Codice Civile art. 2043 - Risarcimento per fatto illecito.Risarcimento per fatto illecito. [I]. Qualunque fatto doloso o colposo [1176], che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno [7, 10, 129-bis, 840, 844, 872 2, 935 2, 939 3, 948, 949, 1440, 1494 2, 2395, 2504-quater, 2600, 2818, 2947; 185 2, 198 c.p.; 22 ss. c.p.p.; 55, 60, 64 2, 96, 278 c.p.c.] 12.
[1] In tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso v. art. 114 d.lg. 6 settembre 2005, n. 206; in tema di danno ambientale v. art. 300 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152; in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile v. gli artt. 170-172 d.lg. 7 settembre 2005, n. 209. [2] Per la responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria, v. art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24. InquadramentoIl danno ingiusto è uno degli elementi costitutivi dell'illecito civile e consiste nella lesione di un interesse protetto nella vita di relazione (Bianca, 2012, 584). Secondo la regola generale sancita dall'art. 2043 c.c. l'obbligazione risarcitoria in cui si sostanzia la responsabilità civile sorge, dunque, dal fatto illecito produttivo di danno, ossia da un fatto compiuto in violazione di interessi e diritti comunque protetti (contra legem), il quale assume rilevanza giuridica solo se sia al contempo produttivo di un danno, ovvero della lesione di un interesse riconosciuto dall'ordinamento giuridico (Di Majo,2009). Il danno ingiusto coincide con quello che la dottrina (Franzoni, 38) definisce «evento di danno», ossia con l'evento lesivo di una situazione giuridica soggettiva considerata dall'ordinamento giuridico come meritevole di tutela e di norma consiste in un'ingiusta modificazione esteriore, materiale o giuridica, della sfera giuridica della vittima causalmente riconducibile ad una condotta umana connotata da dolo o colpa, ovvero ad una situazione di fatto o di diritto tipizzata (es. il rapporto di custodia con la cosa o l'animale (artt. 2051 e 2052 c.c.), l'esercizio di attività pericolosa (art. 2050 c.c.), la proprietà dell'edificio (art. 2053 c.c.) o del veicolo (art. 2054 c.c.), il rapporto di preposizione (art. 2049 c.c.), ecc.) dalla quale il Legislatore fa discendere la responsabilità oggettiva o per colpa presunta di un determinato soggetto. Da esso deve essere distinto il danno conseguenza o danno risarcibile (Visintini, 3), che consiste nell'insieme delle concrete conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla lesione di un interesse giuridicamente protetto, e precisamente nella riduzione o compromissione del modo in cui detto interesse al conseguimento o alla conservazione delle svariate utilità sottese alla situazione giuridica soggettiva e da essa garantite veniva concretamente attuato dal titolare anteriormente all'illecito. Il danno risarcibile è, in definitiva, il risultato materiale o giuridico in cui si concreta la lesione di un interesse giuridicamente apprezzabile (Bianca, 2012, 123) e può concretizzarsi in una perdita di natura patrimoniale (art. 1223 c.c.) o non patrimoniale (art. 2059 c.c.). Il danno è ingiusto in quanto viene leso un interesse giuridicamente rilevante (contra ius) attraverso un'attività lesiva non giustificata (non iure). Diverso è il carattere dell'iniuria negli ambiti contrattuale ed extracontrattuale. Ai fini della sua integrazione nella responsabilità contrattuale, è, infatti, necessario e sufficiente che sussista l'inadempimento dell'obbligazione, senza, cioè, la necessità di provare la lesione di un interesse giuridico. Ciò non significa che con tale ultima fattispecie non si proteggano interessi giuridici, ma la sua peculiarità è nel fatto che la prova del danno non iure attesta automaticamente la lesione di un interesse giuridico perché l'inadempimento di un'obbligazione lede ex se l'interesse creditorio alla prestazione. In altre parole, la violazione di un impegno contrattuale offende di per sé l'interesse protetto dal contratto, il quale non necessariamente deve avere natura giuridica, ben potendo le parti, nell'ambito dell'autonomia negoziale, attribuire rilevanza anche ad interessi di mero fatto (Navarretta, 161). La nozione di danno ingiusto proposta dalla giurisprudenza di legittimità coincide con quella di danno arrecato non iure, cioè, inferto in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo. Facendo leva sul carattere atipico del fatto illecito delineato dall'art. 2043 c.c., la Suprema Corte non reputa possibile individuare in via preventiva gli interessi meritevoli di tutela, ritenendo spetti al giudice accertare, all'esito di un giudizio di comparazione tra gli interessi in conflitto, se e con quale intensità, l'ordinamento appresti tutela risarcitoria all'interesse del danneggiato, ovvero comunque lo prenda in considerazione sotto altri profili, manifestando, in tal modo, un'esigenza di protezione (Cass. S.U., n. 500/1999; Cass. n. 9345/2004; Cass. n. 18511/2007). Un evento pregiudizievole, infatti, può influire direttamente od indirettamente nella situazione patrimoniale di un soggetto, provocando appunto un danno patrimoniale, che può concretizzarsi in danno emergente (ossia l'effettiva perdita economica) o in lucro cessante (ovvero il mancato guadagno). Tuttavia, non ogni fatto che possa arrecare danno, ovviamente, genera l'obbligo del risarcimento, ma soltanto un danno “ingiusto”, in contrasto cioè con un dovere giuridico. In termini generali per "danno ingiusto" risarcibile ai sensi dell'art. 2043 c.c. si intende non qualsiasi perdita economica, ma solo la perdita economica ingiusta, ovvero verificatasi con modalità contrarie al diritto. Conseguenza logica della regola è quindi la necessità, per chiunque pretenda un risarcimento, di dimostrare la cd. spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha perduto e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l'equivalente economico. L'interpretazione evolutiva della giurisprudenza (Cass. S.U. n. 500/1999) ha ampliato negli anni la nozione di «ingiustizia del danno», dilatando così i confini della responsabilità extracontrattuale, aldilà della sola funzione sanzionatoria della violazione dei precetti preesistenti nell'ordinamento giuridico, coincidente con la lesione dei diritti soggettivi assoluti, e ricomprendendovi (soprattutto attraverso l'individuazione dei valori essenziali sanciti dalla Costituzione suscettibili di diventare situazioni soggettive protette) qualsiasi condotta colpevole di aver determinato un danno ingiusto ad una posizione di interesse giuridicamente apprezzabile e meritevole di tutela da parte dell'ordinamento, sia sotto il profilo del danno patrimoniale che non patrimoniale (lesione di un diritto di credito da parte di soggetto diverso del debitore, danno per l'uccisione di un soggetto, lesione dei valori esistenziali dell'individuo, ecc.). Del resto, il principio di solidarietà — inteso come un limite alla libertà di agire del singolo quando la realizzazione dell'utile individuale implica la lesione di situazioni giuridiche soggettive tutelate, a qualche fine, dall'ordinamento, ancorché non nella forma del diritto assoluto completa la tutela offerta ad interessi emergenti nella società. Secondo quanto affermato dal consolidato indirizzo della giurisprudenza, l'ingiustizia del danno va intesa nella duplice accezione di danno prodotto non iure, cioè in assenza di cause giustificative del fatto dannoso, e contra ius, vale a dire lesivo di una posizione o di un interesse tutelati dall'ordinamento, giacché entrambe, nella loro sintesi, sono espressione di quella valutazione “bifasica” di comparazione degli interessi del danneggiante e del danneggiato che porta alla qualificazione di un danno come ingiusto. In tale direzione, il giudice della nomofilachia ha sancito che i criteri cui deve attenersi il giudice di merito avanti al quale sia dedotta una domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. nei confronti della p.a. attengono: --a) la sussistenza di un evento dannoso; --b) la incidenza del danno su un interesse rilevante per l'ordinamento; sia esso un interesse indifferenziatamente tutelato nelle forme del diritto soggettivo (assoluto o relativo) ovvero nelle forme dell'interesse legittimo o altro interesse giuridicamente rilevante e quindi non riconducibile a mero interesse di fatto; -c) la riferibilità dell'evento dannoso ad una condotta positiva od omissiva della p.a.; --d) la imputazione a titolo di dolo o di colpa della p.a., non già sulla base del mero dato obiettivo della semplice adozione e/o alla esecuzione di un atto illegittimo, ma della violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione, alle quali deve ispirarsi l'esercizio della funzione amministrativa (Cass. S.U., n. 500/1999). Ebbene, la norma primaria sulla responsabilità aquiliana definisce l'area della risarcibilità con una clausola generale espressa dalla formula "danno ingiusto", in forza della quale è risarcibile il danno che ha le caratteristiche dell'ingiustizia, cioè il danno arrecato non iure, che è ravvisabile nel danno inferto in difetto di una causa di giustificazione, quindi derivante da un comportamento non giustificato da altra norma, che si risolva nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento (Cass. n. 9967/2014; nella giurisprudenza di merito Trib. Lecce, 4 marzo 2019, n.782). Deve, in ogni caso, sottolinearsi come il danno ingiusto è escluso nel caso in cui sussista una causa di giustificazione, come lo stato di necessità (art. 2045 c.c.) e la legittima difesa (art. 2044 c.c.). L'evoluzione della nozione di danno ingiustoLa nozione di ingiustizia del danno appena delineata costituisce il risultato di una complessa evoluzione storica. Nella vigenza del codice del 1865 l'iniuria coincideva, per gli interpreti, con l'antigiuridicità della condotta e, in particolare, con la violazione colposa del diritto oggettivo (Carnelutti, 12). In questa prospettiva, sopravvissuta per alcuni anni alla stessa emanazione del codice del 1942, l'art. 2043 c.c. costituisce norma secondaria con funzione eminentemente sanzionatoria e l'illecito è connotato da essenziale tipicità sia con riferimento della condotta antigiuridica, sia con riferimento all'offensività. Con la dottrina successiva si assiste ad un tentativo di ampliare l'ambito della responsabilità civile collocandola fuori dalla colpa e dalla tassatività normativa dell'antigiuridicità della condotta per violazione di specifici doveri. Secondo una prima tesi (Schlesinger, 343) antigiuridico è ogni fatto dannoso non autorizzato da specifiche disposizioni, con la conseguenza che la regola è l'alterum non laedere, l'eccezione è la specifica autorizzazione normativa. In questa prospettiva anche i danni derivanti dalla lesione di un interesse di mero fatto sono risarcibili, purché siano riconducibili ad essa in forza di un nesso di causalità giuridica. Altra dottrina, facendo leva sul principio di solidarietà di rango costituzionale, propone la ricostruzione secondo la quale l'ingiustizia va riferita direttamente al danno: il danno è ingiusto se viene leso un interesse giuridicamente rilevante (danno contra ius) perché ciò contrasta con la solidarietà la cui violazione rende abusiva la libertà di agire che non è incondizionata, ma limitata dallo stesso art. 41 Cost. (Rodotà, 114 e ss.). Secondo un'altra tesi l'ingiustizia del danno va riferita alla nozione di interesse giuridicamente protetto dall'ordinamento giuridico, non necessariamente come diritto soggettivo (Busnelli, 69 e ss.). Tra le impostazioni più recenti si segnala, poi, quella secondo la quale l'art. 2043 c.c. costituisce una clausola generale ed attribuisce al giudice un ruolo creativo rispetto alla ricostruzione della rilevanza giuridica dell'interesse (Visintini, 83; Franzoni, 867 e ss.). Si tratta di una clausola generale perché l'ingiustizia del danno dipende dai caratteri del giudizio che seleziona gli interessi meritevoli di tutela risarcitoria ed atipica in quanto gli interessi giuridici suscettibili di protezione risarcitoria non son delimitati a priori (Navarretta, 149). Contrasta detta ricostruzione la tesi che, invece, intravede nell'interesse giuridico l'unica ed esclusiva condizione da verificare ai fini dell'ingiustizia, così che la natura dell'interesse offeso genera in via automatica il risarcimento. Per altri è, infine, necessario che l'interesse giuridico abbia la forma di una situazione giuridica soggettiva (Castronovo, 11). In giurisprudenza la materia di danno ingiusto ha conosciuto una lunga e complessa evoluzione che ha condotto alla progressiva erosione dell'assolutezza del principio tradizionale secondo il quale è risarcibile, ai sensi dell'art. 2043 c.c., soltanto la lesione del diritto soggettivo, e ad un conseguente