Interesse ad agire nella revocatoria: "crepe" nella teoria anti-indennitaria

26 Ottobre 2017

In tema di revoca ex art. 67, comma 2, l.fall. di pagamenti di crediti assistiti da privilegio, i principi di Cassazione Sezioni Unite n. 7028/2006 relativamente al fatto che la lesione alla par condicio creditorum sarebbe in re ipsa essendo possibile verificare solo in seguito alla ripartizione dell'attivo se quei pagamenti pregiudichino o meno le ragioni di altri creditori privilegiati che, anche successivamente all'esercizio dell'azione revocatoria, potrebbero insinuarsi, vanno ricondotti a sistema essendo possibile confutare l'eccezione svolta dal convenuto in revocatoria di carenza di interesse ad agire del curatore attore a condizione che, ove emerga la sussistenza di un progetto di ripartizione che sia astrattamente idoneo a soddisfare i creditori convenuti in revocatoria ex art. 70 l.fall., il curatore dimostri la sussistenza di altri creditori poziori, che si siano insinuati al passivo prima della conclusione del giudizio di revocatoria fallimentare, essendo l'interesse ad agire condizione dell'azione che deve sussistere al momento della decisione.
Massima

In tema di revoca ex art. 67, comma 2 l.fall. di pagamenti di crediti assistiti da privilegio, i principi di Cassazione Sezioni Unite n. 7028/2006 relativamente al fatto che la lesione alla par condicio creditorum sarebbe in re ipsa essendo possibile verificare solo in seguito alla ripartizione dell'attivo se quei pagamenti pregiudichino o meno le ragioni di altri creditori privilegiati che, anche successivamente all'esercizio dell'azione revocatoria, potrebbero insinuarsi, vanno ricondotti a sistema essendo possibile confutare l'eccezione svolta dal convenuto in revocatoria di carenza di interesse ad agire del curatore attore a condizione che, ove emerga la sussistenza di un progetto di ripartizione che sia astrattamente idoneo a soddisfare i creditori convenuti in revocatoria ex art. 70, l.fall., il curatore dimostri la sussistenza di altri creditori poziori, che si siano insinuati al passivo prima della conclusione del giudizio di revocatoria fallimentare, essendo l'interesse ad agire condizione dell'azione che deve sussistere al momento della decisione. Ove non vi sia questa prova, il convenuto in revocatoria può contestare la sussistenza dell'interesse ad agire del curatore.

Il caso

Il curatore di un fallimento agiva ex art. 67, comma 2, l.fall. nei confronti di uno studio di commercialisti che aveva ricevuto diversi pagamenti nel periodo sospetto dalla società poi fallita per prestazioni professionali svolte.

I compensi erano assistiti da privilegio ex art. 2751-bis n. 2 c.c. ed erano stati ammessi al passivo.

Nello specifico parte convenuta chiedeva il rigetto della domanda attorea stante la carenza di interesse ad agire del curatore, perché le somme eventualmente revocate sarebbero state poi restituite in sede di riparto ai medesimi soggetti.

Veniva infatti prodotto in giudizio su ordine del giudice un progetto di ripartizione risalente alla seconda udienza del processo nel quale era riportata la collocazione (e quindi il conseguente pagamento) integrale non solo di tutti i creditori con privilegio ex art. 2751-bis n. 2 c.c. (compresi i conventi), ma anche di creditori successivi, persino con privilegi inferiori. Risultava quindi documentalmente che, già al momento della seconda udienza della causa di revocatoria, il fallimento aveva le risorse per pagare i crediti a tutela dei quali agiva in revocatoria. La procedura avrebbe quindi finito con il restituire agli stessi convenuti gli importi che essi avrebbero dovuto ripetere in conseguenza della dichiarazione di inefficacia.

Come si legge nella sentenza il piano di riparto è poi stato effettivamente eseguito.

Il fallimento replicava invocando la natura anti-indennitaria e redistributiva dell'azione ex art. 67 l.fall. essendo quindi irrilevante, ai fini dell'accoglimento della domanda, il fatto che i convenuti in revocatoria potessero in ipotesi conseguire successivamente la corresponsione delle somme oggetto della dichiarazione di inefficacia.

