ATP conciliativo ed altri profili processuali della legge 24/2017 sulla nuova responsabilità sanitaria

Michele Ruvolo
27 Ottobre 2017

Diverse disposizioni della l. n. 24/2017 riguardano aspetti di natura processuale e sono specificamente volte a cercare di ridurre il contenzioso in relazione ai procedimenti di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria, nonché a fornire una maggiore tutela al danneggiato ed a ridurre l'esposizione dei medici dipendenti di strutture sanitarie pubbliche e private. È bene adesso provare ad esaminare distintamente i vari istituti in esame e le diverse questioni problematiche che si pongono già ad una prima lettura.
L'ATP obbligatorio

È stato innanzitutto previsto l'obbligatorio e preliminare espletamento, davanti al giudice competente, di una consulenza tecnica preventiva ai sensi dell'art. 696-bis c.p.c. La ratio sottesa al nuovo istituto è quella per cui dopo la CTU sul nesso di causalità tra condotta medica e danno e sull'esistenza di profili di colpa nonché sui danni subiti si aprono percorsi conciliativi che il CTU deve potere seguire, nella consapevolezza, comunque, che anche in caso di mancato accordo rimane in ogni caso lo svolgimento di un accertamento tecnico rilevante nel giudizio di merito.

La competenza è del Presidente del Tribunale o del giudice della causa di merito?

Non sembra un caso che sia stato contemplato che tale ATP vada espletato davanti al «giudice competente» invece che davanti al Presidente del Tribunale, come previsto dall'art. 696 c.p.c. Si vuole, infatti, che l'ATP si svolga davanti allo stesso giudice che poi dovrà trattare l'eventuale causa di merito. Ed è per questo che l'art. 8 l. 24/2017 prevede che quando il giudice rileva che il procedimento di cui all'art. 696-bis c.p.c. non è stato espletato assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dinanzi a sé dell'istanza di consulenza tecnica in via preventiva. Ed è sempre per questo motivo che lo stesso art. 8 stabilisce che il successivo ed eventuale ricorso ex art. 702-bis c.p.c. si deposita «presso il giudice che ha trattato il procedimento» di accertamento preventivo. Ciò garantisce unitarietà alla vicenda processuale ed assicura anche maggiore linearità nei rapporti tra quesiti formulati, risposte del consulente e decisione finale.

Chi va nominato come consulente? E quanti nominarne? E c'è nullità relativa se ne viene nominato solo uno?

Per garantire un elevato livello di competenza tecnica, si è poi previsto che l'incarico di CTU in materia di responsabilità medica vada affidato ad un collegio composto da un medico specialista in medicina legale e da uno o più specialisti nella disciplina che siano iscritti negli albi del Tribunale, abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento e non si trovino in posizione di conflitto di interessi nel procedimento stesso o in altri connessi. Si è poi stabilito espressamente, trattandosi di ATP a fini conciliativi ex art. 696-bis c.p.c., che i consulenti d'ufficio debbano anche possedere adeguate e comprovate competenze nell'ambito della conciliazione acquisite pure mediante specifici (ma non meglio precisati) percorsi formativi. Ai componenti di questo collegio di medici spetta, come sempre, un compenso globale, senza che però sia applicabile l'aumento del 40 per cento per ciascuno degli altri componenti del collegio previsto dall'art. 53 T.U. spese di giustizia.

Per quanto innanzitutto concerne quest'ultima disposizione si noti che non è condivisibile quell'opzione interpretativa per cui la previsione della mancata applicazione della maggiorazione del 40% andrebbe letta nel senso che spetterebbe l'intero ad entrambi i consulenti d'ufficio. L'art. 15 stabilisce, invero, che «nella determinazione del compenso globale non si applica l'aumento del 40% per ciascuno degli altri componenti del collegio previsto dall'articolo 53» del T.U. spese di giustizia (d.P.R. n. 115/2002), il che comporta che il compenso è sempre globale ma senza aumento del 40% per il secondo componente del collegio. Insomma, due consulenti al prezzo di uno. Si è voluto garantire specializzazione senza aumento dei costi.

Le dette disposizioni sul numero, sulle competenze e sul compenso dei consulenti – certamente orientate a garantire, in un settore in cui la prova scientifica e la valutazioni tecniche sono determinanti ai fini della valutazione della fondatezza della domanda formulate, il maggior grado di professionalità all'accertamento peritale senza però far gravare maggiori costi sulle parti – potranno però costituire un problema non tanto per l'inutilità di due consulenti negli accertamenti relativi a questioni molto semplici, ma soprattutto perché è già complesso in numerose realtà giudiziarie italiane trovare esperti disponibili ad effettuare consulenze in materia di responsabilità medica per la tendenza, fortunatamente non diffusa ovunque, ad evitare di svolgere accertamenti che possano portare all'accertamento di responsabilità di colleghi. Senza considerare che in caso di patrocinio a spese dello Stato la rinunzia agli incarichi è ancora più frequente a causa del regime della prenotazione a debito.

Dopo l'entrata in vigore della l. n. 24/2017 serviranno ora addirittura due consulenti, di cui uno pure (in molti casi giustamente) specialista (che più facilmente sarà potenzialmente propenso a non accettare l'incarico) e peraltro entrambi muniti di «adeguate e comprovate competenze nell'ambito della conciliazione» e per di più pagati al prezzo di uno.

Va comunque precisato che non pare prevista alcuna nullità (relativa) se viene nominato solo un consulente(nullità che si dovrebbe comunque far valere nella prima udienza utile, e quindi in quella successiva alla nomina dei consulenti ovvero, negli Uffici in cui dopo la nomina non viene fissata altra udienza in quella ex art. 183 c.p.c. del giudizio di merito).

Quali vantaggi ha la mediazione rispetto all'ATP preventivo quale condizione di procedibilità e quali l'ATP rispetto alla mediazione?