ampliamento dell'area della risarcibilità del danno aquiliano. Un primo importante momento di tale iter evolutivo è rappresentato, appunto, dal riconoscimento della risarcibilità non soltanto dei diritti assoluti, ma anche dei diritti relativi (Cass. n. 174/1971; Cass. n. 2105/1980; Cass. n. 555/1984; Cass. n. 5699/1986; Cass. n. 9407/1987). Il passo successivo è rappresentato dal riconoscimento della risarcibilità di varie posizioni giuridiche non aventi la consistenza del diritto soggettivo, di volta in volta elevate, ciò non di meno, dalla giurisprudenza alla dignità di diritto soggettivo. Si pensi al c.d. diritto all'integrità del patrimonio o alla libera determinazione negoziale (Cass. n. 2765/1982; Cass. n. 4755/1986; Cass. n. 1147/1992; Cass. n. 3903/1995), in relazione al quale è stata affermata, tra l'altro, la risarcibilità del danno da perdita di chance, intesa come probabilità effettiva e congrua di conseguire un risultato utile, da accertare secondo il calcolo delle probabilità o per presunzioni (Cass. n. 6506/1985; Cass. n. 6657/1991; Cass. n. 781/1992; Cass. n. 4725/1993). La Suprema Corte ha, poi, affermato la risarcibilità della lesione di legittime aspettative di natura patrimoniale nei rapporti familiari (Cass. n. 4137/1981; Cass. n. 6651/1982; Cass. n. 1959/1995), ed anche nell'ambito della famiglia di fatto (Cass. n. 2988/1994), purché si tratti, appunto, di aspettative qualificabili come legittime (e non di mere aspettative semplici), in relazione sia a precetti normativi che a principi etico-sociali di solidarietà familiare e di costume. In verità tali ultime pronunce, pur prendendo le mosse dall'affermazione per la quale in linea di principio il danno ingiusto coincide con la lesione del diritto soggettivo, hanno, di fatto, disatteso tale assunto riconducendo al diritto soggettivo situazioni che non hanno tale consistenza, come il preteso diritto all'integrità del patrimonio, le aspettative, le situazioni possessorie. Intanto in dottrina si faceva strada la tesi secondo la quale l'art. 2043 c.c. non costituisce norma secondaria (di sanzione) rispetto a norme primarie (di divieto), ma racchiude in sé una clausola generale primaria, espressa dalla formula «danno ingiusto», in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia, in quanto lesivo di interessi ai quali l'ordinamento — prendendoli in considerazione sotto vari profili, esulanti dalle tematiche del risarcimento — attribuisce rilevanza. Anche con riferimento alla risarcibilità dell'interesse legittimo si è assistito ad un progressivo abbandono della tesi negatrice operato attraverso la «trasfigurazione» di alcune figure di interesse legittimo in diritti soggettivi, con conseguente apertura dell'accesso alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., a questi ultimi tradizionalmente riservata. Ciò si è reso possibile concentrando l'attenzione sull'interesse materiale sotteso o correlato all'interesse legittimo e superando, quindi, la tesi che lo considerava una situazione meramente processuale, un titolo di legittimazione per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, del quale non sarebbe, quindi, neppure ipotizzabile una lesione produttiva di danno patrimoniale, per affermarne la natura sostanziale e, cioè, correlata ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione — in termini di sacrificio o di insoddisfazione — può concretizzare danno. Con la storica sentenza delle Sezioni Unite n. 500/1999 la Suprema Corte ha preso atto come nell'art. 2043 c.c. netta è la centralità del danno, del quale viene previsto il risarcimento qualora sia ingiusto, mentre la colpevolezza della condotta (in quanto contrassegnata da dolo o colpa) attiene all'imputabilità della responsabilità. Secondo detta pronuncia l'area della risarcibilità non è, quindi, definita da altre norme recanti divieti e, quindi, costitutive di diritti (con conseguente tipicità dell'illecito in quanto fatto lesivo di ben determinate situazioni ritenute dal legislatore meritevoli di tutela), bensì da una clausola generale, espressa dalla formula danno ingiusto, in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia e, cioè, il danno arrecato non iure, da ravvisarsi nel danno inferto in difetto di una causa di giustificazione, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento. Ne consegue, secondo le Sezioni Unite, che la norma sulla responsabilità aquiliana non è norma secondaria, volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme primarie, bensì norma primaria volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell'attività altrui (Cass. S.U., n. 500/1999). Per il nuovo indirizzo giurisprudenziale, ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non rileva, dunque, la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione all'ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante. Non è possibile, secondo la pronuncia in esame, predeterminare gli interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico, tanto che la caratteristica del fatto illecito è la sua atipicità. Spetta, per contro, al giudice il compito di selezionare gli interessi giuridicamente rilevanti attraverso un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto inteso ad accertare se il sacrificio dell'interesse del soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell'autore della condotta, in ragione della sua prevalenza (Cass. S.U., n. 500/1999). Tali principi sono stati costantemente affermati dalla giurisprudenza successiva, la quale ha talora riproposto il giudizio di ingiustizia del danno in termini di bilateralità (Cass. n. 9345/2004), nel senso che esso si presenta come una sintesi tra l'interesse leso dalla condotta dell'agente e l'interesse sotteso all'attività lesiva. Ingiustizia del danno e bilanciamento degli interessi. Secondo l'orientamento prevalente in dottrina la valutazione dell'ingiustizia del danno è essenzialmente bilaterale costituendo la sintesi tra l'interesse leso e l'interesse sotteso all'attività svolta dal danneggiante. Perché possa ritenersi sussistente la responsabilità dell'agente è, infatti, necessario che il danno, oltre che contra ius, sia non iure. I parametri da impiegare in tale bilanciamento degli interessi in conflitto sono molteplici. Il giudizio di valore va condotto ricorrendo ai principi di pubblica utilità (Trimarchi, 100). Secondo altri il parametro da impiegare è quello della buona fede, ovvero quello della solidarietà (Rodotà, 108). L'ingiustizia del danno è una clausola generale e la sua funzione consiste nel selezionare le lesioni delle situazioni giuridicamente rilevanti che abbiano al contempo violato il dovere di solidarietà sociale da rinvenirsi negli artt. 2 e 41 comma 2 Cost.. In questo modo la prospettiva si sposta dalla questione se il diritto soggettivo, anche quando si presenti nella forma del diritto di credito, possa godere di tutela aquiliana, a quella relativa al se la lesione di un interesse attraverso un giudizio di comparazione oggettiva debba considerarsi in violazione della solidarietà sociale. Il fatto che l'ingiustizia del danno venga ancorata alla solidarietà sociale attribuisce all'interprete un sistema più elastico ed adattabile a molteplici situazioni e al mutare della coscienza sociale. “Rapportata al principio di solidarietà, la ingiustizia si palesa come giudizio di valore, da pronunciare sulla base di una considerazione di carattere obiettivo” (Rodotà, 114). Alla stregua di tale elaborazione dogmatica non viene attribuita tutela ad ogni interesse di fatto, ma soltanto a quell'interesse ritenuto prevalente all'esito di un'attenta comparazione tra quelli in conflitto (si pensi alla tutela aquiliana del credito a titolo di contribuzione nei confronti del familiare deceduto, ancorché non tenuto all'obbligo alimentare). Una parte della dottrina ricorre, infine, alla figura dell'abuso del diritto (Navarretta, 184). La soluzione del conflitto tra gli interessi coinvolti deve involgere, oltre alla natura e al contenuto concreto degli interessi stessi, anche la verifica della misura di interferenza tollerabile del diritto del danneggiante nel diritto del danneggiato: il sindacato di ingiustizia del danno è, dunque, collegato con la verifica dell'abuso del diritto. Anche la giurisprudenza ha talora accolto la tecnica della comparazione degli interessi in conflitto, affermando il principio di diritto secondo il quale l'art. 2043 c.c. ha la funzione di consentire il risarcimento del danno ingiusto, intendendosi come tale il danno arrecato non iure, ossia inferto in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo. E, considerato il carattere atipico del fatto illecito delineato dall'art. 2043 c.c., non è possibile individuare in via preventiva gli interessi meritevoli di tutela, ma spetta al giudice, attraverso un giudizio di comparazione tra gli interessi in conflitto, accertare se, e con quale intensità, l'ordinamento appresta tutela risarcitoria all'interesse del danneggiato, ovvero comunque lo prende in considerazione sotto altri profili, manifestando, in tal modo, una esigenza di protezione (Cass. n. 9345/2004). Va, inoltre, segnalato l'orientamento inaugurato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la nota sentenza n. 26972/2008, che, ai fini della verifica dell'ingiustizia del danno, valorizza anche il profilo della gravità della lesione (Cass., n. 14662/2015; Cass., n. 20615/2016; Cass. n. 17724/2018). In quest'ottica il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall'art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della “gravità della lesione” e della “serietà del danno” (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall'interessato), in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui il principio di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 del codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva e il relativo accertamento di fatto è rimesso al giudice di merito e resta ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale (Cass., n. 16133/2014; Cass. n. 21424/2014). Danno ingiusto, danno patrimoniale e danno non patrimoniale. La dottrina ha evidenziato come di atipicità dell'illecito possa parlarsi, in verità, solo con riferimento alla responsabilità per danni patrimoniali, laddove per il danno non patrimoniale opera la disposizione positiva di cui all'art. 2059 c.c., la quale, ai fini della risarcibilità di tale tipologia di danno, prescrive una tipicità che riguarda non la condotta lesiva, ma l'interesse leso. Nella fattispecie in esame all'atipicità dell'ingiustizia del danno si contrappone la tipicità della lesione dei diritti inviolabili della persona. Ed infatti l'ingiustizia del danno si riferisce alla lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante ed è, quindi, il frutto di un procedimento interpretativo e della comparazione caso per caso degli interessi in conflitto. I diritti inviolabili della persona, cui viene accordata la tutela risarcitoria nelle forme di cui all'art. 2059 c.c., sottendono, invece, particolari interessi tutelati da disposizioni di rango costituzionale e suscettibili di apertura nei soli limiti dell'art. 2 Cost. (Navarretta, 158). La giurisprudenza più risalente proponeva una lettura restrittiva dell'art. 2059 in relazione all'art. 185 c.p., come diretto ad assicurare tutela soltanto al danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell'animo transeunte determinati da fatto illecito integrante reato. Con le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 è stato, invece, fissato il principio secondo cui, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., unica norma disciplinante il risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno deve essere riconosciuta, oltre che nei casi determinati dalla legge, anche nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona e, cioè, in presenza di un'ingiustizia costituzionalmente qualificata. Da tale rilettura costituzionalmente orientata della norma hanno preso le mosse le pronunce delle Sezioni Unite della Suprema Corte, Cass., S.U., n. 26972/2008, Cass., S.U., n. 26973/2008 e Cass. S.U. n. 26974/2008, le quali hanno ribadito che, in assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona. Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di un congiunto (c.d. danno da perdita del rapporto parentale), poiché il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.). In questo caso, vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all'esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che, tuttavia, possa configurarsi un'autonoma categoria di danno. Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e, quindi, non rientranti nell'ambito del danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del c.d. «danno estetico» che del c.d. «danno alla vita di relazione»), sono risarcibili purché siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica. Le Sezioni Unite hanno, quindi, evidenziato che il pregiudizio di tipo esistenziale è risarcibile solo entro il limite segnato dall'ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno. Se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria e non assume rilevanza il rango costituzionale del pregiudizio sofferto. Le pronunce richiamate hanno, quindi, definitivamente confutato l'orientamento ermeneutico sostenitore della risarcibilità dei danni-conseguenza di rilevanza costituzionale, anche se derivanti alla lesione di un diritto non inviolabile. Quanto all'identificazione dei diritti inviolabili, è noto come la Costituzione attribuisca espressamente il carattere della inviolabilità soltanto al diritto di libertà personale (art. 13), al diritto di domicilio (art. 14), al diritto alla libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15), al diritto alla difesa (art. 24 comma 2). La dottrina e la giurisprudenza costituzionale, ritengono, tuttavia, unanimemente che l'inviolabilità connoti anche altri diritti costituzionalmente riconosciuti. Sono, in particolare, da considerarsi inviolabili anche il diritto alla vita (Corte cost., n. 54/1979; Corte cost., n. 223/1996), il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (Corte cost., n. 122/1970), il diritto di contrarre matrimonio (Corte cost., n. 27/1969), il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa (Corte cost., n. 14/1973), il diritto di associazione (Corte cost., 239/1984), il diritto alla salute (Corte cost., n. 103/1977; Corte cost., n. 252/2001), i diritti della persona nell'ambito familiare (Corte cost., n. 258/1982) e i diritti relativi alla possibilità di avere una famiglia (Corte cost., n. 199/1986; Corte cost., n. 181/1976), i diritti dei minori all'istruzione, mantenimento ed educazione (Corte cost., n. 199/1986; Corte cost., n. 198/2003), e molti altri. La giurisprudenza, come la dottrina, hanno a lungo dibattuto sulla questione dell'estensibilità della categoria dei diritti inviolabili oltre quelli riconosciuti dalla Costituzione. Ad un orientamento secondo il quale la nozione di diritto inviolabile ha un carattere riassuntivo dei diritti espressamente previsti e riconosciuti, così che l'art. 2 Cost. si configura come norma a fattispecie chiusa, si contrappone la tesi secondo cui la disposizione ha una portata che consente, ed anzi impone, interpretazioni di tipo estensivo, così da far rientrare nella garanzia da essa apprestata anche diritti non inseriti nella Costituzione. Nell'ambito di tale ultimo orientamento vi è chi assume che il catalogo è aperto ai contenuti propri del diritto naturale e chi afferma che la categoria deve, invece, essere integrata con i valori e gli interessi nuovi che vanno emergendo ad opera delle forze politiche e culturali prevalenti, delle forze politiche, cioè, che determinano la costituzione materiale. Tale impostazione ha ottenuto ampie conferme sia in dottrina che nella giurisprudenza costituzionale in quanto ritenuta idonea a superare l'insufficienza del catalogo dei diritti riconosciuti dalla Costituzione e a consentire all'ordinamento di adeguarsi ai nuovi valori non solo nazionali, ma internazionali. La giurisprudenza costituzionale ha, dunque, aderito alla teoria della norma a fattispecie aperta a partire dalla sentenza n. 561/1987, nella quale la Corte ha riconosciuto che essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, “il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione e inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l'art. 2 Cost. impone di garantire” (v. anche Corte cost., n. 278/1992; Corte cost., n. 383/1998; Corte cost., n. 297/1996; Corte cost., n. 13/1994; Corte cost., n. 120/2001). L'ingiustizia del danno in caso di lesione dei diritti della persona. I rapporti familiari.Nell'ambito dei diritti inviolabili della persona, la cui lesione dà luogo ad un'ingiustizia costituzionalmente qualificata e, quindi, abilita alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale a prescindere da un'espressa previsione normativa, vanno senz'altro annoverati i diritti della personalità. Con tale locuzione ci si riferisce tradizionalmente alle situazioni giuridiche soggettive tutelate dall'ordinamento, relative agli attributi essenziali della personalità di un soggetto giuridico e, dunque, a prerogative inalienabili, imprescrittibili e non aventi carattere immediatamente patrimoniale. Tali diritti hanno come oggetto e come fine quello di garantire, realizzare e tutelare non solo le ragioni fondamentali della vita, ma anche quelle dello sviluppo della persona in ogni aspetto della sua esistenza, tanto fisico, quanto morale. La personalità costituisce, infatti, un valore obiettivo, un bene giuridicamente rilevante e tutelato dall'ordinamento, che si esplica e si realizza sotto un profilo dinamico dalla nascita alla morte della persona. La persona è, pertanto, al contempo il soggetto titolare del diritto ed il termine di riferimento oggettivo del rapporto da realizzarsi. Con riferimento all'oggetto dei diritti della personalità, la dottrina si è divisa in due orientamenti intesi ad affermarne, il primo, la natura monistica e il secondo la struttura pluralistica. La tesi sostenitrice di un diritto unitario della personalità (Giampicocolo, 466 ss.) è stata da taluni autori proposta mediante un suo accostamento all'istituto della proprietà, che pure riceverebbe una definizione unitaria senza, tuttavia, che nel contenuto (godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, come dispone l'art. 832 c.c.) il legislatore abbia provveduto ad una enumerazione – nemmeno esemplificativa – dell'indefinita serie di facoltà nelle quali tale potere può realizzarsi. Altra parte della dottrina ha evidenziato l'impossibilità di inquadrare i diritti della personalità nello schema del diritto soggettivo, tradizionalmente modellato sul diritto di proprietà e, quindi, sull'avere, posto che gli stessi riguardano la categoria dell'essere; da qui, le difficoltà evidenziate da alcuni autori nel configurare un diritto soggettivo in cui il soggetto è al contempo titolare e oggetto del diritto stesso. La tesi pluralistica (De Cupis, 1982, 33) assume, invece, che i diritti della personalità sono diritti soggettivi la cui particolarità risiede nel fatto che il relativo oggetto (bene), diversamente dagli altri beni che sono oggetto di diritto, non è esteriore al soggetto. Di conseguenza secondo tale impostazione è priva di rilevanza giuridica la configurazione, fatta propria dalla teoria c.d. monistica, di un bene che abbracci, complessivamente, i vari modi di essere, fisici e morali della persona. Non esiste, cioè, un unico diritto alla personalità. La vita, l'integrità fisica, la libertà, l'onore dell'uomo sono altrettanti suoi beni personali, oggetto di altrettanti suoi diritti della personalità e non semplici interessi. Interessi sono, invece, le relazioni di utilità esistenti tra ognuno di tali beni e il rispettivo soggetto. Dette relazioni sono, appunto, garantite e difese mediante gli stessi diritti della personalità (De Cupis, 1982, 43). Altra e connessa questione, particolarmente rilevante ai fini della delimitazione del danno non patrimoniale, attiene alla riconducibilità dei diritti della persona entro il paradigma generale del diritto soggettivo (Di Majo, 1962, 69 ss.). Secondo una parte della dottrina i diritti della persona sono diritti soggettivi e anche per essi il soddisfacimento delle diverse esigenze fisico-etico-esistenziali dell'individuo si realizza tramite l'esercizio di situazioni soggettive che si caratterizzano in termini di agere licere (Ferri,, 337-358). In particolare il diritto della personalità è una “figura soggettiva attiva del diritto assoluto” caratterizzata, sotto il profilo contenutistico, dal potere esclusivo di godimento e di disponibilità (Ferri, 342). E il fatto che il valore che ne costituisce l'oggetto sia interno al soggetto titolare del diritto non costituisce fattore ostativo alla qualificazione della fattispecie mediante l'impiego delle categorie della teoria del diritto soggettivo. Ciò in quanto il bene interesse che qualifica la situazione giuridica soggettiva, sebbene non estraneo al suo titolare, è ad esso comunque esterno, nel senso che costituisce pur sempre l'oggetto e la ragione finale della tutela. Sono, pertanto, distintamente configurabili entrambi gli elementi strutturali del diritto soggettivo, ossia l'interesse, anche se non è diretto verso una realtà materiale (come nei diritti reali) ma verso lo stesso soggetto, e il bene, rappresentato, appunto, dai singoli valori della personalità (Rescigno, 1991). È stato, dunque, evidenziato che anche rispetto ai diritti della persona la lesione di uno dei beni interessi che ne costituiscono oggetto non integra di per sé sola danno, coincidendo quest'ultimo nelle conseguenze ossia negli effetti negativi che ne discendono. Anche per i diritti della personalità la lesione che incide sull'interesse protetto è solo la causa del danno (Ferri, 351) e non si identifica con esso. Ove l'offesa riguardi i diritti fondamentali della persona collocati al vertice della gerarchia dei diritti costituzionalmente garantiti da cui derivi un danno non patrimoniale la tutela risarcitoria è, come si è visto (v. § 2.2.), sempre garantita a prescindere da una specifica previsione normativa. Ciò anche nel caso in cui il diritto inviolabile leso trovi ulteriori forme di tutela in forza di specifiche norme di legge che impongano doveri a presidio degli interessi ad esso sottesi. Paradigmatico è il caso della violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, la quale non trova sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti che la relativa inosservanza, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, può integrare gli estremi dell'illecito civile e dar luogo ad un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2059 c.c. (Cassano, Marvasi, 7, 685 e ss.). Più precisamente nell'ambito del c.d. illecito endofamiliare la deminutio della personalità del coniuge o del figlio determinata dalla violazione dei doveri coniugali e genitoriali assume rilevanza ai fini della tutela aquiliana se caratterizzata da incisiva intollerabilità, in quanto in grado di generare non un qualsiasi danno, bensì un danno ingiusto, allegato e provato, nella sua consistenza, da chi che lo invoca. Tale conclusione trova fondamento nell'assunto per il quale la dignità della persona deve ricevere tutela a prescindere dal contesto in cui il suo titolare esprima le proprie prerogative e le proprie potenzialità. La famiglia, sia essa legittima o di fatto, è, anzi, considerata il nucleo che deve favorire lo svolgimento e la crescita di quelle prerogative e di quelle potenzialità. I parametri comportamentali cui viene di norma ancorata la tutela risarcitoria vengono rapportati a condotte dolose o gravemente colpose del responsabile, con la conseguenza che la sanzione pecuniaria propria della tutela aquiliana assolve in tali casi ad una funzione lato sensu punitiva, finalità questa, peraltro, affatto estranea al sistema del diritto di famiglia (paradigmatico è l'istituto disciplinato dall'art. 709 ter c.p.c.). Resta, in ogni caso, ferma l'autonomia della tutela aquiliana rispetto alla tutela speciale approntata dal diritto di famiglia. È stato, ad esempio, ritenuto indifferente, ai fini della pronuncia sul lamentato pregiudizio, la declaratoria di addebito, che non si pone, quindi, come presupposto per l'azione risarcitoria. Il giudice del procedimento ex artt. 706 ss. c.p.c. accerta lo stato di crisi del rapporto, ancorandolo alla intollerabilità della prosecuzione della convivenza; il giudice adito per l'accertamento della responsabilità civile deve, invece, risalire alle cause, alle modalità ed alle conseguenze della rottura, per valutare l'eventuale violazione del principio del neminem laedere (Cassano, Marvasi, 7, 685 e ss.). La giurisprudenza di legittimità ha fatto proprio l'assunto per il quale la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole non trova sanzione soltanto nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, potendo integrare gli estremi dell'illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti. Questa, pertanto, può dar luogo ad un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2059 c.c. esercitabile anche nell'ambito dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità. Il principio è stato enunciato anche con riferimento ai figli naturali, in relazione ai quali il disinteresse mostrato da un genitore integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 Cost. — oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento — un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell'illecito civile e legittima all'esercizio, ai sensi dell'art. 2059 c.c., di un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole (Cass., n. 5662/2012; Cass., n. 3079/2015). Con riferimento al rapporto coniugale, la giurisprudenza ha più volte affermato l'esigenza di dare rilievo alla dignità dei coniugi come diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, evidenziando che se non ogni violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio, e neppure la pronuncia di addebito, permettono di fondare una valutazione in termini di ingiustizia del danno, deve valere anche la proposizione inversa, così che la mancanza di addebito della separazione di per sé non esclude il ricorso alla strumento risarcitorio. Occorre, secondo la Suprema Corte, verificare in concreto se ed in quale misura la condotta di un coniuge, dolosa o gravemente colposa, possa essere ritenuta fonte di un danno in quanto lesiva di una situazione soggettiva di rango costituzionale sempre che sia accertato il nesso di causa (Cass., n. 18853/2011). La giurisprudenza di merito ha, infine, concretizzato la nozione di quid pluris identificandolo con condotte apertamente contrarie ai doveri nascenti dal matrimonio poste in essere pur nella consapevolezza della loro attitudine a recare pregiudizio alla sfera dell'altro coniuge (Trib. Milano, 24 settembre 2002; Trib. Venezia, 3 luglio 2006, in Giur. mer., 2006, 10, 2178). Così l'illecito endofamiliare commesso in violazione dei doveri genitoriali verso la prole può essere sia istantaneo, ove ricorra una singola condotta inadempiente dell'agente, che si esaurisce prima o nel momento stesso della produzione del danno, sia permanente, se detta condotta perdura oltre tale momento e continua a cagionare il danno per tutto il corso della sua reiterazione, poiché il genitore si estranea completamente per un periodo significativo dalla vita dei figli; ne consegue che la natura dell'illecito incide sul termine di prescrizione che decorre, nel primo caso, dal giorno in cui il terzo provoca il danno e, nel secondo, da quello nel quale, in assenza di impedimenti giuridici all'esercizio dell'azione risarcitoria, l'illecito viene percepito o può essere percepito, come danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, con l'ordinaria diligenza e tenendo una condotta non anomala (Cass. n. 11097/2019, in applicazione del principio, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione dei giudici di merito i quali, nel rigettare la domanda risarcitoria rivolta dal figlio verso il padre per i danni cagionati dal protratto disinteresse da questi mostrato nei suoi confronti, avevano qualificato erroneamente l'illecito come "istantaneo ad effetti permanenti" e ritenuto maturata la prescrizione del diritto, facendo decorrere il relativo termine dal momento nel quale si era configurata la condotta di abbandono del genitore, ovvero dalla nascita del figlio, anziché da quello in cui il medesimo figlio ne aveva percepito l'intrinseca ingiustizia). La Suprema Corte ha, infine, stabilito che la natura giuridica del dovere di fedeltà derivante dal matrimonio implica che la sua violazione non sia sanzionata unicamente con le misure tipiche del diritto di famiglia, quale l'addebito della separazione, ma possa dar luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c., senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia a ciò preclusiva, sempre che la condizione di afflizione indotta nel coniuge superi la soglia della tollerabilità e si traduca, per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, quale, in ipotesi, quello alla salute o all'onore o alla dignità personale (Cass. n. 6598/2019). L'ingiustizia del danno nel rapporto di lavoro. Il rapporto di lavoro è regolato da un contratto, così che nel suo ambito dovrebbe escludersi l'operatività della tutela aquiliana. Eppure la particolarità del contratto di lavoro, data dal coinvolgimento della persona del lavoratore, fa sì che una condotta del datore lesiva dei diritti della personalità del dipendente possa integrare al contempo l'inadempimento contrattuale e il fatto illecito lesivo della personalità del lavoratore stesso (Franzoni, 924). Tra i comportamenti illeciti del datore di lavoro autonomamente rilevanti ai fini della tutela aquiliana che per primi hanno ricevuto attenzione da parte della giurisprudenza, va ricordato il licenziamento ingiurioso, dove l'ingiuria è stata, appunto, apprezzata come fatto costitutivo di un'autonoma fattispecie di responsabilità aquiliana, rispetto alla quale il rapporto di lavoro è stato considerato alla stregua di mera occasione. Nel corso del tempo sono aumentate le condotte vessatorie del datore di lavoro considerate dalla giurisprudenza quali autonomi fatti illeciti suscettibili di tutela risarcitoria. L'ampia casistica viene ricondotta dalla giurisprudenza nella figura del mobbing. In assenza di una nozione legale del fenomeno, la sua definizione è stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza attraverso un'interpretazione costituzionalmente orientata delle norme rilevanti (Tullini, 253-254). Secondo la nozione condivisa dagli interpreti, il mobbing rappresenta un fenomeno complesso consistente in una serie di atti o comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti o incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, nonché espressivi di un disegno finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica. Il mobbing è, dunque, l'insieme delle vessazioni, molestie e pratiche persecutorie poste in essere con atteggiamenti intenzionali, di apprezzabile intensità e reiterati nel tempo a danno del lavoratore e con lo scopo di aggredire in maniera sistematica la sua personalità e dignità per estrometterlo o allontanarlo dal contesto aziendale. Esso può realizzarsi anche mediante atti o provvedimenti che costituiscono manifestazione del potere datoriale formalmente corretti, ma sostanzialmente abusivi perché posti in essere per perseguire scopi diversi da quelli tecnico-organizzativi che ne costituiscono la causa (Rota, 3, 254; Malzani). Tradizionalmente la giurisprudenza abbina alla nozione di mobbing quella di danno esistenziale, danno identificato con il nocumento alle attività non remunerative causato da un fatto illecito lesivo di un diritto costituzionalmente garantito, ed ha continuato a riconoscerne la risarcibilità anche successivamente alle sentenze delle Sezioni Unite del 2008 che tale categoria hanno, come noto, negato. Una parte della dottrina ha avallato tale orientamento giungendo a sostenere che il danno esistenziale doveva considerarsi danno in re ipsa derivante automaticamente dall'esistenza dell'evento lesivo (Pizzoferrato, 309 ss.). Altra dottrina ha, invece, criticato tale impostazione, evidenziando che il danno non patrimoniale derivante da condotte mobbizzanti non differisce in alcun modo dal danno non patrimoniale generale regolato dai principi sanciti dalle Sezioni Unite dela Corte di Cassazione nella nota sentenza n. 26972dell'11.11.2008 (Ponzanelli, 1081 ss.). Con specifico riferimento all'ipotesi di demansionamento, è stato, infatti, evidenziato che, non sussistendo reato, non potrebbe a rigore essere riconosciuto il ristoro del danno non patrimoniale-morale del lavoratore. Se, invece, alla condotta illecita del datore è conseguito un pregiudizio all'integrità psicofisica del dipendente l'applicazione della Tabella elaborata dal Tribunale di Milano non potrebbe lasciare spazio all'autonoma liquidazione del danno morale, posto che detta tabella prevede un'unica voce di danno non patrimoniale, comprensivo di danno biologico e di danno morale, così che il riconoscimento in via autonoma ed aggiuntiva di un'apposita posta risarcitoria per la sofferenza morale darebbe luogo ad un'evidente duplicazione. Lo stesso deve dirsi, secondo l'opinione in esame, con riferimento al profilo dinamico relazionale del pregiudizio subito dal lavoratore demansionato, posto che tali aspetti sono sempre ricompresi nella valutazione del danno biologico contenuta nel sistema tabellare. Il danno esistenziale da mobbing ha trovato un certo riscontro in ambito giurisprudenziale quale risposta ritenuta adeguata a fornire identità giuridica alle lesioni subite dalla persona in conseguenza delle vessazioni sopportate in ambiente lavorativo. Nelle motivazioni rese a sostegno del riconoscimento del danno esistenziale da mobbing, si fa spesso riferimento alla vita professionale del danneggiato e alla compromissione dell'aspettativa di sviluppo della professionalità del lavoratore dentro e fuori l'impresa in quanto espressione anche del prestigio professionale e della dignità (Cass.,S.U., n. 6572/2006, secondo la quale il danno esistenziale è quel pregiudizio che “l'illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli aspetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per l'espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”). L'impostazione delineata dalle Sezioni Unite è stata sostenuta anche successivamente alla sistemazione generale data alla materia del danno non patrimoniale dalle Stesse Sezioni Unite della Suprema Corte nel 2008. In tempi più recenti la giurisprudenza giuslavoristica ha, infatti, ribadito la nozione id danno esistenziale giuslavorstica, pur precisando che il risarcimento non può in questo caso riconoscersi sulla base di formule standardizzate o di generiche affermazioni, né in maniera automatica al sussistere di un inesatto adempimento datoriale. Oltre all'inadempimento datoriale il lavoratore è tenuto a provare l'effettiva esistenza e la concreta entità dell'alterazione dell'equilibrio psico-fisico ed una compromissione di tipo relazionale. L'impossibilità per il giudice di verificare ripercussioni negative nella sfera non patrimoniale della vittima, pur a fronte di accertato mobbing, non può, quindi, dar luogo ad un automatico ristoro del danno esistenziale (Cass., sez. lav., n. 16690/2015; Cass., sez. lav., n. 23837/2015). Sembrano, invece, ricondurre i pregiudizi alla persona del lavoratore derivanti da mobbing entro le categoria generale del danno non patrimoniale, la quale postula la lesione di un interesse costituzionalmente rilevante, nei termini sopra chiariti, alcune pronunce (tra cui Cass., sez. lav., n. 17689/2014), secondo le quali, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio — illeciti o anche leciti se considerati singolarmente — che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi. L'elemento qualificante del mobbing lavorativo, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va, dunque, ricercato non nell'illegittimità dei singoli atti, ma nell'intento persecutorio che li unifica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell'assenza dell'elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni personali all'interno dell'ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore (Cass. sez. lav. n. 26684/2017). Ove difetti la continuità delle azioni vessatorie si configura lo straining, ossia una forma attenuata di mobbing, cui difetta la continuità delle azioni vessatorie, con la conseguenza che la prospettazione solo in appello di tale fenomeno, se nel ricorso di primo grado gli stessi fatti erano stati allegati e qualificati mobbing, non integra la violazione dell'art. 112 c.p.c., costituendo entrambi comportamenti datoriali ostili, atti ad incidere sul diritto alla salute (Cass. sez. lav. n. 18164/2018). In tema di mobbing, la responsabilità esclusiva di altro dipendente, il quale si trovi eventualmente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, è fondata sull' art. 2043 c.c. e non sull' art. 2087 c.c. , essendo egli soggetto terzo rispetto al rapporto di lavoro. Ne deriva che la dimostrazione di questa responsabilità dovrà essere fornita applicando le regole previste per gli illeciti aquiliani (Cass. n. 29310/2024). I nuovi interessi suscettibili di tutela risarcitoriaL'ambito in cui si è maggiormente affermato il procedimento ermeneutico volto da estrapolare da regole e principi nuovi interessi meritevoli di tutela risarcitoria è quello della persona. Attraverso tale processo hanno, infatti, assunto dignità giuridica e tutela risarcitoria, talora anche attraverso un espresso riconoscimento normativo, interessi come la dignità personale, l'onore, la riservatezza, l'abitazione, l'ambiente. È stato ancora una volta evidenziato che, anche con riferimento ai nuovi diritti così elaborati dalla giurisprudenza, per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali è sufficiente, ai fini dell'ingiustizia di cui all'art. 2043 c.c., dimostrare la natura giuridica dell'interesse, oltre alla sua risarcibilità, mentre, per conseguire il ristoro del danno