Le questioni giuridiche

La decisione in commento è di notevole interesse giacché affronta in modo diretto e per certi aspetti innovativo il tema del presupposto oggettivo dell'azione revocatoria fallimentare riaprendendo un dibattito che sembrava essere stato risolto dalla pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 2006.

La teoria indennitaria

Secondo la corrente di pensiero più risalente diffusa in giurisprudenza e in dottrina, l'accoglimento dell'azione revocatoria ex art. 67 l.fall. presupponeva la sussistenza del requisito oggettivo del danno come previsto dall'art. 2901 c.c. per l'azione revocatoria ordinaria.

Tale opinione è comunemente chiamata “teoria indennitaria” (si vedano a riguardo tra gli altri Niccolò, Sub art. 2904 in Commentario del codice civile, 269; Ferrara Jr. - Borgioli, Fall., Milano, 1995; Ragusa Maggiore, Contributo alla teoria unitaria della revocatoria fallimentare, Milano, 1960; Sandulli, Gratuità dell'attribuzione e revocatoria fallimentare, Napoli, 1976).

In quest'ottica la revocatoria fallimentare era considerata diretta derivazione di quella ordinaria differenziandosi solo per il peculiare "habitat" nel quale veniva esperita (cioè nell'ambito della procedura concorsuale e ad opera del curatore fallimentare).

Secondo la nozione tradizionale, il "danno" altro non è quindi che un pregiudizio patrimoniale in termini analoghi a quelli descritti dal codice civile consistente sia nella effettiva riduzione della garanzia patrimoniale, sia in una semplice variazione “qualitativa” del patrimonio del debitore che comporti maggiore difficoltà, incertezza o dispendiosità per il creditore nel realizzare quanto dovutogli (Cass. 29.4.2009, n. 10052, vedi in tal senso anche Cass. 4.3.2008, n. 5816 e Cass. 7.7.2007, n. 15310; Cass. 26.2.2002, n. 2792; Cass. 17.10.2001, n. 12678).

Tali circostanze si verificano ad esempio con la sostituzione di beni immobili con altri facilmente distraibili come il denaro, oppure sottoponendo i beni stessi a gravami o vincoli (Cass. 7.3.2005, n. 4933; Cass. 23.9.2004, n. 19131).

Secondo le prime pronunce della Cassazione in argomento il requisito del "danno" sussisteva per la revocatoria fallimentare se l'atto di disposizione patrimoniale aveva prodotto una effettiva diminuzione dell'attivo.

In altre pronunce invece il concetto di “danno” è stato valutato in relazione all'aggravamento dello stato di insolvenza.

Al contrario non sarebbe revocabile “l'atto che non abbia determinato nel patrimonio del debitore una situazione sfavorevole per i creditori o addirittura si sia risolto in un vantaggio come, ad esempio, se la cosa ricevuta dal fallito ed ancora esistente nel suo patrimonio sia aumentata di valore” (così Cass. 3.11.1956, n. 4127).

Più spesso, secondo giurisprudenza oggi pressoché unanime, il danno è inteso come lesione della par condicio creditorum (Cass. 14.10.2005, n. 20005; Cass. 5713/2005; Cass. 10.9.1992, n. 10570; Trib. Milano, 11.5.1992).

Secondo la teoria indennitaria l'eventus damni quindi, pur non essendo espressamente previsto dalla lettera dell'art. 67 l.fall., deve comunque sussistere (la sezione III – Titolo II – Capo III del R.D. 267/1942 ancora oggi parla chiaramente di "atti pregiudizievoli per i creditori"); la partita semmai si gioca sull'onere della prova.

In particolare il curatore-attore in revocatoria è esonerato dalla dimostrazione di tale requisito; esso infatti è presunto nelle ipotesi descritte dall'art. 67 l.fall..

Si tratterebbe però di una semplice presunzione iuris tantum avverso la quale è ammessa la prova contraria.

L'onere relativo grava sul convenuto in revocatoria il quale deve dimostrare che l'atto è risultato innocuo per la massa non comportando alcun pregiudizio (Trib. Torino, 5.2.1992; Cass. 26.5.1987, n. 4703) o che la cosa o il denaro ricevuti dal fallito siano tuttora nel suo patrimonio o siano stati utilizzati a vantaggio dei creditori nel rispetto della par condicio (App. Milano, 21.10.1983).