Il previo accertamento tecnico preventivo a fini conciliativi costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, in alternativa al procedimento di mediazione di cui al d.lgs. n. 28/2010.

Per munire di procedibilità la sua domanda l'attore potrà quindi scegliere tra ATP e mediazione. Non sussiste invece mai l'alternativa tra ATP conciliativo e negoziazione assistita. L'art. 8 l. n. 24/2017 statuisce, infatti, che non trova applicazione l'art. 3 del d.l. 12 settembre 2014 n. 132 (Conv. in l. n. 162/2014). Quindi, nei giudizi in cui la domanda risarcitoria del paziente o dei suoi eredi concorre con la domanda del sanitario di condanna al pagamento del suo corrispettivo allora si deve richiedere solo l'ATP conciliativo, non sostituibile con la negoziazione assistita.

Si tratta comunque di condizioni di procedibilità (e non di proponibilità) della domanda, il che comporta che essa non deve necessariamente sussistere al momento della proposizione della stessa domanda, non essendo richiesta a pena di inammissibilità di quest'ultima, ed è sanabile retroattivamente condizionando la sua mancanza la prosecuzione del giudizio, che può continuare se la condizione interviene in corso di causa (v. anche art. 5 d.lgs. n. 28/2010 e art. 8 l. n. 24/2017).

È bene provare ad elencare i possibili vantaggi che possono portare a scegliere la mediazione rispetto a quelli che inducono a ritenere preferibile l'ATP.

Innanzitutto, la mediazione possiede, quale “vantaggio competitivo” rispetto alla procedura ex art. 696-bis c.p.c., la possibilità di effettuare “sessioni separate” in cui non è rispettato il principio del contraddittorio, al quale invece è tenuto il CTU quale ausiliario del giudice. Nel corso delle sessioni separate il mediatore, eventualmente insieme all'eventuale tecnico, può venire a conoscenza di dati estremamente utili e non comunicabili alla parte assente, che si rivelano spesso indispensabili per formulare una proposta che possa essere accettata. E non è raro il caso che, una volta definito un terreno comune, le proposte alternative fornite dalle parti siano sovrapponibili. Certo, è anche vero che quando il CTU tenta la conciliazione, senza compiere quindi alcuna attività volta alla risposta ai quesiti, non pare che sia da escludere in assoluto la possibilità che egli svolga sessioni separate con le parti, spesso indispensabili per congegnare il miglior assetto conciliativo e verificare l'effettiva disponibilità dei soggetti coinvolti ad addivenire ad una soluzione bonaria della lite.

Inoltre, premesso che la nuova disciplina normativa sulla responsabilità sanitaria ha previsto che dopo l'espletamento dell'ATP le cause di merito debbano essere introdotte con il rito sommario di cognizione, si potrebbe sensatamente ritenere che, instaurando ai fini della procedibilità della domanda il procedimento di mediazione, allora non vi sia più l'obbligo di introduzione della lite ai sensi dell'art. 702-bis c.p.c. (ben potendo optare l'attore per il rito ordinario di cognizione). Ed effettivamente il legislatore ha previsto il ricorso al rito sommario di cognizione dopo l'ATP in quanto l'atto istruttorio fondamentale è stato già effettuato. E che il necessario impiego della procedura di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c. sia da limitare al solo caso dell'ATP (e non della mediazione) lo si ricava pure dal fatto che l'art. 8 comma 3 del nuovo testo normativo prevede che il ricorso ex art. 702-bis c.p.c. vada depositato entro il termine di 90 giorni dal deposito della relazione medica o dalla scadenza del termine perentorio di 6 mesi per l'ultimazione dell'ATP (e ciò a pena di perdita di efficacia della domanda). Dunque, nell'ipotesi in cui la condizione di procedibilità sia soddisfatta attraverso il ricorso alla mediazione il paziente-attore potrebbe conservare, in un'ottica di strategia difensiva, la possibilità di usufruire di due riti a scelta: il rito sommario di cognizione ovvero quello ordinario.

Infine, la mediazione si risolve in una buona soluzione per le cause relative al solo consenso informato, in cui è inutile procedere con un accertamento tecnico da parte di un esperto.

A parte quest'ultima ipotesi, però, i profili appena sopra evidenziati non sembrano tali da far pensare che verrà preferito lo strumento della mediazione rispetto a quello dell'accertamento tecnico preventivo (fatta eccezione per i casi in cui non occorre alcuna verifica scientifica, come ad esempio per le controversie relative al solo consenso informato).

È da ritenere che, dinanzi alla scelta se esperire la mediazione ovvero l'ATP, si tenderà a preferire quest'ultimo, non soltanto perché la mediazione in materia di responsabilità medica non ha portato grandi risultati in assenza di un accertamento di natura tecnica, ma anche alla luce di due previsioni contenute nel nuovo testo normativo:

1) la previsione della partecipazione obbligatoria all'ATP per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione, che hanno pure l'obbligo di formulare l'offerta di risarcimento del danno ovvero di comunicare i motivi per cui ritengono di non formularla, con l'ulteriore previsione che in caso di sentenza a favore del danneggiato il giudice deve trasmettere copia della sentenza all'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) per gli adempimenti di propria competenza nei casi in cui l'impresa di assicurazione non abbia formulato l'offerta di risarcimento nell'ambito dell'ATP;

2) la previsione della necessaria condanna, in seno al provvedimento che definisce il giudizio, delle parti che non abbiano partecipato all'ATP al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall'esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente (e senza limiti minimi o massimi predeterminati dal legislatore), in favore della parte che è comparsa (che non necessariamente è il solo ricorrente, potendosi quindi avere anche una condanna in favore di più parti comparse).

