile in via amministrativa), potendo l'amministrazione finanziaria procedere in via amministrativa all'accertamento della violazione e all'irrogazione delle relative sanzioni in relazione all'imposta dovuta e non versata, purchè sotto soglia" (Cass. pen., sez. III, n. 6710 del 2016).

È interessante osservare come la novella, ad avviso della Giurisprudenza, assuma una qualche rilevanza anche in relazione ai fatti sopra-soglia. Ha infatti osservato la S.C. che “il giudice dell'impugnazione, richiesto di riesaminare la misura della pena inflitta dal primo giudice nella vigenza della soglia di rilevanza penale della condotta pari ad euro 103.291,18, deve rivalutare la congruità del trattamento sanzionatorio alla luce del nuovo limite di euro 250.000 […], incidente sul complessivo ed oggettivo disvalore del fatto” (Cass. pen., sez. III, n. 9936/2016).

Nel caso all'esame della S.C. nella sentenza appena citata, la Corte di merito aveva determinato la pena base in misura superiore al minimo "in considerazione dell'importo il cui versamento è stato omesso"; sul punto, osserva la S.C., “può ritenersi che, effettivamente, alla stregua della novella del 2015 […], il disvalore complessivo del fatto debba essere rivalutato, posto che la soglia svolge la propria funzione sul piano della selezione categoriale, incidendo quindi la sua elevazione, ai fini della rilevanza penale del fatto, sul complessivo ed oggettivo disvalore penale del fatto medesimo, donde ciò giustifica la necessità di una rivalutazione della congruità complessiva del trattamento sanzionatorio alla luce del predetto ius superveniens” (Cass. pen., sez. III, n. 9936/2016).

Quanto affermato dalla S.C. nella citata pronuncia può assumere rilevanza anche riguardo all'applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell'art. 131 bis c.p., applicabile “alla omissione per un ammontare vicinissimo alla soglia di punibilità” (Cass. pen., sez. III, n. 13218 del 2015).

Dichiarazione infedele

Dispone l'art. 4, D.Lgs. cit. attualmente vigente: “fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente:

a) l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centocinquantamila;

b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro tre milioni. 1-bis. Ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali. 1-ter. Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b)”.

La novella del 2015 da un lato è intervenuta sulla soglia di punibilità correlata all'imposta evasa, portandola da Euro 50.000,00 a Euro 150.000,00 Euro e, dall'altro, ha innalzato la soglia del valore degli elementi attivi sottratti all'imposizione, da due a tre milioni di Euro.

Ha osservato al riguardo la S.C. che “il reato di dichiarazione infedele ex art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, come delineato a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 4, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 158/2015, si pone in continuità normativa con la fattispecie previgente ed è più favorevole all'imputato” (Cass. pen., sez. III, n. 3082/2016; Cass. pen., sez. III, n. 40317/2016; in senso conforme: Cass. pen., sez. III, n. 39379/2016; Cass. pen., sez. III, n. 891/2015).

La riforma, pertanto, similmente alle altre ipotesi di intervento del Legislatore sulle soglie di punibilità, opera una limitata abrogazione, riguardo alle condotte antecedenti inferiori alla nuova soglia, e di parziale continuità, riguardo alle condotte antecedenti superiori alla nuova soglia, le quali ultime, di conseguenza, conservano penale rilevanza.

Ciò significa che opererà l'art. 2, comma 2, c.p., con conseguente caduta del giudicato, in relazione alle condotte inferiori alle nuove soglie. Viceversa, riguardo alle condotte che abbiamo ad oggetto somme superiori anche alla nuova soglia di punibilità, rimarrà invariata la preclusione del giudicato; tuttavia, si applicherà la nuova normativa, in quanto più favorevole, ove non sia ancora intervenuto il giudicato, ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p.

Occultamento o distruzione di documenti contabili

Dispone l'art. 10, D.Lgs. cit. attualmente vigente: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l'evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari”.

La novella del 2015 è intervenuta innalzando la soglia di punibilità, da Euro 50.000,00 a Euro 150.000,00 ed ha pertanto “determinato l'abolizione parziale del reato commesso in epoca antecedente che aveva ad oggetto somme pari o inferiori a detto importo” (Cass. pen., sez. III, n. 34362/2017), al pari delle altre ipotesi già viste sopra nelle quali il Legislatore ha aumentato le soglie di punibilità.