Non gioverà invece al convenuto dimostrare che la prestazione ricevuta abbia determinato utilità o incrementi patrimoniali per il fallito (App. Roma, 2.12.1996) o che, a fronte dell'atto di disposizione patrimoniale, il fallito abbia avuto in "cambio" un bene come controprestazione (Cass. 16.9.1992, n. 10570; Cass. 6.11.1999, n. 12358).

In particolare se la revocatoria è diretta nei confronti di un pagamento di un credito privilegiato, una volta dimostrata da parte del convenuto l'effettiva sussistenza della causa di prelazione anteriore, il positivo esperimento dell'azione dipenderà dalla dimostrazione - con onere questa volta a carico della curatela - del pregiudizio comunque arrecato alla massa dal pagamento medesimo per effetto della lesione di crediti poziori rispetto al creditore privilegiato convenuto (così Cass. 15.6.1974, n. 1753; Cass. 28.10.1988 n. 5857; Cass. 4.5.1983 n. 3050; Cass. 16.10.1987 n. 7649; Cass. 8.3.1993, n. 2751).

Il danno sarà invece giudicato inesistente se il pagamento era diretto al creditore privilegiato e non vi erano crediti aventi diritto di prededuzione o di prelazione di grado superiore o uguale a quello estinto (in passato al contrario si riteneva la generale non revocabilità del pagamento ante fallimento di un credito assistito da garanzia reale; si vedano Satta, Diritto Fallimentare, Padova, 1990; Ferrara, Il Fallimento, Milano, 1974; in giurisprudenza Cass. 20.6.1969, n. 2180).

Una particolare “declinazione” della teoria indennitaria si rinviene negli arresti giurisprudenziali in cui la domanda del curatore è stata respinta per carenza di interesse ad agire.

In questi casi l'attenzione dei giudici si è soffermata sul riflesso processuale che la mancanza di pregiudizio determina sulla condizione dell'azione svolta dalla curatela.

Si è detto quindi che il curatore è privo di interesse ad agire tutte le volte in cui l'attribuzione patrimoniale recuperata al fallimento a seguito dell'azione revocatoria finisce con essere riassegnata a chi ha subito la revocatoria vuoi per mancanza di crediti poziori, vuoi per la capienza dell'attivo fallimentare (Cass. 8.3.1993, n. 2751; Cass. 16.3.2005, n. 5713; Cass. 14.10.2005, n. 20005). In altre parole in questi casi non sussisterebbe alcuna esigenza di riparare lesioni alla par condicio creditorum.

In conseguenza di ciò la domanda del curatore dovrà essere giudicata inammissibile per mancanza di una condizione dell'azione (Cass. 26.1.1994, n. 732; Cass. 18.10.2001 n. 12700; vedi Bruschetta, Ancora in tema di revocabilità del pagamento di credito assistito da ipoteca non più revocabile: la Corte suprema ritorna clandestinamente sui suoi passi, in Fallimento 10/2006; per una sintesi sul collegamento tra requisito sostanziale del danno e interesse ad agire quale condizione processuale dell'azione e sulla sua persistenza nel corso del processo si veda Tarzia secondo il quale “la valutazione del danno non va riferita al momento in cui l'atto o il pagamento furono effettuati, bensì a quello in cui il curatore decide di esperire l'azione, dunque nel contesto del concorso fallimentare e delle sue peculiari regole sul soddisfacimento dei creditori” in nota a Cass. 19.7.2000, n. 9479 e Cass. 21.6.2000, n. 8419)

La teoria anti-indennitaria

Secondo la differente teoria anti-indennitaria, l'azione revocatoria fallimentare si distingue da quella ex art. 2901 c.c. e prescinde completamente dal requisito del danno poiché l'istituto non ha come obiettivo quello di "colpire" il singolo atto, di per sé ininfluente ai fini della determinazione del dissesto, bensì quello di ripartire equamente tra i creditori e i terzi che hanno contrattato con il fallito la perdita derivante dall'insolvenza del debitore (si vedano in argomento Maffei Alberti, Il danno nella revocatoria, Padova, 1970 e La funzione della revocatoria fallimentare, in Giurisprudenza Commerciale 1976, 362 e seguenti; Libertini, La funzione della revocatoria fallimentare una replica ed un'autocritica, in Giurisprudenza Commerciale 1977, I , 84; Borselli Il danno nell'azione revocatoria fallimentare in diritto Fallimentare 1972; Rusinenti, Natura dell'azione revocatoria fallimentare e nuovi spunti di discussione sul concetto di danno, in Il Fallimento, 12/2001, 1320 e seguenti; Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1996, 210; Rago, Manuale della revocatoria fallimentare, Padova, 2001).