Questa seconda previsione, ovviamente finalizzata a tentare di agevolare il buon esito della conciliazione tramite la sollecitazione della comparizione delle parti, va ben oltre l'attuale disciplina (contenuta nel d.lgs. 28/2010) della condanna al semplice pagamento di una somma pari al contributo unificato per la parte che non compare, peraltro senza giustificato motivo, al procedimento di mediazione.

L'attore, quindi, probabilmente preferirà l'ATP in quanto sa che anche nel giudizio di merito sarebbe comunque nominato un consulente d'ufficio, sa che le sue controparti molto probabilmente si costituiranno nel procedimento ex art. 696-bis c.p.c., sa che probabilmente la Compagnia di Assicurazione formulerà una proposta risarcitoria in seguito all'eventuale riconoscimento di responsabilità sanitaria da parte del CTU e sa che, in caso di rigetto della sua domanda, potrebbe pure vedersi rimborsate le spese di lite e di CTU (ed avere anche una somma ulteriore) qualora una delle sue controparti non dovesse partecipare all'ATP. Inoltre, sa pure che tale condanna è obbligatoria e non discrezionale (prevedendo l'art. 8 comma 4 l. n. 24/2017 che il giudice “condanna” e non che egli “può condannare”) e non richiede neppure che chi giudica valuti se questa mancata partecipazione sia o meno giustificata (non essendo richiesto questo tipo di accertamento, a differenza di quanto accade per la mediazione). Né l'attore rischia che i tempi si allunghino eccessivamente in quanto il testo normativo prevede un termine massimo di durata del procedimento di sei mesi (e quindi di poco più lungo di quello di tre mesi contemplato per la mediazione).

Per quali cause occorre l'ATP?

Poiché l'art. 8 l. n. 24/2017 contempla l'ATP quale condizione di procedibilità della domanda esclusivamente per «chi intende esercitare un'azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria», è da ritenere che non occorra l'ATP preventivo con riferimento alle cause (comunque molto rare) di mero accertamento della responsabilità, per le quali continuerebbe a sussistere la sola mediazione quale condizione di procedibilità . In proposito si ricordi che la giurisprudenza costituzionale ha enunciato, ad esempio nella sentenza del 2007 (C.Cost. n. 403 del 2007), il principio generale per cui deve essere garantito l'accesso immediato alla giurisdizione ordinaria ed ha ammesso che questo può essere sì ragionevolmente derogato, introducendo forme di giurisdizione cd. condizionata tramite disposizioni di legge, le quali vanno però considerate “di stretta interpretazione” (l quale le disposizioni che stabiliscono limitazioni all'accesso alla giustizia vanno interpretate restrittivamente (cfr. Trib. Palermo, sez. dist. di Bagheria, 11 luglio 2011, a proposito della vexata quaestio della soggezione della domanda riconvenzionale a mediazione).

L'ATP preventivo non occorre neppure per le costituzioni di parte civile davanti al giudice penale e ciò perché la disposizione appena citata riguarda soltanto le domanda rivolte al “giudice civile”, il che risulta coerente con quanto previsto in tema di mediazione dal d.lgs. n. 28/2010, che stabilisce che la mediazione non si applica alla costituzione di parte civile. E l'ATP conciliativo probabilmente non va neppure richiesto per le azioni di mera rivalsa di cui all'art. 9 l. n. 24/2017.

Si pone poi la questione della necessità dell'ATP preventivo in caso di domanda risarcitoria formulata in via riconvenzionale all'interno di un giudizio instaurato dal medico o dalla struttura per il pagamento delle proprie spettanze professionali. La soluzione al quesito in questione è comunque la stessa (sulla quale non vi è comunque concordia nella giurisprudenza di merito) che si ritiene di adottare in merito all'esigenza o meno della mediazione con riferimento alle domande riconvenzionali (per la soluzione negativa v., tra tutte, Trib. Palermo, sez. dist. di Bagheria, 11 luglio 2011 e per quella positiva v. anche Trib. Roma, sez. dist. Ostia, 15 marzo 2012).

Cosa succeda se il termine semestrale per l'espletamento dell'ATP non viene rispettato?

Secondo una prima impostazione, venendo in questione un termine perentorio, quanto accertato in sede di ATP non potrà essere utilizzato nel successivo giudizio di merito, nel quale dovrà essere rinnovata la CTU. In altri termini, la conseguenza della mancata osservanza del termine perentorio sarebbe l'inutilizzabilità di quanto fatto e la necessità di rinnovarlo.

In realtà, occorre partire dal dato normativo, secondo il quale «ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda (Sul termine di prescrizione e su quello di decadenza, v. analogamente art. 5, comma 6, d.lgs. n. 28/2010) sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all'art. 702-bis del codice di procedura civile».

Pertanto, l'unica conseguenza connessa al mancato rispetto del termine perentorio di sei mesi è che l'attore potrà ritenere munita di procedibilità la sua domanda e instaurare o continuare il giudizio. Anche in ossequio ad un principio generale di economia processuale (tanto più valido quando le stesse parti del giudizio di merito hanno preso parte alla fase di ATP, senza che quindi sia ipotizzabile una lesione del diritto di difesa) l'attività svolta nell'ambito dell'accertamento tecnico tra le medesime parti potrà comunque essere utilizzata nel successivo giudizio di merito, che ne costituirà un sostanziale completamento.

Per fare però valere l'interruzione del termine di prescrizione avvenuta con il deposito del ricorso per ATP (e quindi per avvalersi degli effetti sostanziali della relativa domanda) occorrerà presentare, entro 90 giorni dal deposito della relazione del consulente o dalla scadenza del citato termine, ricorso introduttivo di un rito sommario di cognizione.

Come e quando va rilevata l'improcedibilità della domanda per mancato esperimento dell'ATP?