La confisca per equivalente

La novella ha introdotto l'art. 12-bis, il quale, al comma 1, dispone che, in caso di condanna, “è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo [del reato, n.d.a.], salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto”.

Al riguardo, è opportuno ricordare che la misura della confisca per equivalente, prevista dall'art. 322-ter c.p., venne estesa ai reati tributari con legge finanziaria 2008, art. 1, comma 143, ai sensi del quale, “nei casi di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all'art. 322-ter del codice penale”.

La predetta norma è stata abrogata dalla novella, la quale ha introdotto l'art. 12-bis, nel testo soprariportato, che recepisce, “questa volta direttamente e non a mò di richiamo, il contenuto dell'art. 322-ter c.p.” (Cass. pen., sez. III, n. 50338/2016).

Pertanto, conclude la S.C., “la misura ablativa in esame, anche nella forma per equivalente, deve essere sempre disposta ai sensi del D.Lgs. n. 74/2000, art. 12-bis, con riguardo a tutti i delitti di cui al decreto medesimo […] e senza che, al riguardo, si ponga alcuna questione di diritto intertemporale ai sensi dell'art. 2 c.p., attesa appunto l'identità della lettera dell'art. 12-bis de quo con quella dell'art. 322-ter c.p.” e la “piena continuità normativa” (Cass. pen., sez. III, n. 50338/2016) tra le disposizioni in esame (cfr., in senso conforme: Cass. pen., sez. III, n. 35226/2016). In altre parole, “l'intervenuta abrogazione, ad opera del D.Lgs. n. 158/2015, dell'art. 1 comma 143, L. 24 dicembre 2007, n. 244, che disponeva la confisca dei beni che costituiscono il profitto od il prezzo del reato ovvero, quando la stessa non è possibile, la confisca per equivalente, non determina il venir meno delle misure ablatorie disposte sulla base della suddetta norma” (Cass. pen., sez. III, n. 23737/2016).

La S.C. si è altresì occupata dei problemi sollevati in ordine all'interpretazione del comma 2 dell'art. 12-bis cit., introdotto con la novella in esame.

Ritiene la S.C. al riguardo che, “anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 12-bis D.Lgs. n. 74/2000 - il cui comma 2 dispone che ‘la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all'Erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta' - deve comunque ritenersi che solo l'integrale pagamento del debito tributario possa condurre alla non operatività della confisca e, correlativamente, alla obliterazione del sequestro imposto a tal fine, essendo insufficiente la mera presenza di un piano rateale di pagamento o il parziale pagamento effettuato a tale ultimo titolo. Dunque, anche in presenza di un piano rateale di versamento, la confisca continua ad essere consentita per gli importi che non siano stati ancora corrisposti così continuando ad essere consentito anche il sequestro a detta confisca finalizzato” (Cass. pen., sez. III, n. 5728/2016; cfr., in senso conforme: Cass. pen., sez. III, n. 42470/2016; Cass. pen., sez. III, n. 42087/2016).

Si è altresì specificato che la non operatività della confisca disposta dalla norma appena citata “deve essere circoscritta ai soli casi di obblighi assunti in maniera formale, tra i quali rientrano le ipotesi di accertamento con adesione, di conciliazione giudiziale, di transazione fiscale, di attivazione di procedure di rateizzazione automatica o a domanda” (Cass. pen., Sez. III, n. 5728 del 2016; cfr., in senso conforme: Cass. pen., Sez. III, n. 52857/2015).

La causa di non punibilità dell'integrale integrale pagamento del debito tributario

Il nuovo art. 13, D.Lgs. cit., introdotto dalla novella del 2015 (art. 11), dispone quanto segue: “i reati di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese le sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche se a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all'accertamento previsto dalle norme tributarie, nonchè del ravvedimento operoso”.

Come si vede, la norma in esame introduce una causa di non punibilità in caso di estinzione del debito tributario.

Occorre evidenziare che, anteriormente alla riforma, il pagamento del debito tributario rilevava esclusivamente quale circostanza attenuante.

La norma in esame, in assenza di un regime transitorio, pone rilevanti questioni di diritto intertemporale.

Al riguardo, la Giurisprudenza maggioritaria ritiene che “il requisito normativo secondo cui tale possibilità [e cioè di estinguere il debito tributario, n.d.a.] deve essere esperita prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado ha evidentemente natura processuale e non sostanziale” (Cass. pen., sez. III, n. 30139/2017).