Di fatto l'eventus damni sarebbe irrilevante o, nella migliore delle ipotesi, esistente in re ipsa nelle fattispecie descritte dall'art. 67 l.fall. secondo una presunzione assoluta di legge iuris et de iure avverso la quale non è ammessa prova contraria (Cass. 13.9.1997, n. 9075; Cass. 20.9.1991, n. 9853; Cass. 14.11.2003, n. 17189; Cass. 12.1.2001, n. 403).

Anzi, secondo tale impostazione l'azione potrebbe colpire anche atti di per sé non dannosi considerato che la ratio è quella di "punire" chi nel periodo sospetto ha contrattato con il fallito per conoscendo lo stato di insolvenza in cui versava (Maffei Alberti, Il danno nella revocatoria, Padova, 1970 e La funzione della revocatoria fallimentare, in Giurisprudenza Commerciale 1976, 362 e seguenti).

Da questo punto di vista l'istituto di cui all'art. 67 l.fall. – colpendo tutti gli atti compiuti nel periodo sospetto – mira a disincentivare i creditori dal ricevere atti di disposizione patrimoniale da parte del soggetto in stato di dissesto così da espellere l'impresa "decotta" dal mercato o spingerla, se ancora possibile, verso gli strumenti "istituzionali" previsti dall'ordinamento per l'emersione della crisi (Trib. Monza, 20.11.2001) e la trattazione dell'insolvenza.

La tutela della par condicio creditorum diviene allora non tanto la conseguenza dell'azione, ma il fondamento medesimo della revocatoria fallimentare attraverso una sorta di “collettivizzazione della perdita” a prescindere dal danno effettivo eventualmente provocato dall'atto di disposizione (così Corsi, L'azione revocatoria, in Trattato di diritto fallimentare diretto da Vassalli, Luiso, Gabrielli, Vol. III, Torino, 2014; Maffei Alberti, Il danno nella revocatoria, Padova, 1970).

La decisione delle Sezioni Unite del 2006

Con la pronuncia del 28.3.2006 n. 7028 le Sezioni Unite della Cassazione, partendo dal caso di revoca di una vendita eseguita dal fallito il cui prezzo era stato destinato a pagare un credito assistito da privilegio, hanno sposato la teoria distributiva anti-indennitaria sopra brevemente ripercorsa.

La sentenza perviene a simile conclusione evidenziando come la differenza essenziale tra la revocatoria ordinaria che prevede espressamente il requisito dell'eventus damni e quella fallimentare che non lo richiama consiste nel fatto che la prima si riferisce ad atti di disposizione compiuti in una situazione di “potenziale insolvenza”, mentre la seconda riguarda atti compiuti a dissesto già verificatosi come accertato dalla sentenza dichiarativa di fallimento.

A causa di questa differenza sostanziale solo le azioni ex art. 2901 c.c. richiedono la dimostrazione effettiva del pregiudizio alle ragioni dei creditori.

Anzi le ipotesi di cui all'art. 67 l.fall. finiscono con il colpire non soltanto i contraenti a titolo oneroso con il fallito, ma anche i creditori che hanno ottenuto (legittimamente) il pagamento di crediti liquidi ed esigibili.

Infatti solo l'art. 2901 c.c. prevede la tipica esenzione per l'adempimento di debiti scaduti, mentre il pagamento degli stessi può essere revocato ex art. 67 l.fall.

Da ciò la Cassazione deduce che il presupposto oggettivo della revocatoria ex art. 67 l.fall. “si correli non alla nozione di danno quale emerge dagli istituti ordinari dell'ordinamento bensì alla specialità del sistema fallimentare, ispirato all'attuazione del principio della par condicio creditorum, per cui il danno consista nel puro e semplice fatto della lesione di detto principio, ricollegata con presunzione legale assoluta, al compimento dell'atto vietato nel periodo indicato dal legislatore”.