Come in materia di mediazione, anche per l'ATP l'improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Pertanto, deve ritenersi che il rilievo officioso sia obbligatorio e non facoltativo (la norma, infatti, stabilisce che l'improcedibilità «deve essere… rilevata d'ufficio»), e non quindi evitabile anche a seguito di istanza di tutte le parti (che devono almeno tentare la via della conciliazione), e che esso sia da compiere quando il giudice pone alle parti le questioni rilevabili d'ufficio ex art. 183, comma 4, c.p.c., e dunque prima della concessione dei termini ex art. 183 comma 6, c.p.c. Inoltre, quando il giudice rileva che il procedimento di cui all'art. 696-bis c.p.c. non sia stato espletato ovvero che sia iniziato ma non si sia concluso, e che quindi allo stato la domanda sia improcedibile, egli non emette sentenza (trattandosi di questione relativa alla procedibilità, sanabile, e non alla proponibilità della domanda), ma assegna alle parti il termine di 15 giorni per presentare dinanzi a sé l'istanza di consulenza tecnica in via preventiva ovvero di completamento del procedimento (oppure, è da credere, per instaurare il procedimento di mediazione; v. infra). Emetterà sentenza di improcedibilità solo in caso di ulteriore mancata instaurazione dell'ATP o della mediazione (e ciò anche perché il primo rinvio, per sanare l'improcedibilità, è previsto dal legislatore, ma non potrebbe altrimenti stabilirsi quando debba chiudersi in rito il processo: se alla seconda, alla terza o alla quarta mancata instaurazione dell'ATP o della mediazione).

In altri termini, la parte attrice può scegliere se depositare prima il ricorso ex art. 696-bis per l'ATP conciliativo o prima il ricorso introduttivo del sommario di cognizione. Nulla esclude, comunque, che egli possa anche presentarli insieme.

Cosa materialmente accade nelle cinque diverse possibili situazioni processuali ipotizzabili?

Se viene prima instaurato, come sarebbe auspicabile, il procedimento per ATP, il giudizio di merito non verrà mai incardinato se il CTU riuscirà a far accordare le parti (al verbale di conciliazione è attribuita dal giudice la qualità di titolo esecutivo ai fini dell'espropriazione e della esecuzione in forma specifica, nonché ai fini della iscrizione ipotecaria). In caso contrario, il ricorso ex art. 702-bis c.p.c. andrà depositato, affinché la domanda sia procedibile, entro 90 giorni dal deposito della consulenza o dalla scadenza del termine di sei mesi dal deposito dell'ATP.

Se, invece, viene presentato prima il ricorso ex art. 702-bis c.p.c. senza che vi sia stato ancora l'ATP conciliativo, allora il giudice, rilevata la momentanea improcedibilità della domanda, assegnerà alle parti termine di 15 giorni per presentare davanti a lui l'istanza di ATP o, in alternativa, la domanda di mediazione. Qualora, inoltre, l'ATP sia stato già avviato ma non concluso al momento della prima udienza del rito sommario di cognizione, il giudice darà un termine alle parti per completare il procedimento di ATP. Se tale ultimo procedimento è già in corso da quasi sei mesi, è da ritenere che il termine assegnato dal giudice possa anche comportare una durata complessiva del procedimento superiore al detto termine di sei mesi (pure qualificato dal legislatore come perentorio) e ciò perché la domanda è già procedibile in quanto l'ATP è stato instaurato e il giudizio di merito è già stato incardinato. Evidentemente, ogni volta che il giudizio segue le regole del rito sommario è possibile per il giudice convertire il rito in ordinario. Si pensi alle controversie in cui si pongono numerose questioni ulteriori rispetto a quelle della semplice responsabilità medica (e relative ad esempio al consenso informato o a profili assicurativi ovvero a danni non patrimoniali diversi da quello biologico o a quelli patrimoniali) ed in cui vengono formulate numerose richieste istruttorie. Peraltro, l'art. 8 della legge 24/2017 espressamente dispone che “si applicano gli artt. 702-bis e ss.c.p.c.”, e quindi anche il comma 3 dell'art. 702-ter c.p.c. sul mutamento di rito in ordinario.

Si potrebbe porre qualche problema nel caso in cui il processo venga introdotto con citazione senza previo ATP. In questo caso il giudice può assegnare un termine per espletare la mediazione (che costituisce una facoltà per la parte in alternativa all'ATP) ovvero assegnare il detto termine di 15 giorni per proporre davanti a lui istanza di ATP ex art. 8, comma 2, l. n. 24/2017. Ci si deve comunque chiedere se il giudizio possa poi continuare nelle forme del rito ordinario o vada convertito in un sommario di cognizione. Sembra preferibile ritenere che, non essendo imposta dalla norma la conversione in questione (non essendosi probabilmente il legislatore posto questo problema), spetterà al giudice valutare l'opportunità di mutare o meno il rito ex art. 183-bis c.p.c. Peraltro, nel d.lgs. n. 150/2011 sulla semplificazione dei riti si prevedono espressamente casi di impossibilità di mutamento del rito. Invece, nella legge n. 24/2017 non è contemplata alcuna impossibilità di mutamento del rito.