non patrimoniale, è necessario provare che l'interesse leso formi oggetto di riconoscimento costituzionale, in quanto sotteso ad un diritto fondamentale ed inviolabile della persona (Navarretta, 168). In dottrina è stata, inoltre, censurata la tendenza, talora registratasi in giurisprudenza, ad affermare la tutela risarcitoria elevando a categoria generale l'istanza emergente dai singoli casi concreti; ovvero a trarre l'esistenza di nuovi diritti dalla solo carattere generale di un riferimento costituzionale, senza considerare il monito della dottrina costituzionalista ad arginare l'aumento incontrollato di nuovi interessi meritevoli di tutela che inevitabilmente finiscono con il comprimere i diritti già protetti; ovvero, infine, ad elaborare valori come la felicità o al serenità individuali che non hanno alcun fondamento nel sistema positivo nazionale e comunitario (Navarretta, 164). Tra gli interessi riconosciuti attraverso un impiego erroneo della tecnica di individuazione dei nuovi diritti va richiamato il diritto alla serenità familiare (Trib. Milano, 18 febbraio 1988, in Resp. civ. e prev., 1988, 454 e ss.) o ai rapporti sessuali coniugali (Cass. n. 6607/1986), il diritto alla tranquillità in caso di immissioni intollerabili (Trib. Rimini, 18 agosto 1988, in Nuova giur. civ. comm., 1988, I, 723 e ss.), il diritto del fratello all'ampliamento del nucleo familiare. Alla base di tali elaborazioni si pongono esigenze estranee alla prospettiva dell'ingiustizia del danno e collegate alla difficoltà di accertamento del nesso causale o per aggirare la previsione dell'art. 2059 c.c. in materia di danno non patrimoniale. Va, al riguardo, richiamato il noto caso De Chirico che negli anni '80 indusse la giurisprudenza di legittimità ad elaborare il c.d. danno all'integrità del patrimonio per tutelare l'acquirente di un quadro firmato dal pittore e autenticato da notaio e successivamente disconosciuto dallo stesso autore. La giurisprudenza, invece di far riferimento all'ingiusto affidamento leso dal contegno del notaio, ha ricondotto la fattispecie nel danno c.d. meramente economico, per definizione estranea all'ingiustizia del danno, elaborando un nuovo diritto soggettivo avente, appunto, ad oggetto l'integrità del patrimonio. Con specifico riguardo al danno da immissioni intollerabili, la Suprema Corte ha, tuttavia, chiarito che l'assenza di un danno biologico documentato non osta al risarcimento del danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite, allorché siano stati lesi il diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione ed il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, quali diritti costituzionalmente garantiti, nonché tutelati dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, la prova del cui pregiudizio può essere fornita anche con presunzioni (Cass. S.U. n. 2611/2017; Cass. n. 10861/2018). Il danno non patrimoniale subito in conseguenza di immissioni superiori alla normale tollerabilità non può, però, essere considerato come pregiudizio in re ipsa, ossia identificabile con la stessa lesione del diritto (nella specie, quello al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione ed alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane), venendo, diversamente, a configurarsi un vero e proprio danno punitivo privo di copertura normativa. Ne consegue che il danneggiato che ne chieda il risarcimento deve dimostrare di avere subito un danno effettivo in termini di disagi sofferti in dipendenza della difficile vivibilità della casa, potendosi a tal fine avvalere anche di presunzioni gravi, precise e concordanti sulla base però di elementi indiziari diversi dal fatto in sé dell'esistenza di immissioni di rumore superiori alla normale tollerabilità (Cass. n. 19434/2019). Il diritto allo svolgimento della personalità in relazione alla casa di abitazione. Tra i nuovi interessi della persona enucleati dalla giurisprudenza attraverso l'osservazione della realtà sociale in costante evoluzione, va menzionato il diritto di svolgimento della personalità in relazione alla casa di abitazione. Secondo i principi sanciti dalla Corte di Cassazione a sezioni unite (Cass. S.U., n. 26972/2008), la risarcibilità del danno non patrimoniale nei casi in cui il risarcimento di tale danno non è specificamente previsto dalla legge e laddove non è ravvisabile una condotta costituente reato, presuppone che il fatto illecito ovvero l'inadempimento contrattuale abbia determinato una seria e grave lesione di un diritto inviolabile della persona costituzionalmente protetto. Ci si è, dunque, interrogati sul se la lesione consistente in una compromissione del diritto di svolgimento della personalità in relazione al godimento della casa di abitazione trovi tutela, quale diritto inviolabile, nel sistema costituzionale. Al riguardo è stato, in primo luogo evidenziato che la Carta Costituzionale non contempla tale diritto che non appare riconducibile alla libertà di domicilio di cui all'art. 14. La giurisprudenza costituzionale considera, ciò non di meno, l'abitazione oggetto di un interesse primario della persona e fa rientrare il relativo diritto tra gli elementi essenziali della solidarietà cui si conforma lo Stato voluto dal legislatore costituente (Corte cost., n. 217/1988; Corte cost., n. 410/2001). Tali enunciazioni di principio si fondano sull'assunto per il quale le norme costituzionali esigono che la collettività non lasci una persona bisognosa priva di un alloggio, dovendo, piuttosto, provvedere alle sue necessità a mezzo dei servizi sociali e con oneri a carico delle finanze pubbliche e che è compito dello Stato adottare tutte le iniziative necessarie per garantire al maggior numero possibile di cittadini di godere di una propria abitazione. Si tratta, però, di una tutela del diritto di abitazione solo in senso verticale, nella relazione tra il privato, privo di un alloggio in cui vivere, e lo Stato, che deve adottare tutte le iniziative necessarie per tutelare le esigenze abitative, mentre non si rinvengono nella Carta Costituzionale disposizioni che assicurino al diritto di abitazione tutela anche nel rapporto tra privati. Nella materia in esame è stata, tuttavia, evidenziata la necessità di prendere in considerazione anche la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, che all'art. 8 prevede il «diritto al rispetto della vita privata e familiare», stabilendo che «ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio». In particolare, secondo quanto chiarito dalla Corte di Strasburgo, il diritto al rispetto del domicilio va inteso, nel senso che deve essere tutelata la vivibilità dell'abitazione e della vita privata che si svolge al suo interno. E il domicilio deve essere tutelato non solo quale spazio fisico, ma anche nel suo pacifico godimento. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha chiarito che l'art. 8 della Convenzione tutela il diritto individuale al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio, da intendersi non solo come lo spazio, fisicamente delimitato, in cui si svolge la vita privata, ma anche come diritto al sereno godimento di tale spazio, con la conseguenza che tale diritto può essere leso anche da immissioni intollerabili e con l'importante precisazione che l'obiettivo primario del citato art. 8 è quello di garantire la tutela dei singoli dalle arbitrarie interferenze delle autorità pubbliche e ciò comporta l'obbligo positivo delle predette autorità di adottare le misure idonee a garantire il rispetto della vita privata anche nelle relazioni intercorrenti tra privati (Dees v. Ungheria n. 2345/2006 par. 21). Ciò posto, la Corte Costituzionale ha evidenziato la necessità di procedere ad un confronto tra la tutela dei diritti fondamentali garantita dalla Convenzione e quella assicurata dalla Carta Costituzionale, mirando alla massima espansione delle garanzie anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti, pervenendo «ad una combinazione virtuosa tra l'obbligo che incombe sul legislatore nazionale di adeguarsi ai principi posti dalla Cedu, l'obbligo che parimenti incombe sul giudice comune di dare alle norme interne una interpretazione conforme ai precetti convenzionali e l'obbligo che infine incombe sulla Corte costituzionale – nell'ipotesi di impossibilità di una interpretazione adeguatrice — di non consentire che continui ad avere efficacia nell'ordinamento giuridico italiano una norma di cui sia stato accertato il deficit di tutela riguardo ad un diritto fondamentale» (Corte cost., n. 317/2009). Ne deriva che deve ritenersi che una lettura delle norme costituzionali orientata dalle disposizioni della Cedu debba condurre ad un rafforzamento del sistema di tutela delineato nella Carta Costituzionale così che, con riguardo al diritto di abitazione, va esteso anche nel rapporto tra privati e non ristretto ad un ambito meramente economico. Solo in tempi recenti tale assunto è stato recepito dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha evidenziato che, ancorché il referente normativo della lesione al godimento della propria abitazione vada rinvenuto nell'art. 42 comma 2 Cost., che tutela la proprietà privata e detta i limiti per la compressione del relativo diritto, il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall'art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi (Cass. S.U., n. 2611/2017; Cass. n. 20927/2015), e la prova del pregiudizio subito può essere fornita anche mediante presunzioni, sulla base delle nozioni di comune esperienza (Cass. n. 26899/2014). L'ingiustizia del danno nelle unioni di fatto. Uno dei settori in cui più significativa è stato il contributo giurisprudenziale nell'enucleazione di nuovi interessi reputati dall'ordinamento come meritevoli di tutela e quindi suscettibili di tutela risarcitoria è stato quello delle relazioni affettive stabili. Come osservato dalla dottrina (Navarretta, 170), in tale ambito i giudici di legittimità hanno saputo cogliere gli indici normativi inseriti in testi legislativi, talora settoriali, per riconoscere sempre maggiori spazi di tutela alle unioni di fatto. Facendo leva sull'art. 6 l. n. 392/1978 la giurisprudenza ha attribuito rilevanza giuridica alla convivenza more uxorio anche ai fini risarcitori, condizionando il riconoscimento della tutela risarcitoria, per il caso di perdita del rapporto affettivo, alla dimostrazione di una relazione interpersonale con carattere stabile che, come nel contesto familiare, si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale. Da tempo si è, inoltre, affacciato, nell'ambito del dibattito dottrinale, il problema della risarcibilità del danno, patrimoniale e non patrimoniale, da perdita o da grave compromissione del rapporto affettivo nelle unioni tra omosessuali (Auletta, 615 e ss). Un supporto decisivo alla tesi dell'estensibilità alle unioni civili della tutela risarcitoria è stato fornito dalla legge 20 maggio 2016, n. 76 (Canonico, 1108 e ss.) che ha istituito l'unione civile tra persone dello stesso sesso quale formazione sociale giuridicamente rilevante, costituita dai soggetti interessati mediante dichiarazione resa dinanzi all'ufficiale di stato civile alla presenza di due testimoni (art. 1 comma 1). Secondo il nuovo testo normativo nell'unione civile «le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri», con obbligo reciproco all'assistenza morale e materiale, mentre sul piano patrimoniale «entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni» (art. 1, comma 11). Nella stessa legge vengono disciplinate, oltre alle unioni civili fra persone dello stesso sesso, le convivenze di fatto che legano «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile» (art. 1 comma 36), con una situazione che, per essere giuridicamente rilevante, deve risultare da apposita dichiarazione anagrafica (art. 1 comma 37). Già prima dell'entrata in vigore della legge sulle unioni civili, la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo (cfr. sent. Moretti e Benedetti contro Italia del 27 aprile 2010) evidenziava come, ai fini della risarcibilità del danno da perdita del rapporto affettivo, la questione dell'esistenza o dell'assenza di una «vita familiare» come prevista dall'art. 8 della Cedu in assenza di qualsiasi vincolo di parentela costituisse una questione di fatto dipendente dall'esistenza di legami personali stretti. La giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo aveva esteso la nozione di «vita familiare» di cui all'art. 8 Cedu ricomprendendovi anche le unioni omosessuali (cfr. in particolare la pronuncia Schalk e Kopf c. Austria del 24 giugno 2010, superata la propria precedente interpretazione, per cui la relazione di una coppia omossessuale rientrerebbe unicamente nella nozione di «vita privata» e non in quella di «vita familiare» cui