Peraltro secondo le Sezioni Unite sarebbe impossibile nel giudizio di revocatoria fornire la cosiddetta prova contraria sopra ricordata relativa alla non sussistenza di lesioni effettive della par condicio creditorum.

Infatti, proseguono i giudici della S. Corte, “è solo in seguito alla ripartizione dell'attivo - e non anche prima nella fase dell'esercizio delle revocatorie - che potrà verificarsi se quel pagamento non pregiudichi le ragioni di altri creditori privilegiati, che anche successivamente all'esercizio dell'azione revocatoria potrebbero in tesi insinuarsi” (precisazione questa di fatto già emersa nel precedente di Cass. 15.9.1997, n. 9146 con nota di Petraglia, Revocatoria fallimentare e presunzione di danno per la massa, in Il Fallimento, 10/1998).

La giurisprudenza successiva (di legittimità e di merito) si è uniformata a tali principi applicandoli non solo a ipotesi di revoca di contratti o negozi (come era il caso da cui aveva preso le mosse la pronuncia delle Sezioni Unite del 2006), ma anche direttamente a pagamenti di crediti assistiti da causa di prelazione, come nella fattispecie decisa nella sentenza in commento (è questo il caso anche di Cass. 8.3.2010, n. 5505 con nota critica di Tarzia, La funzione redistributiva e il danno nella revocatoria fallimentare, in Il Fallimento 8/2010; si leggano anche ex multis sempre per l'applicazione della teoria anti-indennitaria Cass. 10.11.2006, n. 24046; Cass., 12.12.2014, n. 26216; Cass. 17.12.2010, n. 25571; Trib. Milano, 8.5.2013; Cass. 19.12.2012, n. 23430; Trib. Napoli, 1.3.2012; Trib. Piacenza, 31.3.2011).

La decisione del Tribunale di Milano

Come accennato nella parte in fatto, il caso di specie riguarda la revoca ex art. 67 l.fall. comma 2 di pagamenti di crediti assistiti da prelazione.

Il Tribunale, pur confermando come il curatore non abbia (almeno "in prima battuta") l'onere di dimostrare un pregiudizio concreto per la massa (dato che ogni pagamento nel periodo sospetto si presume dannoso per la massa dei creditori), si interroga sulla reale offensività di simili versamenti laddove non sussistano in concreto creditori effettivamente pregiudicati da tali atti di disposizione.

Nello specifico la decisione in commento afferma che la presunzione di lesione alla par condicio creditorum del pagamento di credito assistito da prelazione effettuato nel periodo sospetto non "regge" se al momento della predisposizione di un progetto di ripartizione vi sia la prova che non ci sono altri creditori ammessi al passivo che potrebbero beneficiare di una ripartizione di attivo ulteriore conseguente alla ripetizione del pagamento oggetto di revoca.

In questo modo viene meno l'interesse ad agire del curatore quale condizione dell'azione che deve sussistere al momento della decisione e la pretesa viene rigettata.

La sentenza in esame si avvicina dunque alle tesi indennitarie e nella approfondita motivazione (come prescrive l'ordinanza 174 del 9.1.2015 della Cassazione) si preoccupa di osservare come simile conclusione in realtà non si ponga in contrasto con l'arresto delle Sezioni Unite del 2006.

In quel caso la Corte (come ricordato sopra) ha sì escluso la possibilità di prova contraria in favore del convenuto in revocatoria, ma lo ha fatto perché l'eventuale danno alla massa sarebbe stato riscontrabile solo nella fase di "riparto dell'attivo" quale momento idoneo a verificare la presenza di eventuali creditori poziori non soddisfatti.

Osserva il Tribunale di Milano come le Sezioni Unite non abbiano fatto cenno al progetto di ripartizione finale, ma solo alla circostanza che un riparto vi sia stato e che dallo stesso si evinca la soddisfazione di creditori di grado non poziore rispetto a quello oggetto di revocatoria.

Nel caso di specie il citato progetto di riparto aveva già evidenziato in corso di causa la sussistenza di disponibilità per pagare tutti i creditori privilegiati insinuati al passivo fino allo stesso grado dei convenuti in revocatoria e anche oltre.

È stato quindi possibile escludere in corso di causa lesioni alla par condicio creditorum considerati i crediti ammessi al passivo.