Ed altri problemi potrebbero porsi nel caso in cui l'attore preferisca optare per la mediazione al fine di munire di procedibilità la propria domanda. In questo caso, ultimato negativamente il procedimento di mediazione, si applicherà il termine di 90 giorni per il deposito del ricorso ex art. 702-bis c.p.c. previsto dal comma 3 dell'art. 8 per ritenere procedibile la domanda? Tale ultimo comma era calibrato sull'ATP. Quando è stata introdotto, nell'ultima versione parlamentare dell'impianto normativo, il riferimento all'alternativa della mediazione non si è ben amalgamato tale ultima previsione con le disposizioni già contenute nel tessuto legislativo. Comunque, proprio perché tale comma non si adatta in alcun modo alla mediazione (esso fa infatti riferimento al deposito della relazione del tecnico, alla scadenza del termine perentorio per l'ATP, all'introduzione del sommario di cognizione davanti allo stesso giudice dell'ATP), pare preferibile ritenere che in caso di mediazione in materia di responsabilità medica il successivo giudizio di merito possa essere introdotto con citazione (secondo quanto consente il d.lgs. n. 28/2010) o con sommario di cognizione (a scelta dell'attore) e senza che viga il citato limite dei 90 giorni, che peraltro non si saprebbe da quando fare decorrere (senza neppure considerare che questo termine è poco compatibile con la minore durata massima del procedimento di mediazione, che è, per il d.lgs. 28/2010, di tre mesi). Vi è però chi ritiene che il rito debba sempre essere il sommario di cognizione in quanto esso è previsto espressamente (e quindi imposto) dal legislatore. In questa impostazione, che parte dalla considerazione per cui il rito sommario può evidentemente anche riguardare casi in cui non vi prima stato un ATP, i 90 giorni di cui al comma 3 dell'art. 8 per depositare il ricorso ex art. 702-bis c.p.c. decorrerebbero, in ipotesi di previa mediazione in luogo dell'ATP, non dal deposito della relazione del CTU (che in caso di mediazione non c'è, potendovi essere solo una perizia disposta dal mediatore) o dalla scadenza del termine perentorio di 6 mesi previsto per lo svolgimento dell'ATP ma dal verbale negativo di mediazione o dalla scadenza del termine massimo di 3 mesi previsto per la mediazione.

Diverso ancora è il caso dell'ATP introdotto dopo che sia già espletato il procedimento di mediazione. In questo caso è ammissibile l'ATP conciliativo? La soluzione che sembra adottabile è quella per cui l'atp non si configura più quale condizione di procedibilità (poiché la domanda giudiziale è già munita di procedibilità in forza dell'esperito procedimento di mediazione), ma come semplice ATP conciliativo ex art. 696-bis c.p.c. che il ricorrente vuole azionare, nonostante la fallita mediazione, per fare tentare ad un esperto di percorrere ed orientare la strada conciliativa e per avere in ogni caso una consulenza sulla genesi e la quantificazione dei danni.

Occorre la presenza personale delle parti nell'ATP conciliativo?

È noto l'ormai diffuso orientamento giurisprudenziale di merito che richiede, per il valido esperimento della mediazione, la presenza personale delle parti. Poiché però l'ATP conciliativo, pur mirando alla conciliazione, è un procedimento giudiziario (a differenza di quello della mediazione) e visto che nella l. n. 24/2017 si parla non di presenza delle parti assistite dal difensore (come invece nel d.lgs. n. 28/2010) ma solo di partecipazione necessaria al procedimento, è da credere che non possa estendersi all'ATP conciliativo il detto orientamento sulla presenza personale delle parti (che peraltro nel caso di specie andrebbe incontro molto spesso alla deroga costituita dalla possibile procura per la materiale impossibilità di presenziare, venendo in questione frequentemente strutture sanitarie coinvolte in numerosi contenziosi e Compagnie di assicurazione).

Vi è litisconsorzio necessario nell'ATP? E su chi grava l'eventuale onere della relativa chiamata in giudizio?

Si tratterà in seguito del litisconsorzio necessario previsto dall'art. 12, comma 4, per la struttura ed il libero professionista nel caso di azione formulata contro le loro Compagnie di Assicurazione (ciò anche per consentire a queste ultime di eventualmente avanzare domanda di rivalsa già nel giudizio risarcitorio). Ed è evidente che tale forma di litisconsorzio necessario vale anche per la fase di ATP (posto che chi deve essere parte del giudizio di merito deve anche partecipare al procedimento di ATP).

Si è poi già detto della previsione della partecipazione obbligatoria di tutte le parti all'ATP conciliativo secondo quanto previso dal comma 4 dell'art. 8 della l. n. 24/2017. E poiché ancora non si sa chi sarà parte del futuro giudizio di merito non può che ritenersi che il legislatore abbia voluto la partecipazione di tutte le parti che devono comunque intervenire al giudizio, specificando espressamente che devono essere presenti anche le Compagnie di assicurazione di cui all'art. 10.

Viene da domandarsi ora se debba partecipare all'ATP anche il medico della struttura, soggetto contro il quale il paziente potrebbe non avere interesse ad agire nel successivo giudizio di merito o che potrebbe non essere facile da individuare in caso di più soggetti potenzialmente responsabili. Solo nel giudizio contro la Compagnia di assicurazione del medico libero professionista è litisconsorte necessario anche quest'ultimo, che invece, se dipendente, non è litisconsorte nel processo che vede coinvolta la Compagnia e la struttura dove lavora (v. art. 12). Ecco che il medico è parte necessaria anche dell'ATP ogni volta venga in questione una sua responsabilità quale libero professionista e non quale dipendente di una struttura pubblica o privata e dovrà comunque partecipare al procedimento ex art. 696-bis c.p.c. quando gli venga notificato un ricorso per ATP su iniziativa del paziente-attore.