all'art. 8 Cedu, ha ritenuto che la relazione di una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto rientrasse nella nozione di vita familiare allo stesso modo della relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione. La Corte Costituzionale (Corte cost. n. 348/2007; Corte cost. n. 349/2007; Corte Cost. n. 80/2011; Corte cost. n. 15/2012) hanno chiarito che l'art. 117 comma 1 Cost. contiene un rinvio mobile alle disposizioni della Cedu, nell'interpretazione che ne dà la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che assurgono in tal modo a fonti interposte e vanno ad integrare il parametro costituzionale (cfr. Corte cost. n. 317/2009 che ha precisato che «un incremento di tutela indotto dal dispiegarsi degli effetti della normativa Cedu certamente non viola gli articoli della Costituzione posti a garanzia degli stessi diritti, ma ne esplicita ed arricchisce il contenuto innalzando il livello di sviluppo complessivo dell'ordinamento nazionale nel settore dei diritti fondamentali»). Tale orientamento ha ottenuto conferma anche nella giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 9231/2013, secondo cui all'art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo va riconosciuta la valenza di fonte normativa di riconoscimento di una posizione giuridica meritevole di tutela nel nostro ordinamento; v. anche Cass. S.U., n. 6529/2010; per un caso di riconoscimento della tutela risarcitoria nell'ambito di una coppia omosessuale, cfr. Trib. Reggio Emilia, II, 2 marzo 2016, n. 315). Il diritto all'autodeterminazione procreativa. Altro settore in cui sono in tempi recenti emersi nuovi interessi di natura personale suscettibili di tutela risarcitoria è quello delle c.d. nascite indesiderate, espressione nella quale in dottrina si distinguono tre diverse fattispecie, ossia quella della gravidanza indesiderata, quella della nascita indesiderata e quella della vita non voluta (Cassone, 371-425; Ferrario, 1-105, 125-186). Il primo caso si verifica quando, nonostante la sottoposizione a sterilizzazione femminile o maschile, si verifichi ciò non di meno il concepimento e la nascita di un bambino sano ma non desiderato. Il tal caso il diritto leso è quello alla libera determinazione procreativa (Navarretta, 172). Nel secondo dei casi indicati nonostante la sottoposizione volontaria della donna ad interruzione di gravidanza, la gravidanza sia ciò non di meno proseguita e sia venuto alla luce un bambino sano ma non voluto. Il diritto leso in tale ipotesi è quello all'interruzione della gravidanza e all'autodeterminazione procreativa. Nella terza ipotesi viene in rilievo la situazione in cui in conseguenza dalla mancata o inesatta diagnosi prenatale nasce un bambino non voluto perché affetto da una patologia. In questo caso si configura la lesione del diritto di ciascuno dei genitori a scegliere liberamente di interrompere la gravidanza e in generale il diritto alla libera scelta procreativa. Talora in questo caso è stato riconosciuto anche il diritto del figlio a non nascere se gravemente malato. Con riguardo a tale ultima fattispecie, nell'ambito della giurisprudenza di legittimità si sono registrati due tesi opposte, in quanto all'orientamento che ha riconosciuto la tutela risarcitoria del concepito sul presupposto che quest'ultimo, ancorché privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita, una volta venuto ad esistenza, ha diritto ad essere risarcito con riguardo al danno consistente nell'essere nato non sano, e rappresentato dall'interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità, (Cass. n. 16754/2012) si è contrapposta, quella negatrice della tutela, fondata sull'assunto per il quale il danneggiato al momento della condotta in tesi antigiuridica del medico è carente di legittimazione ad agire in quanto privo della capacità giuridica posto che ai sensi dell'art. 1 c.c. la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita (Cass. n. 14488/2004; Cass. n. 16123/72006). Il contrasto è stato risolto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. n. 25767/2015), che hanno optato per quest'ultima impostazione enunciando il principio di diritto secondo il quale il nato disabile non può agire per il risarcimento del danno, neppure sotto il profilo dell'interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo, giacché l'ordinamento non conosce il «diritto a non nascere se non sano», né la vita del bambino può integrare un danno-conseguenza dell'illecito omissivo del medico. La stessa pronuncia ha, inoltre, dettato una regola di riparto dell'onere probatorio con riguardo alla fattispecie di responsabilità medica da nascita indesiderata, affermando che il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l'onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà di interrompere la gravidanza — ricorrendone le condizioni di legge — ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale; quest'onere può essere assolto tramite praesumptio hominis, in base ad inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all'opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all'aborto per qualsivoglia ragione personale. La Suprema Corte ha, inoltre, chiarito che in caso di erronea esecuzione dell'intervento di interruzione della gravidanza che abbia dato luogo ad una nascita indesiderata, in virtù dell'interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 1 e 4 della l. n. 194 del 1978, deve essere riconosciuto non soltanto il danno alla salute psico-fisica della donna ma anche quello sofferto da entrambi i genitori per la lesione della loro libertà di autodeterminazione, da riconoscersi in relazione alle negative ricadute esistenziali derivanti dalla violazione del diritto a non dar seguito alla gestazione nell'ambito dei tempi e delle modalità stabilite dalla legge e prescindendo totalmente dalle condizioni di salute del nato (Cass. n. 2070/2018; Cass. n. 2675/2018). Danno ingiusto e danno meramente patrimonialeLa nozione di danno ingiusto desumibile dal codice civile italiano si distingue nettamente tanto da quella adottata dal sistema di Common law, quanto dal modello delineato negli ordinamenti giuridici tedesco e francese. Con metodo analogo a quello della normazione penale, il Common law e il BGB. privilegiano l'individuazione casistica degli illeciti prouttivi di danno ovvero di tipologie di accadimenti dannosi cui riconducono la sanzione della responsabilità (il § 823 del Bgb ricollega la responsabilità civile alla lesione arrecata al corpo, alla salute, alla libertà, alla proprietà o ad altro diritto del soggetto danneggiato). Nella prospettiva di tali sistemi ordinamentali l'ingiustizia del danno discende dalla lesione del diritto o dell'interesse. A tale modello si contrappone quello fondato sulla clausola generale, la cui più significativa applicazione è rappresentata dall'art. 1832 del codice civile francese, il quale fa discendere l'obbligazione risarcitoria da qualunque fatto umano che causa ad altri un danno con colpa. Significativo è il fatto che nella formulazione della norma il termine dommage non risulta specificato da alcun aggettivo, a differenza dell'art. 2043 c.c. del nostro codice civile in cui, invece, il termine danno è definito «ingiusto». Valorizzando i dati ritraibili dalla Relazione al codice civile (n. 797), la dottrina ha evidenziato la rilevanza sistematica di tale qualificazione che, connotando il danno in termini di lesione della sfera giuridica altrui, segna un significativo scostamento dal sistema francese incentrato sulla nozione di danno quale pura perdita patrimoniale (Di Majo, 20;Castronovo, 9). La dottrina italiana si è divisa tra coloro (Visintini, passim) che hanno intravisto nell'ingiustizia del danno una clausola generale, sia pure diversa da quella per così dire «pura» del diritto francese, e coloro che hanno inquadrato il danno risarcibile in termini di tipicità, sia pure non in senso tecnico, ma nel senso di una circoscrizione della risarcibilità del danno alla sola lesione di diritti soggettivi. Secondo la prima delle tesi richiamate, che è senz'altro maggioritaria, la connotazione in termini di clausola generale della formula dell'art. 2043 c.c. se, da un lato, attribuisce al giudice la verifica dell'ingiustizia attraverso una valutazione concretizzante, dall'altro impone allo stesso una selezione e un bilanciamento degli interessi giuridicamente rilevanti sulla scorta di una valutazione già effettuata dal Legislatore (Muccioli, 430 e ss.). In forza di tale ultimo rilievo è stato evidenziato che il sintagma «danno ingiusto» non costituisce una vera e propria clausola generale, ma una norma di portata generale, riassuntiva e di rinvio, idonea ad adeguarsi all'evoluzione dell'ordinamento rendendo risarcibile il danno derivante dalla lesione non solo di un diritto soggettivo ma di ogni altra situazione giuridica soggettiva rilevante secondo l'ordinamento giuridico (Scognamiglio, 25). In un contesto normativo siffatto non può in tesi trovare cittadinanza la figura del c.d. danno meramente patrimoniale o danno all'integrità del patrimonio, espressioni con le quali si indica un danno patrimoniale consistente in una perdita esclusivamente economica (pure economic loss) ovvero in una diminuzione del valore economico complessivo di un patrimonio non mediata dalla lesione di una specifica situazione giuridica soggettiva (Muccioli, 2008, 430). La particolarità di tale figura di pregiudizio risiede nell'essere una pura perdita patrimoniale non correlata alla lesione di un interesse sotteso ad una situazione giuridica soggettiva. La questione della risarcibilità del danno meramente patrimoniale è sorta nei paesi di Common law e in Germania dove vige, come già detto, un regime di tipicità dell'illecito, mentre non ha ricevuto attenzione da parte della dottrina francese avuto riguardo alla formulazione della norma cardine della responsabilità civile in termini di clausola generale pura. A rigore nel sistema della responsabilità extracontrattuale delineato dal codice civile italiano, che pur ponendosi a metà strada tra i due modelli appena richiamati, postula, comunque, la lesione di un interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico che costituisce un prius rispetto all'accertamento dell'ingiustizia del danno demandato al giudice, una fattispecie siffatta non potrebbe trovare cittadinanza. La nozione di danno quale pura diminuzione quantitativa del patrimonio è, infatti, per definizione svincolata dalla lesione di un interesse giuridicamente qualificato e quindi può trovare riconoscimento soltanto nella responsabilità per inadempimento, dove un problema di individuazione dell'interesse leso non si pone, considerato che la responsabilità discende dall'inadempimento di un'obbligazione preesistente. In alcuni settori dell'economia (in particolare in quello bancario e finanziario) l'esigenza di garantire il ristoro delle perdite patrimoniali subite da soggetti al di fuori di un rapporto obbligatorio e senza la lesione di un interesse qualificato, ha portato la dottrina e la giurisprudenza ad elaborare correttivialla rigida logica dell'ingiustizia del danno. La dottrina si è, così, divisa tra coloro che, pur rimanendo nell'ottica della responsabilità extracontrattuale hanno tentato di valorizzarne la dimensione relazionale (Busnelli—Navarretta, 206 e ss.) e coloro che, invece, hanno ipotizzato una responsabilità da contatto sociale, ossia da inadempimento di obblighi derivanti da «altri atti o fatti idonei a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico» (Castronovo, 1995, 147). La giurisprudenza più risalente ha individuato la situazione soggettiva del diritto all'integrità del patrimonio o alla libera determinazione nel compimento dell'attività negoziale nell'ambito della responsabilità per danni patrimoniali derivati dall'aver fornito informazioni false o inesatte al di fuori di un rapporto contrattuale (Cass. n. 2765/1982; Cass. n. 4755/1986). In tempi più recenti ha, invece, ancorato la risarcibilità di tale pregiudizio alla violazione della clausola della buona fede ritenuta operante anche in ragione del particolare statusdella banca (in materia bancaria cfr., Cass. n. 5659/1998). In relazione all'uso interbancario di chiedere o dare, per telefono o con altro mezzo, informazioni sull'esistenza di fondi per il pagamento di assegni in conto corrente, la Suprema Corte ha configurato una responsabilità di natura extracontrattuale della banca trattaria qualora questa fornisca alla banca richiedente notizie non rispondenti al vero sulla situazione del conto al momento dell'informazione. Tale responsabilità si giustifica per la conoscenza che la banca ha del proprio cliente e si fonda sulla lesione dell'affidamento che essa comporta nei terzi (Cass. n. 