Tuttavia, come rileva la stessa sentenza in commento, le Sezioni Unite concludono il ragionamento con un'affermazione "dirompente" relativa cioè alla necessità di verificare l'offensività del pagamento revocabile anche in relazione ad altri creditori privilegiati che, persino successivamente all'esercizio dell'azione revocatoria stessa, potrebbero in ipotesi insinuarsi e che non avevano ancora provveduto all'epoca del giudizio.

In questo modo, di fatto, non sarebbe mai possibile escludere ipotesi di lesioni alla par condicio creditorum.

Secondo il Tribunale di Milano però la tutela dei creditori che potrebbero insinuarsi al passivo dopo l'esercizio dell'azione revocatoria deve essere letta in senso relativo e non assoluto.

In altre parole la potenzialità lesiva del pagamento astrattamente revocabile va considerata non in rapporto a ipotetici creditori privilegiati che non abbiano formulato alcuna domanda di ammissione al passivo, ma solo in relazione ai creditori privilegiati che abbiano effettivamente già presentato insinuazione al passivo o per i quali sia pendente opposizione.

Il Tribunale giunge a simile conclusione per due ordini di ragioni.

In primo luogo la scelta di un creditore concorsuale di diventare "concorrente" attraverso la partecipazione alla verifica crediti è del tutto libera e volontaria, tanto che potrebbe anche rinunciarvi.

Appare dunque irragionevole "preoccuparsi" di soggetti che potrebbero tranquillamente scegliere di non presentare alcuna domanda di ammissione al passivo

Sotto altro profilo è mutato il quadro normativo post 2006 rispetto al precedente deciso da Cassazione Sezioni Unite 7028/2006. Nello specifico:

  • l'art. 101, comma 4, l.fall. oggi prevede un limite temporale di 12 (o 18) mesi per i creditori tardivi per poter presentare domanda di insinuazione al passivo (mentre l'istante può essere "supertardivo" andando oltre il termine citato solo se dimostra che il ritardo non era dovuto a causa a lui imputabile);
  • l'art. 124, comma 4, l.fall. in tema di concordato fallimentare consente al proponente di limitare la propria responsabilità solo ai creditori anteriori al deposito della domanda di concordato;
  • l'art. 114 l.fall. stabilisce la non ripetibilità dei pagamenti effettuati in favore dei creditori collocati in riparto;
  • l'art. 104-ter l.fall. impone inoltre oggi esigenze di celerità nella liquidazione fallimentare con l'obbligo di procedere a riparti parziali ogni quattro mesi senza attendere insinuazioni da parte di creditori tardivi.

Ciò è tanto più vero se si considera che oggi sempre più la necessità di "fare presto" è un obbiettivo fondamentale che la procedura concorsuale deve perseguire al pari della par condicio.

Anche per tali ragioni quindi, secondo un'interpretazione per così dire "evolutiva" dei principi di Cassazione Sezioni Unite 7028/2006, l'effettiva lesione della par condicio creditorum di pagamenti di crediti privilegiati va concretamente verificata nel giudizio di revocatoria dinanzi dell'eccezione del convenuto e va esclusa se, a fronte di riparto dell'attivo (genericamente inteso, anche solo come progetto di riparto), risulta che l'utilità derivante dall'accoglimento dell'azione non andrebbe a vantaggio di altri creditori, ma solo al convenuto stesso in revocatoria.

Diversamente argomentando, se i principi delle Sezioni Unite fossero spinti allo stremo come sostenuto dal curatore nella fattispecie in esame (cioè attendere il deposito e l'approvazione formale del riparto) vi sarebbe un evidente caso di solve et repete per cui il convenuto in revocatoria dovrebbe sempre pagare per poi essere "rimborsato" in sede di riparto, essendo questo cronologicamente successivo all'esercizio dell'azione revocatoria.

Osservazioni

La sentenza del Tribunale di Milano ha il pregio di valutare in modo approfondito i principi enunciati dalla sentenza n. 7028/2006 per aggiornarli e adeguarli meglio al quadro normativo attuale.