Ci si deve poi chiedere chi debba chiamare nel giudizio di accertamento tecnico preventivo la Compagnia di Assicurazioni. La questione è se sia tenuta la struttura (o il libero professionista) o il danneggiato? È da ritenere che dopo l'introduzione dell'azione diretta e l'emanazione del decreto ministeriale attuativo possa chiamarla in sede di ATP anche direttamente il danneggiato. Comunque, pur non essendo pacifico che la partecipazione obbligatoria all'ATP da parte della Compagnia di Assicurazioni prevista dall'art. 8 comporti litisconsorzio necessario della stessa prima che diventi operativa la possibilità di azione diretta in forza del citato decreto ministeriale, è preferibile ritenere che se nessuno chiama nel procedimento per ATP la detta Compagnia, allora sarà il giudice che ne disporrà la chiamata ex art. 107 c.p.c. a cura della parte ricorrente, pure tenuto conto di esigenze di economia processuale (E l'accertamento tecnico preventivo a i fini conciliativi di cui agli art. 696-bis e ss. c.p.c., essendo un procedimento di giurisdizione contenziosa e non volontaria, è soggetto alla norme di diritto comune sulla partecipazione dei terzi al processo (art. 105 e ss. c.p.c.). Sull'intervento iussu iudicis v., tra le altre, Cass. civ., n. 4593/2008). A tal ultimo proposito si noti che senza la Compagnia nell'ATP la CTU espletata nella fase sommaria non sarebbe a lei opponibile nel giudizio di merito, dove dovrebbe procedersi all'espletamento di una nuova consulenza. Pertanto, se è vero che il danneggiato (o il suo erede) non ha ancora (prima dei decreti ministeriali attuativi) titolo per agire direttamente contro la Compagnia e nonostante la chiamata in causa del terzo ad opera del convenuto sia ormai da ritenere discrezionale e teoricamente rifiutabile per esigenze di ragionevole durata del processo (v. Cass. civ., Sez. Un., n. 4309/2010, che ha affermato un principio che vale ancor di più per la chiamata iussu iudicis ex art. 107 c.p.c.), tuttavia è anche vero che il legislatore prevede espressamente la presenza della Compagnia di Assicurazioni e ciò certamente per garantire che l'ATP possa avere qualche possibilità di utile esito (ipotizzabile solo con la presenza della tasca solvibile della Compagnia) e per evitare che la CTU debba essere rifatta nel giudizio di merito (oltre che per munire di procedibilità la domanda verso tutti i soggetti potenzialmente coinvolti).

Conseguentemente – visto che le esigenze di economia processuale vanno valutate non solo all'interno dell'ATP ma prendendo in considerazione insieme ATP e giudizio di merito e tenuto conto di quanto sopra si è osservato con riferimento al fatto che la mancata osservanza del termine perentorio non è l'inutilizzabilità di quanto fatto e la necessità di rinnovare l'accertamento ma solo che l'attore può ritenere munita di procedibilità la sua domanda e instaurare o continuare il giudizio – andrebbe autorizzata la chiamata in causa delle Compagnie di Assicurazioni richiesta dalla struttura sanitaria e/o dai singoli sanitari (i quali, trattandosi di ATP, possono pure avanzare tale richiesta di chiamata in terzo all'udienza, salvo possibile invito del giudice a formulare tale richiesta in un determinato termine anteriore all'udienza) ovvero, in mancanza di tale chiamata, andrebbe disposta la stessa iussu iudicis. Invece, andrebbe valutata volta per volta l'utilità della chiamata in causa dei singoli sanitari (non citati dal ricorrente) da parte della struttura di cui sono dipendenti viste le limitazioni (sul presupposto per l'accoglimento della domanda all'azione di rivalsa ed il tetto quantitativo della possibile condanna) e le esigenze di ragionevole durata dell'ATP e del processo. Ovviamente, la Compagnia o il singolo sanitario possono comunque intervenire, come qualunque terzo in sede di ATP, sino all'udienza di comparizione ex art. 695 c.p.c.

Quando il giudice del merito condanna le parti alle spese per mancata partecipazione all'ATP?

È da valutare positivamente la disposizione che prevede la condanna alle spese (dell'ATP e di lite) ed al pagamento di un'altra somma (equitativamente determinata dal giudice) per la parte non comparsa all'ATP. Si tratta di disposizione che renderà effettiva la possibilità di accordi in sede di accertamento tecnico, dove tutti saranno presenti (peraltro davanti ad un collegio di medici esperti nella specifica disciplina ed in tecniche di negoziazione).

È bene comunque precisare che non sembra che questa norma (specificamente dettata in relazione all'ATP conciliativo) possa essere applicata analogicamente alla mediazione, e ciò anche perché essa, derogando al principio generale per cui le spese seguono la soccombenza, va considerata norma eccezionale e, quindi, non applicabile analogicamente ex art. 14 disp. prel. c.c., salva comunque la possibilità di applicare le condanne ex art. 96 c.p.c.

È utile l'introduzione dell'ATP conciliativo quale condizione di procedibilità?

Probabilmente va salutata con favore la previsione (modellato sull'art. 445-bis c.p.c., che impone la previa consulenza nelle controversie previdenziali «in materia d'invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno d'invalidità») di una forma di condizione di procedibilità (Costituzionalmente legittima perché non ritarda eccessivamente la tutela giurisdizionale né rene troppo gravoso il ricorso alla stessa) alternativa alla mediazione in materia di responsabilità medico-sanitaria, che è materia in relazione alla quale è davvero difficile che si possa pervenire ad un accordo in assenza di accertamento tecnico operato da un soggetto terzo. Senza che vi sia una perizia indipendente che verifichi se ricorrano profili di colpa professionale e se via un nesso di causalità è davvero complicato che si possa pervenire a conciliazioni. D'altronde, effettuato questo accertamento, spesso la sentenza si limita a prendere atto di quanto emerso dalla CTU ed opera soltanto, in caso di riconosciuta colpa professionale, dei calcoli sul risarcimento del danno. In altri termini, la prova scientifica assume, nei giudizi sulla colpa medica, un ruolo talmente decisivo che è stato giusto prevedere che il CTU tenti, dopo avere compiuto il suo accertamento, di far trovare un accordo alle parti.

Probabilmente, l'unica vera alternativa all'ATP conciliativo obbligatorio era la previsione di un obbligatorio ATP ordinario (per garantire la presenza dell'essenziale accertamento tecnico-scientifico) seguito da un'obbligatoria proposta conciliativa ex art. 185-bis c.p.c. Infatti, sembrano allo stato abbastanza rari i casi di accordo fatto raggiungere dai consulenti d'ufficio e ciò forse per la scarsa esperienza conciliativa dei consulenti. Un po' meno raramente si verifica che le parti stesse riescano a raggiungere un accordo all'esito dell'ATP conciliativo indipendentemente dall'operato dei consulenti d'ufficio. L'autorevolezza del giudice potrebbe portare, a seguito dell'ATP, a far trovare un accordo soprattutto nei casi di riconosciuta responsabilità (nei quali le condizioni dell'accordo potrebbero anche solo consistere nei punti di un possibile dispositivo conseguente alle risposte contenute nella CTU).