10067/1998). In tempi più recenti, la Suprema Corte ha enunciato il principio di diritto secondo il quale si configura un fatto illecito da informazioni o da dichiarazioni false od inesatte a carico della società controllante di una delle due parti contraenti, nell'ipotesi in cui tale società, terza rispetto al contratto ed al di fuori di qualsiasi dichiarazione di per sé vincolante e coercibile, con la sua condotta scorretta, manifestata sia per il tramite dei suoi organi, sia mediante direttive alla controllata, e consistente nell'indurre o rafforzare l'affidamento del creditore della società controllata nella capacità di adempimento di quest'ultima, abbia cagionato un danno ingiusto per lesione dell'affidamento dell'altra parte contraente, la quale abbia, per tale motivo, continuato ad operare forniture alla controllata medesima, poi non adempiute. La Corte di Cassazione ha precisato che la responsabilità configurabile nel caso di specie ha natura aquiliana e va ricondotta nella clausola generale dell'art. 2043 c.c. per essere l'autore dell'illecito estraneo al contratto stipulato a causa delle informazioni fornite e per non essere configurabile l'inadempimento di specifiche obbligazioni gravanti sul dichiarante (Cass. n. 3003/2012). In materia di illecito per violazione della disciplina antitrust la Suprema Corte ha, invece, individuato l'interesse qualificato leso dall'attività illecita «nell'interesse ultraindividuale alla libertà contrattuale concretantesi nel diritto a godere dei benefici della competizione commerciale costituenti la colonna portante del meccanismo negoziale e della legge della domanda e dell'offerta» (Cass. n. 2305/2007; Cass. S.U. 2207/2005) Danno ingiusto e perdita di chanceSecondo una parte della dottrina (Castronovo, 315 e ss.) alla fattispecie del danno meramente patrimoniale va ricondotta anche la c.d. perdita di chance atteso che tale perdita, quando si riferisce ad interessi di carattere economico, costituisce un danno meramente patrimoniale caratterizzato dal fatto di non essere certo, ma solo probabile e, quando attiene ad interessi di natura non patrimoniale, si configura come il mancato conseguimento di un risultato utile di cui è incerta la derivazione causale da una determinata condotta, attiva od omissiva, colposa. A tale impostazione si contrappone, tuttavia, la tesi che identifica la perdita di chance con la lesione di un interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico. Per tale ultima opinione, denominata teoria ontologica, la chance è un bene giuridico autonomo già presente come posta attiva, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione (Cass. n. 4400/2004), nel patrimonio del danneggiato, il cui venir meno determina un danno emergente concreto ed attuale (Bianca, 2012,178;Franzoni, 83), in relazione al quale il danneggiato non deve dimostrare che l'utilità sarebbe stata conseguita con certezza, ma che sussistevano i presupposti per una seria e non trascurabile possibilità di ottenerla. All'alleggerimento dell'onere della prova del nesso causale si contrappone una riduzione quantitativa del risarcimento, il quale non va commisurato all'integrale valore del risultato utile, ma alla percentuale di possibilità di ottenimento dello stesso. Secondo l'altra soluzione ermeneutica, denominata tesi eziologica, la mancata realizzazione del risultato utile è la conseguenza dell'evento lesivo prodottosi, così che la perdita di chance integra, appunto, un danno conseguenza e, segnatamente, un lucro cessante. In quest'ottica l'utilità perduta non è un bene autonomo, ma un vantaggio, derivante dal bene oggetto della situazione soggettiva tutelata dal diritto leso, non ancora acquisito, il cui conseguimento può, però, astrattamente verificarsi con un grado di possibilità vicino alla certezza e che viene impedito dal fatto illecito altrui (Mastropaolo, 1988). La tesi da ultimo richiamata è stata fatta propria dalla giurisprudenza più risalente, secondo la quale il creditore-danneggiato deve fornire la prova del raggiungimento del risultato favorevole in base a circostanze certe e puntualmente dedotte (Cass. n. 9558/1998; Cass., sez. lav., n. 6506/1985), dovendo la possibilità perduta essere valutata secondo criteri di verosimiglianza, alla stregua dell'id quod plerumque accidit, in relazione ad una percentuale di probabilità superiore a quella relativa all'evento sfavorevole. Secondo l'orientamento maggioritario e più recente della giurisprudenza di legittimità la chance è, invece, un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione ed affatto coincidente con una mera aspettativa di fatto (Cass., n. 4400/2004; Cass., sez. lav., n. 16877/2008; Cass. S.U. n. 1850/2009; Cass., sez. lav., n. 18207/2014). La chance quale aspettativa di vantaggio patrimoniale. La chance è la possibilità di conseguire un risultato vantaggioso o di evitarne uno sfavorevole ed assume rilevanza giuridica nel caso in cui alla sua perdita consegua un danno risarcibile. Tale figura assume connotati differenti secondo che il risultato utile compromesso dall'illecito o dall'inadempimento sia di carattere patrimoniale (come in caso di perdita della possibilità di ottenere un risultato favorevole nell'ambito del rapporto di lavoro o di procedure di evidenza pubblica) o non patrimoniale (come in caso di perdita della possibilità di sopravvivenza nell'ambito della responsabilità professionale medica). La qualificazione giuridica della chance di natura patrimoniale e la questione dei limiti di risarcibilità del danno che deriva dalla sua definitiva frustrazione impegnano da tempo gli interpreti in un'interessante riflessione che, prendendo le mosse dalla dottrina francese, che per prima ha riconosciuto autonomia alla fattispecie, è pervenuta a soluzioni giuridiche differenziate sia sotto il profilo della collocazione sistematica della figura, sia sotto quello della tutela che ad essa può essere riconosciuta. Secondo una prima tesi la chance coincide con in mero interesse di fatto e, pertanto, non può ricevere autonoma tutela (Busnelli, 1965, IV, 47). Per altri (Castronovo, 545), pur fondandosi su di un interesse di fatto, essa trova tutela attraverso la figura del c.d. danno meramente patrimoniale. Un terzo orientamento vi intravede una figura di aspettativa di diritto la cui lesione integra un danno ingiusto (De Cupis, 1181). Alcuni degli autori che propendono per l'inquadramento della chance entro l'aspettativa di diritto pervengono alla conclusione che entrambe le figure giuridiche costituiscono presupposto di responsabilità solo tra soggetti determinati nell'ambito di una relazione giuridicamente rilevante e, quindi, non possono ottenere tutela ex art. 2043 c.c. (Mazzamuto, 49). Secondo altra opzione interpretativa la chance è, invece, un'entità patrimoniale, autonoma e tutelabile in via aquiliana, fondata sul potere di appropriazione. Non è necessario ricercare una situazione soggettiva nominata entro la quale ricondurre l'occasione favorevole di acquisizione di un'utilità, ma occorre verificare come sia valutato dall'ordinamento giuridico il fare, proprio o altrui, che avrebbe consentito l'appropriazione del vantaggio perduto. Il risarcimento in via aquiliana della chance dipende, secondo tale impostazione, dalla sua natura di «valore appropriabile» e l'appropriabilità è correlata non soltanto ad un'attribuzione esclusiva, ma anche al mero permesso, all'agere licere, nel cui ambito l'acquisizione di un valore economico costituisce espressione della libertà di azione (Barcellona). Tale tesi è stata sottoposta a critica da parte di chi (Mazzamuto, 49) ne ha evidenziato l'incompatibilità con la nozione di ingiustizia del danno su cui si impernia la responsabilità civile. Non ogni opportunità correlata alla libertà di fare può, infatti, giustificare, ove frustrata, la tutela risarcitoria perché, in questo modo il sindacato sull'ingiustizia del danno si sposterebbe dall'evento di danno, inteso come lesione di un interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico, al fatto lesivo. Né può ritenersi, a tal fine, sufficiente il fatto che la perdita di occasioni favorevoli abbia un'incidenza sull'integrità del patrimonio. Si è, infatti, osservato che tale incidenza vale esclusivamente a qualificare il danno da perdita di chance come danno patrimoniale, così precludendo la risarcibilità del danno in assenza di iniuria, senza che possa considerarsi appagante il ricorso alla concezione per la quale il risarcimento può essere accordato anche in caso di illecito senza lesione, per il solo fatto che il danneggiante abbia trasgredito ad un dovere di comportamento e da esso sia scaturita una perdita patrimoniale. Si è, inoltre, evidenziato che una ricostruzione siffatta avrebbe una connotazione spiccatamente sanzionatoria e colliderebbe con la concezione dominante secondo la quale ai sensi dell'art. 2043 c.c. la tutela risarcitoria può essere accordata solo nel caso di lesione di interessi giudicati dal legislatore come degni di tutela e non anche nell'ipotesi in cui, pur non configurandosi una lesione siffatta, il soggetto subisca, in conseguenza di una violazione di regole comportamentali, un pregiudizio al patrimonio. La dottrina da ultimo richiamata, muovendo da tali rilievi critici, è giunta alla conclusione per la quale l'unico ambito in cui la concezione del danno da perdita di chance come danno meramente patrimoniale può avere cittadinanza è quello della responsabilità contrattuale in cui trovano tutela, oltre agli interessi dedotti nel rapporto obbligatorio, anche quelli non incorporati nella prestazione ma ad essa collegati, tra cui rientra la possibilità di conseguire un risultato favorevole ulteriore rispetto a quello cui mira il rapporto obbligatorio stesso (Castronovo, 325;Mazzamuto). Secondo l'orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità la chance di natura patrimoniale è un'entità patrimoniale a sé stante e la sua frustrazione integra un danno patrimoniale risarcibile, quale danno emergente, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) consistente nella perdita di una possibilità attuale ed esige la prova, anche presuntiva, purché fondata su circostanze specifiche e concrete dell'esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità, la sua attuale esistenza (Cass. n. 19604/2016; Cass. n. 22376/2012). Questa perdita è risarcibile se il danneggiato dimostri, anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate, la sussistenza di un valido nesso causale tra il fatto e la ragionevole probabilità della verificazione futura del danno. Tale danno, non meramente ipotetico o eventuale (quale sarebbe stato se correlato al raggiungimento del risultato utile), bensì concreto ed attuale (perdita di una consistente possibilità di conseguire quel risultato), non va commisurato alla perdita del risultato, ma alla mera possibilità di conseguirlo. Chance, danno futuro e lucro cessante. Il danno da perdita di chance di carattere patrimoniale non va confuso con il danno futuro. Il primo consiste, infatti, nella privazione della possibilità di raggiungere il risultato sperato, mentre il secondo si traduce nella privazione di un risultato finale non interamente prodottosi (Franzoni, 446). Il danno da perdita di chance è un pregiudizio attuale, il danno futuro non si è ancora verificato nel momento del giudizio, ma il suo verificarsi è sicuro. Dal punto di vista strutturale, il danno da perdita di chance presenta tratti del tutto peculiari, coincidendo con la perdita della possibilità di conseguire un vantaggio e non con la perdita di detto vantaggio — il quale, infatti, proprio perché è caratterizzato da un elevato tasso di aleatorietà, non è dovuto — così che chi si duole della perdita di chance non invoca la tutela dell'interesse correlato ad un risultato finale che non gli spetta in termini di certezza e, quindi, di pretesa, ma, lamentando la perdita definitiva della possibilità di perseguirlo, domanda l'assegnazione di un valore corrispondente a tale sfumata possibilità. Il danno da perdita di chance va distinto anche dal lucro cessante. L'orientamento interpretativo maggioritario (c.d. tesi ontologica) nega detta assimilazione sul presupposto che il lucro cessante, a differenza della perdita di chance, è correlato ad un evento vantaggioso sicuro: più precisamente la prova della certezza del danno non riguarda il lucro in sé, bensì i presupposti ed i requisiti necessari affinché esso si determini. La certezza del mancato guadagno non può, in ogni caso, essere assimilata a quella necessaria per il risarcimento del danno emergente, atteso che quest'ultimo ha ad oggetto beni che normalmente già esistono nel patrimonio del danneggiato, mentre il lucro cessante costituisce una posta che non è presente in esso, né mai