Pertanto, “il limite temporale normativamente previsto (prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado) deve essere interpretato, con conseguente applicazione della causa di non punibilità, [nel senso di operare, n.d.a.] laddove il pagamento integrale del debito tributario sia già avvenuto prima della prima data utile per chiedere l'applicazione della causa di non punibilità a seguito dell'introduzione della stessa ad opera della legge del 2015; non potendosi, viceversa, ritenere l'applicazione retroattiva ai fatti di reato per i quali il pagamento integrale del debito tributario non sia avvenuto entro tale termine, interpretazione che varrebbe ad una generalizzata rimessione in termini” (Cass. pen., sez. III, n. 30139/2017).

In conclusione, la causa di non punibilità trova applicazione “ai fatti commessi precedentemente alla sua entrata in vigore e ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 158/2015, anche qualora, alla data predetta, sia già stato aperto il dibattimento di primo grado, se i debiti tributari, comprese le sanzioni amministrative e interessi, risultano essere stati estinti” (Cass. pen., sez. III, n. 30139/2017; cfr., in senso conforme: Cass. pen., sez. III, n. 15237/2017; Cass. pen., sez. III, n. 29544/2017; Cass. pen., sez. III, n. 40314/2016), ma non opera ove il pagamento sia avvenuto oltre la prima occasione processuale utile per richiederne l'applicazione, la quale, come si è appena visto, può anche essere successiva alla prima udienza dibattimentale in primo grado. Quindi, l'imputato il cui processo, alla data di entrata in vigore della riforma, versi in uno stato successivo all'apertura del dibattimento in primo grado, potrà beneficiare della causa di non punibilità se abbia estinto il debito tributario antecedentemente alla prima udienza successiva all'entrata in vigore della riforma; viceversa, non potrà, a tale udienza, richiedere un termine per adempiere al pagamento.

Dunque, “la novella della fattispecie di cui all'art. 13, quale modifica più favorevole al reo, soggiace ai meccanismi della successione di leggi penali nel tempo ex art. 2, comma 4, c.p., fatta salva l'intervenuta condanna irrevocabile” (Cass. pen., sez. III, n. 11417/2016).

L'opzione ermeneutica, avversa, della inoperatività della causa di non punibilità in esame nei casi in cui, alla data di entrata in vigore della riforma, sia già stato aperto il dibattimento in primo grado deve essere considerata recessiva, in quanto idonea a formare irragionevoli disparità di trattamento e quindi censurabile per contrarietà all'art. 3, Cost.

Infatti, “il principio di uguaglianza impone di ritenere che, sotto il profilo sostanziale, il pagamento del debito tributario assuma la medesima efficacia estintiva, sia che avvenga prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, sia, nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 158, che avvenga dopo tale limite, purché prima del giudicato” (Cass. pen., sez. III, n. 40314/2016).

L'elusione fiscale

Come si è anticipato sopra, con D.Lgs. n. 128/2015, pressocchè coevo al D.Lgs. n. 158/2015 (le cui innovazioni si sono esaminate sopra), il Legislatore è intervenuto, tra le altre cose, in tema di elusione fiscale e abuso del diritto in ambito tributario.

Più in particolare, è stato inserito nello Statuto del Contribuente (L. n. 212/2000) l'art. 10-bis, il quale, al comma 1, definisce l'abuso del diritto come “una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti” e, al comma 13, statuisce che “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l'applicazione delle sanzioni amministrative tributarie”.

Il Legislatore delegato è intervenuto, per esigenze di coordinamento con la normativa appena citata, con il D.Lgs. n. 158/2015, inserendo la lett. g) bis al comma 1 dell'art. 1, D.Lgs. n. 74/2000, specificando che “per ‘operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente' si intendono le operazioni apparenti, diverse da quelle disciplinate dall'articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti”.

La Giurisprudenza di Legittimità ritiene concordemente che “l'introduzione della disciplina dell'abuso del diritto ha, per i fatti che sono riconducibili a tale categoria, gli effetti di una abolitio criminis, con la conseguenza che essa opera retroattivamente senza condizioni” (Cass., pen., sez. III, n. 35575/2016; cfr., in senso conforme: Cass. pen., sez. III, n. 48293/2016; Cass. pen., sez. III, n. 40272/2015).

Pertanto, potranno essere oggetto di revoca (ex art. 673 c.p.p.) le condanne definitive per reati commessi in qualunque tempo antecedente alla riforma, purchè abbiano ad oggetto condotte di elusione (e non di evasione) fiscale, stante l'intervenuta abolitio criminis.

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