L'obbligo assicurativo e l'azione diretta verso la compagnia di assicurazioni

L'art. 12 del nuovo testo normativo introduce, in deroga all'art. 1917 c.c., il principio per cui il danneggiato possa agire direttamente, entro i limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione, nei confronti dell'impresa di assicurazione che presta la copertura assicurativa alle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private e all'esercente la professione sanitaria (fatta salva la rivalsa verso l'assicurato).

L'introduzione di questo mezzo di tutela è volta (così come la struttura del nuovo obbligo assicurativo e la presenza obbligatoria dell'assicuratore in ATP) ad indirizzare la domanda risarcitoria verso soggetti patrimonialmente solidi, come la stessa azienda sanitaria e le imprese di assicurazione, soggetti che la nuova normativa vuole sempre più coinvolgere nel meccanismo risarcitorio.

Va precisato che non è prevista azione diretta nei confronti della Compagnia di Assicurazione per responsabilità extracontrattuale del medico dipendente o verso la Compagnia che copre i rischi della rivalsa o della responsabilità amministrativa.

La nuova azione diretta è soggetta allo stesso termine di prescrizione pari a quello dell'azione verso la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata o verso l'esercente la professione sanitaria. Sono anche previste (al fine di evitare il moltiplicarsi delle liti e teorici contrasti di giudicati, favorendo l'esercizio simultaneo dell'azione di rivalsa all'interno dello stesso giudizio risarcitorio, anche per risarcimenti eventualmente erogati nonostante la non operatività della polizza ed in conseguenza della non opponibilità al danneggiato delle eccezioni di polizza) forme di litisconsorzio necessario (della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata nel giudizio promosso contro l'impresa di assicurazione della stessa e del libero professionista nel giudizio promosso contro la sua impresa di assicurazione (Non è invece litisconsorte necessario il medico dipendente della struttura) nonché, al fine di garantire il diritto di difesa delle Compagnie di Assicurazioni, possibilità per queste ultime di accedere alla documentazione della struttura relativa ai fatti dedotti in ogni fase della trattazione del sinistro. Per consentire al sanitario di prendere parte al giudizio instaurato per un suo asserito errore professionale e per fargli predisporre delle buone difese è stato introdotto un obbligo per le strutture sanitarie e le imprese di assicurazione di comunicargli l'instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti dal danneggiato, entro dieci giorni dalla ricezione della notifica dell'atto introduttivo. E va pure comunicato al sanitario l'eventuale avvio di trattative stragiudiziali con il danneggiato, con invito a prendervi parte.

Si è potuto prevedere l'azione diretta in questione in quanto si è introdotto, all'art. 10, un generale obbligo di assicurazione per le strutture sanitarie pubbliche e private per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso prestatori d'opera. La copertura si estende anche ai danni cagionati dal personale a qualunque titolo operante presso le strutture sanitarie pubbliche e private (compresi coloro che svolgono attività di formazione, aggiornamento, sperimentazione e ricerca clinica). E la struttura deve anche stipulare una polizza per la responsabilità ex art. 2043 c.c. del suo dipendente verso terzi (art. 10 comma 1). L'obbligo assicurativo riguarda anche le prestazioni svolte in regime di libera professione intramuraria o in regime di convenzione con il servizio sanitario nazionale o attraverso la telemedicina. Resta fermo l'obbligo di copertura assicurativa (già previsto dall'art. 3, comma 5, lett. e, d.l. 13 agosto 2011, n. 138) per il sanitario che eserciti al di fuori di una delle strutture sopra indicate o che presti la propria opera all'interno della stessa in regime libero-professionale o si avvalga della stessa nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente.

In un'ottica di determinazione dei presupposti per un positivo esito dell'eventuale azione di rivalsa ogni sanitario che operi a qualunque titolo in strutture sanitarie o socio-sanitarie pubbliche o private deve provvedere alla stipula, con oneri a proprio carico, di un'adeguata polizza di assicurazione per colpa grave. Ed un apposito decreto ministeriale, da emanare entro 120 giorni dall'entrata in vigore della legge previo concerto anche con le associazioni di categoria, dovrà fissare i requisiti minimi di garanzia delle polizze assicurative.

Tale decreto sarà molto importante. Invero, poiché non sarà semplice per le strutture sanitarie trovare idonee soluzioni assicurative (anche perché, tramite l'azione diretta, le Compagnie saranno sempre coinvolte in ogni vicenda risarcitoria, senza grandi possibilità di rivalsa effettiva sui medici), il nuovo testo normativo consente il ricorso ad “altre analoghe misure per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso prestatori d'opera”. Viene cioè in questione la possibilità di “autoassicurarsi”, e quindi di porre in capo a se stessi il rischio di responsabilità. Ma sarà proprio la decretazione attuativa a regolamentare tali “misure analoghe”. Certo, la possibilità per le strutture di autoassicurarsi (unita all'assenza di un obbligo a contrarre per le Compagnie di Assicurazioni) non favorisce la tutela del paziente.

L'azione di rivalsa e l'azione di responsabilità amministrativa

L'art. 9 contiene un'ulteriore disposizione, a completamento del nuovo regime della responsabilità sanitaria, che disciplina l'azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa della struttura sanitaria nei confronti dell'esercente la professione sanitaria. La finalità della legge sul punto è quella di decentrare la posizione processuale del medico,

L'accoglimento dell'azione di rivalsa innanzitutto presuppone il dolo o la colpa grave di quest'ultimo. Essa, poi, può essere esperita, a pena di decadenza, entro un anno dall'avvenuto pagamento qualora il sanitario non sia stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno.