vi entrerà, se non nella forma del risarcimento. È stato, infatti, evidenziato che, ove si assimilasse al lucro cessante, la chance non potrebbe mai essere risarcita, perché non sarebbe possibile dimostrare la certezza dei presupposti per conseguirla (Bianca, 330;Visintini, 513). Il tratto che vale a contraddistinguere il danno da perdita di chance patrimoniale dal lucro cessante risiede, in definitiva, nell'assenza della certezza del risultato. Secondo l'orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità la perdita di chance costituisce un danno attuale e non futuro, e segnatamente un danno patrimoniale risarcibile quale danno emergente, qualora sussista un pregiudizio certo, consistente nella perdita di una possibilità attuale (Cass. n. 19604/2016). A fronte di tale impostazione si registra, tuttavia, un diverso indirizzo secondo il quale il danno patrimoniale da perdita di chance è un danno futuro, consistente non nella perdita di un vantaggio economico, ma nella perdita della mera possibilità di conseguirlo, «secondo una valutazione ex ante da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale» (Cass. n. 10111/2008; Cass. n. 2737/2015). La distinzione tra perdita di chance e lucro cessante si rinviene anche nelle pronunce di legittimità. La perdita di chance consistente nella privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell'attività lavorativa, costituisce, secondo la Suprema Corte, un danno patrimoniale risarcibile qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) consistente non in un lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita di una possibilità attuale, con la conseguenza che la chance è anch'essa un'entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno attuale e risarcibile, qualora si accerti, anche utilizzando elementi presuntivi, la ragionevole probabilità dell'esistenza di detta chance intesa come attitudine attuale (Cass. n. 12243/2007; Cass. 11322/2003). Perdita di chance e valori della persona. I risultati dell'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale in materia di perdita di chance di natura patrimoniale sono stati trasposti, sia pure con significativi adattamenti, anche nell'ambito del danno da perdita di occasioni favorevoli inerenti ai valori della persona e, segnatamente, nella fattispecie in cui da errori od omissioni nel trattamento sanitario consegua per il paziente la perdita di opportunità di guarigione o di sopravvivenza. Nel primo caso si è in presenza di un vero e proprio evento di danno rappresentato dal mancato conseguimento del risultato sperato(la guarigione del paziente), il cui verificarsi appariva ex ante connotato da un'elevata credibilità logico razionale, con la conseguenza che in caso di decesso i pregiudizi da esso derivanti devono essere integralmente risarcite agli eredi della vittima. La perdita di chance di sopravvivenza in senso propriosi verifica, invece, quando il paziente, a causa delle gravi condizioni di salute, gode di limitate aspettative di vita e il trattamento sanitario negligente o imperito gli impedisce il pieno sfruttamento di tali possibilità. È stato evidenziato (Rossetti, 662) come solo in quest'ultimo caso è ravvisabile la perdita di una chance vera e propria, ossia la privazione di una pura opportunità di guarigione a prescindere dalle probabilità di verificazione del risultato, perché nel primo caso si è in presenza di un danno certo, anche se futuro, qualificabile in termini di danno da impedita o ritardata guarigione. Nel caso di perdita di possibilità di sopravvivenza oggetto di compromissione è, infatti, un'attitudine propria della persona, coincidente con la capacità di sopravvivere in presenza di determinati processi patogeni in cui le opportunità di salvezza vanno misurate in base alle statistiche correlate allo specifico tipo di patologia che viene di volta in volta in rilievo. La nozione di probabilità non costituisce, pertanto, un bene immateriale oggetto di protezione, ma viene utilizzata per rappresentare una determinata situazione fisica del soggetto condizionata da una patologia potenzialmente letale (Ziviz, 1490). A differenza del danno da perdita di chance patrimoniale, la vanificazione dell'attitudine alla sopravvivenza deve essere tutelata a prescindere dal grado di possibilità di ottenimento dell'utilità (Pucella; Locatelli) e, quindi, anche quando l'esito letale appaia certo. La nozione di danno da perdita di possibilità di sopravvivenza appena delineato diverge nettamente dalla corrispondente figura di perdita di chance di natura patrimoniale, sia sotto il profilo dell'evento di danno, sia sotto quello del danno conseguenza. Quanto al primo, il bene interesse leso dalla condotta colposa del sanitario coincide, come si è detto, con l'attitudine alla sopravvivenza che è espressione del diritto alla vita del quale gode ogni individuo, compreso il paziente che, a causa di processi morbosi particolarmente gravi, versi in pericolo di morte (Ziviz, 1490 ). Secondo altra tesi il diritto leso è, invece, quello alla salute (Pucella). La lesione della chance di sopravvivenza dà, comunque, luogo ad una modificazione peggiorativa dello stato di salute del paziente e, quindi, ad un danno — conseguenza di natura non patrimoniale da quantificarsi partendo dal valore complessivo della totale soppressione della capacità di sopravvivenza dell'individuo rispetto alla quale il giudice dovrebbe operare una riduzione tale da rispecchiare la limitazione derivante dalla patologia potenzialmente mortale (Ziviz). La perdita di opportunità di sopravvivenza diverge dal modello della perdita di chance patrimoniale anche sotto il profilo della delimitazione del danno risarcibile. Nel primo caso va, infatti, esclusa una liquidazione costruita in termini percentuali in quanto non si tratta di riparare il danno derivante dal decesso in base alla percentuale di speranza di sopravvivenza, ma di procedere alla stima integrale di un pregiudizio che ha natura diversa (Ziviz;Locatelli) dal danno da morte e per il quale l'unico tipo di valutazione possibile è quella di carattere equitativo. In sede di aestimatio una parte della giurisprudenza di merito rapporta il danno da perdita di occasioni di sopravvivenza al danno da morte (per una quantificazione operata attraverso il riferimento al danno da perdita della vita, v. Trib. Roma, 27 novembre 2008, in cui la liquidazione è stata compiuta sulla base delle previsioni della l. n. 497/1999 in materia di indennizzo a favore delle vittime del disastro del Cermis). La stessa giurisprudenza, come la dottrina, enuclea nell'ambito della categoria del danno da perdita delle chance di sopravvivenza due autonome fattispecie. Viene in rilievo, da un lato, il caso in cui la condotta colposa del medico ha ridotto, con certezza o con ragionevole probabilità, la speranza di vita futura del paziente; e, dall'altro, l'ipotesi in cui la condotta del medico ha privato il paziente non della salute o della vita, ma della mera possibilità di guarire. Con riferimento a tale ultima ipotesi la Suprema Corte ha stabilito che integra danno alla salute la perdita della qualità di vita conseguente alla ritardata diagnosi di una malattia, così come è risarcibile il danno non patrimoniale conseguente all'impedita possibilità di scegliere tempestivamente «nell'ambito di quello che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all'esito infausto, è anche messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche» (Cass. n. 23846/2008). Secondo la pronuncia appena richiamata al danneggiato, se in vita al momento della liquidazione e, in caso di decesso anteriore ad essa, ai suoi eredi, spetta, infine, il maggior danno derivante dalla sottoposizione a trattamenti chirurgici o terapeutici più invasivi di quelli che avrebbe potuto essere eseguiti in caso di diagnosi più tempestiva. Parte della giurisprudenza di merito ha, infine, fatto proprio l'assunto per il quale in caso di perdita di possibilità di sopravvivenza oggetto di compromissione è un'attitudine propria della persona, coincidente con la capacità di sopravvivere in presenza di determinati processi patogeni in cui le opportunità di salvezza vanno misurate in base alle statistiche correlate allo specifico tipo di patologia che viene di volta in volta in rilievo (Trib. Reggio Emilia, 19 ottobre 2007, in Resp. civ. e prev., 2008, 2370). La più recente giurisprudenza di legittimità ha offerto nuovi e significativi spunti alla riflessione sul danno da perdita di chance non patrimoniale. La Corte di Cassazione (Cass. n. 5641/2018) ha, innanzitutto, evidenziato l'insufficienza del c.d. “modello patrimonialistico”, che storicamente ha costituito il riferimento teorico dell'evoluzione giurisprudenziale in tema di perdita di chance, ritenendo che esso mal si concilia con la perdita della possibilità di conseguire un risultato migliore sul piano non patrimoniale. La chance patrimoniale presenta, infatti, le caratteristiche dell'interesse pretensivo così come costruito dalla dottrina amministrativa e, quindi, postula la preesistenza di un quid su cui sia andata ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante, impedendone la possibile evoluzione migliorativa. La chance “non pretensiva”, invece, pur essendo anch'essa rappresentata, sul piano funzionale, dalla possibilità di conseguire un risultato migliorativo della situazione preesistente, è morfologicamente diversa dalla prima, in quanto si innesta su una pregressa situazione sfavorevole (di norma consistente in uno stato patologico), rispetto alla quale non può rinvenirsi un quid inteso come preesistenza positiva. Ne consegue che, in sede risarcitoria, occorre tenere conto di tale diversità, sia pure sul piano strettamente equitativo, ai fini della liquidazione del danno, così che il risarcimento non può essere proporzionale al “risultato perduto”, ma va commisurato, in via equitativa, alla “possibilità perduta” di realizzarlo (intesa quale evento di danno rappresentato in via diretta ed immediata dalla minore durata della vita e/o dalla peggiore qualità della stessa). Tale “possibilità”, per integrare gli estremi del danno risarcibile, deve necessariamente attingere ai parametri dell'apprezzabilità, serietà e consistenza, rispetto ai quali il valore statistico-percentuale, ove in concreto accertabile, può costituire solo un criterio orientativo, in considerazione dell'infungibile specificità del caso concreto. In merito alla distinzione tra il danno da perdita di chance di guarigione o sopravvivenza e il danno subito dal malato terminale in conseguenza dell'incompleta informazione da parte del sanitario e consistente in un pregiudizio alla qualità della vita nel tempo conclusivo dell'esistenza, i giudici di legittimità (Cass. n. 6688/2018) hanno chiarito che sul sanitario che esegua un esame diagnostico grava l'obbligo di informare il paziente, in forma completa e con modalità congrue al livello di conoscenze scientifiche dello stesso, sugli esiti dell'accertamento, sul grado di rischio delle patologie riscontrate e sulla necessità ed urgenza di ulteriori approfondimenti diagnostici, dal cui inadempimento può conseguire in capo al paziente un danno da perdita di chance di guarigione o di sopravvivenza. Questo danno presuppone che il paziente, benché malato grave o anche gravissimo, abbia, tuttavia, ancora dinanzi - ove la condotta medica fosse corretta - la possibilità di uscire da tale situazione mediante una guarigione o una sopravvivenza di entità consistente, misurabile in termini di anni (cd. lungo-sopravvivenza), e si distingue dal diverso pregiudizio alla qualità della vita nel tempo conclusivo dell'esistenza, il quale presuppone, invece, che il paziente versi nella condizione di malato terminale, la cui sopravvivenza - sempre nell'ipotesi di condotta medica corretta - sia circoscritta ad un tempo limitato, misurabile in termini di poche settimane o di pochi mesi. Tale ultimo pregiudizio non è riconducibile al danno da perdita di chance in quanto non attiene al mancato conseguimento di qualcosa che il soggetto non ha mai avuto sotto il profilo della mera possibilità di ottenerlo, ma concerne la lesione del diritto relativo a beni che il soggetto già aveva, ovvero il diritto alle cure palliative per mantenere il fisico in uno stato sensorialmente tollerabile, il diritto all'esercizio delle proprie capacità psicofisiche e alla conseguente gestione libera e consapevole di sé stesso e di cui la condotta medica lo ha privato. BibliografiaAuletta, Modelli familiari, disciplina applicabile e prospettive di riforma, in Nuove leggi civ. comm., 2015, 3, 615 e ss.; Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 2012; Bianca, Dell'inadempimento delle obbligazioni, in Comm. 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