In effetti già in passato non erano mancati giudizi critici in dottrina nei confronti del dictum delle Sezioni Unite e delle successive pronunce conformi della Corte regolatrice e dei giudici di merito (ex multis Patti, Natura dell'azione revocatoria fallimentare: le sezioni unite difendono il feticcio della par condicio, in Il Fallimento, 10/2006 e seguenti; Tarzia, La"funzione redistributiva" e il "danno" nella revocatoria fallimentare, in Il Fallimento 8/2010).

Il provvedimento in commento ha "squarciato il velo" sottolineando come oggi la teoria anti-indennitaria non sembri in linea non solo con le novità normative del sistema fallimentare citate nella sentenza del Tribunale di Milano, ma anche con le modifiche introdotte dal 2005 in poi proprio in tema di azione revocatoria.

Progressivamente abbiamo assistito ad una mutilazione dell'istituto di cui all'art. 67 l.fall. attraverso due principali linee di azione: da un lato il drastico dimezzamento del periodo sospetto, dall'altro l'ampliamento del novero delle esenzioni.

Proprio percorrendo tale seconda direttrice, la dottrina non ha mancato di rilevare come il nuovo sistema di deroghe alla declaratoria di inefficacia paia ispirato alla teoria indennitaria (si vedano Terranova, La nuova disciplina delle revocatorie fallimentari, in Diritto fallimentare, 2006, I, 257 s.; Cerrato, Appunti sulla “filosofia” della nuova revocatoria fallimentare, in Giurisprudenza italiana, 2006, 1775; Corsi, L'azione revocatoria, in Trattato di diritto fallimentare diretto da Vassalli, Luiso, Gabrielli, Vol. III, Torino, 2014; contra Meoli, Vecchie e nuove esenzioni dalla revocatoria fallimentare, in giurisprudenza commerciale, I, 2006).

Infatti pur in assenza (anche dopo il 2005) di una specifica presa di posizione del legislatore in ordine al dibattito tra le contrapposte teorie, il comune denominatore delle varie esenzioni dell'art. 67, comma 3, l.fall. sembra proprio la limitazione dell'intervento del curatore fallimentare agli "atti davvero pregiudizievoli per i creditori" (come in effetti riporta la Sezione III - Titolo II - Capo III del R.D. 267/1942) e che abbiano quindi determinato un danno concreto, effettivo e dimostrabile alla massa, non semplicemente in re ipsa.

In quest'ottica le nuove esenzioni mirerebbero dunque ad eliminare la situazione di incertezza e instabilità nei traffici economici determinata dall'istituto della revocatoria mantenendo gli atti esenti perché "non dannosi" e spesso relativi proprio ai costi sopportati per fronteggiare la crisi.

Si è al riguardo osservato (Bozza, L'azione revocatoria nel fallimento, in Giurisprudenza Commerciale, 5/2013; contra Galletti, Le nuove esenzioni della revocatoria fallimentare, in Giurisprudenza Commerciale, 1/2007, 163 e seguenti) che l'obiettivo è oggi salvaguardare l'impresa e la sicurezza dei rapporti commerciali (come si vede nella protezione accordata ai pagamenti in termini d'uso o in esecuzione di un piano di risanamento o di un accordo di ristrutturazione dei debiti o per ottenere prestazioni strumentali all'accesso alla procedura di concordato preventivo); finalità che la tesi anti-indennitaria finirebbe invece per minacciare.

In effetti anche le parole della relazione governativa accompagnatoria del d.l. 35/2005 sono in linea con le esigenze sopra ricordate: "l'istituto della revocatoria fallimentare viene rimodulato attraverso un intervento che, da un lato precisa meglio i presupposti per l'esercizio dell'azione (oggi sovente fonte di incertezze applicative e di contrasti giurisprudenziali), e dall'altro inserisce una completa disciplina di esenzione dalla revocatoria, al fine di evitare che situazioni che appaiono meritevoli di tutela siano invece travolte dall'esercizio, sovente strumentale, delle azioni giudiziarie conseguenti all'accertata insolvenza del destinatario dei pagamenti"

Sotto altro profilo, dal punto di vista processual-civilistico l' “attesa” di creditori non ancora insinuati al passivo (e che forse non si insinueranno mai) - ove intesa in senso assoluto e non relativo come invece proposto dalla sentenza in commento - cozzerebbe con il requisito dell'interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. che, come noto, deve essere concreto ed attuale al momento della decisione e non semplicemente ipotetico e futuro.

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