Si tratta di una norma chiave, che consente di confutare la tesi per cui il nuovo impianto normativo avrebbe concesso ai medici una sorta di preteso privilegio.

Si sono solo limitati alcuni dei guasti che una rigida applicazione di principi giurisprudenziali aveva creato in passato, provocando la genesi di fenomeni quali la medicina difensiva.

Probabilmente, si poteva anzi in teoria pure escludere la possibilità di un'azione diretta del danneggiato verso il medico della struttura (che si aggiunge a quella verso quest'ultima), sulla scia di quanto avviene per i magistrati (nonostante si tratti di situazioni che presentano molte differenze tra loro). Dopo aver previsto l'azione di rivalsa, ci si poteva anche aspettare, a tutela del medico, l'introduzione di un suo difetto di legittimazione passiva con surroga della struttura sanitaria, al pari di quanto previsto per la responsabilità dell'insegnante (art. 61 l. 11 luglio 1980 n. 312). In altri termini, si poteva prevedere solo un'azione di rivalsa, senza azione diretta.

Comunque, sotto il versante dell'azione di rivalsa è stato ovviamente previsto, e non poteva essere diversamente, che la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro la struttura sanitaria o la compagnia assicuratrice non fa stato nel giudizio di rivalsa se l'esercente la professione sanitaria non è stato parte di quel giudizio.

Una particolare disciplina è poi contemplata per la responsabilità amministrativa. In particolare, in caso di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o socio-sanitaria pubblica o dell'esercente la professione sanitaria in ambito pubblicistico, il comma 5 dell'art. 9 stabilisce:

  • che titolare dell'azione di responsabilità amministrativa, per dolo o colpa grave, è il Pubblico Ministero presso la Corte dei Conti. Tale scelta comporta, tra le conseguenze positive – oltre a quelle note sull'esercizio autonomo dell'azione amministrativa, del potere riduttivo e della non trasmissibilità agli eredi, salvo l'illecito guadagno – anche quella di evitare il paradosso organizzativo che siano le strutture pubbliche a dover avviare le azioni di rivalsa in sede civile, magari legittimamente usando contro i propri professionisti quelle competenze e conoscenze di prevenzione e gestione del rischio non compiutamente acquisibili, nella prevedibile diffidenza dei professionisti a collaborare in attività che potrebbero essere usate contro loro stessi in un giudizio di rivalsa;
  • che ai fini della quantificazione del danno il giudice tiene conto delle situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica in cui l'esercente la professione sanitaria abbia operato;
  • che per l'importo della condanna in caso di azione di responsabilità amministrativa si prevede un limite per singolo evento (con esclusione dei casi di dolo) pari al valore maggiore della retribuzione lorda (o del corrispettivo convenzionale) conseguita nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento (o nell'anno immediatamente precedente o successivo) moltiplicato per il triplo. Tale limite vale sia per l'importo della condanna suddetta sia in relazione all'azione di surrogazione da parte dell'assicuratore che abbia pagato l'indennità (surrogazione, fino alla concorrenza dell'ammontare della suddetta indennità, nei diritti dell'assicurato verso il terzo responsabile);
  • che per i tre anni successivi al passaggio in giudicato della decisione di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato l'esercente la professione sanitaria, nell'ambito delle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche, non può essere preposto ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti e che il giudicato costituisca oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari nei pubblici concorsi per incarichi superiori.

In relazione alle strutture sanitarie private il comma 6 prevede, infine, che, se è accolta la domanda del danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria privata o nei confronti dell'impresa di assicurazione titolare di polizza con la medesima struttura, l'azione nei confronti dell'esercente la professione sanitaria deve essere esperita innanzi al giudice ordinario e la misura della rivalsa e quella della surrogazione richiesta dall'impresa di assicurazione - ai sensi dell'art. 1916, comma 1, c.c. - per singolo evento, in caso di colpa grave, non possono superare una somma pari al valore maggiore del reddito professionale, ivi compresa la retribuzione lorda, conseguita nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo. Tale limite non si applica nei confronti degli esercenti la professione sanitaria che prestino la loro opera fuori da strutture, e quindi privatamente, ovvero all'interno di strutture in regime libero-professionale ovvero che si avvalgano di strutture nell'adempimento della loro obbligazione contrattuale assunta con il paziente.

Nel giudizio di rivalsa ed in quello di responsabilità amministrativa il giudice può desumere argomenti di prova dalle prove assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria o dell'impresa di assicurazione, ma ciò solo se l'esercente la professione sanitaria ne sia stato parte.

Ciò che merita di essere evidenziato, alla luce dell'esaminata disciplina sugli obblighi assicurativi e sull'azione di rivalsa e di responsabilità amministrativa, è che, seppure sia stata mantenuta la legittimazione passiva del medico dipendente in relazione all'iniziativa giudiziaria del paziente, tuttavia il fatto che la struttura risponda anche per fatto del dipendente e che la stessa struttura debba stipulare una polizza per la responsabilità ex art. 2043 c.c. del suo dipendente verso terzi e coprire quindi il suo dipendente anche per colpa lieve comporta – insieme alla possibilità del danneggiato di agire direttamente verso le Compagnie di Assicurazione ed ai limiti dell'azione di rivalsa con riferimento ai presupposti del dolo e della colpa grave ed al tetto quantitativo della condanna al triplo dello stipendio annuo – che al medico dipendente (che pure sa di non essere litisconsorte necessario nel giudizio risarcitorio e di non poter essere individuato come il soggetto maggiormente solvibile) è stata effettivamente assicurata con la disciplina che scaturisce dall'emanazione della l. n. 24/2017 una posizione meno centrale nel meccanismo giudiziario e condannatorio della responsabilità sanitaria.

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